martedì 16 giugno 2009

Moglie chatta con altro uomo? Non commette abuso familiare.

Una sentenza anche questa che può lasciare perplesso chiunque.
Secondo la sentenza del Tribunale di Salerno la moglie che instaura una relazione "virtuale" chattando con altro uomo, benchè violi in tal modo i doveri di fedeltà coniugale, non commette un abuso familiare tale da poter giustificare l'adozione di un ordine di protezione di cui agli articoli 342 bis e 342 ter del codice civile con conseguente suo allontamento dalla casa familiare.
Una simile condotta, secondo quanto emerge dalla sentenza del Tribunale di Salerno del 20.5.09, non configura quel "grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente" indicata dall'art. 342 bis.
Il Tribunale, occupandosi del caso di una donna sorpresa dal marito a chattare nelle ore notturne con un'altro, ha chiarito che per potersi configurare un pericolo d'un grave danno all'integrità fisica o morale, tale da giustificare l'allontanamento da casa di uno dei coniugi, occorre, trovarsi di fronte a "reiterate azioni ravvicinate nel tempo e consapevolmente dirette a ledere i beni tutelati dalla l. n. 154 del 2001".
In sostanza, l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà e la derivante violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale, non integrano i presupposti richiesti dagli art. 342 bis e 342 ter c.c. per l'adozione del provvedimento protettivo.

Accertamento notificato nella casa dove è rimasta la ex? Non è valido.

Interessante la sentenza n. 13510/09 della Sezione Tributaria Civile della Corte di Cassazione che ha stabilito che non è valido l’accertamento fiscale notificato nella casa dove è rimasta a vivere la ex moglie e ciò anche se lei ha accettato il plico e si è presentata come la coniuge.
Gli Ermellini hanno infatti precisato che “con riferimento all’art. 60 d.p.r. n. 600 del 1973, atteso che esso prescrive che la notificazione degli avvisi deve essere eseguita presso il domicilio fiscale del contribuente, ma stabilisce, nel contempo, che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dall’avvenuta variazione anagrafica (comma 3).
In particolare, tale lettura della norma si impone a seguito della sua declaratoria di illegittimità operata dalla sentenza n. 360 del 2003 della Corte costituzionale, che ha espunto l’inciso che condizionava l’efficacia della variazione al decorso del termine di 60 giorni (…). L’interpretazione di tale disposizione patrocinata dall’Ufficio ricorrente, secondo cui la variazione dell’indirizzo avrebbe efficacia trascorsi 60 giorni nemmeno dalla variazione anagrafica, quanto dalla successiva comunicazione della stessa parte del comune all’Ufficio medesimo, appare pertanto del tutto insostenibile alla luce del sopravvenuto (rispetto alla data di proposizione del ricorso) arresto del giudice delle leggi”.
“Né può essere condivisa – prosegue la Corte – la tesi dell’Amministrazione che, lamentando la violazione dell’art. 139 cod. proc. civ., assume la validità della notifica in discorso per essere stato comunque l’atto ricevuto da persona (il coniuge) qualificatosi convivente.
Da tale dichiarazione non può invero trarsi altro che una mera presunzione relativa di convivenza (…), presunzione, a sua volta, superabile dall’interessato mediante prova contraria, prova che, nella specie, il giudice a quo, con accertamento di fatto non censurabile se non sotto il profilo – qui non rilevato – del difetto di detta motivazione, ha ritenuto assolta in forza della documentazione da cui risultava sia il precedente cambio di indirizzo della residenza anagrafica del contribuente rispetto al luogo in cui era stata eseguita la notificazione, che l’intervenuta separazione personale con il coniuge che aveva ricevuto la notifica”.

domenica 14 giugno 2009

I figli vanno mantenuti (quasi sempre).

Una sentenza questa la numero 8227/09 che potrebbe far discutere o essere condivisibile o meno dalla maggior parte. La sentenza riguarda il caso dei figli di genitori separati.
La Corte di cassazione infatti ha ribadito che finché i figli non hanno trovato un lavoro sicuro hanno diritto ad essere mantenuti salvo che non si dimostri siano scansafatiche.
Anche l'attività da precario non basta per esimere i genitori da tale obbligo.
Insomma per dire stop al mantenimento bisogna aspettare che i figli trovino un lavoro con una concreta prospettiva di continuità, altrimenti si deve dimostrare che i figli sono degli scansafatiche e che, pur posti nelle condizioni di addivenire all'autosufficienza, non ne abbiano tratto profitto per loro colpa.
Il caso esaminato riguarda un padre separato che non voleva più mantenere le figlie ultraventenni dato che si erano già avviate ad un'attività lavorativa adeguata ai loro titoli di studio e che erano anche titolari di un conto corrente. Ciascuna delle figlie poi possedeva anche una macchina. La Suprema Corte ha accolto solo in parte il ricorso del padre rilevando che i giudici di merito non gli avevano dato la possibilità di provare la raggiunta indipendenza economica da parte delle figlie essendosi limitati a sentire solo le ragazze.
Nella sentenza in ogni caso i supremi giudici hanno ricordato che "l'obbligo di concorrere al mantenimento dei figli persiste finchè essi non abbiano raggiunto l'indipendenza economica attraverso un'attività lavorativa con concrete prospettive di indipendenza ovvero non sia provato che, posti nelle concrete condizioni di addivenire a detta autosufficienza, non ne abbiano tratto profitto per loro colpa". Infatti "l'espletamento di un lavoro precario, limitato nel tempo, non è sufficiente per esonerare il genitore da un tale obbligo di mantenimento, non potendosi in tal caso affermare che si sia raggiunta l'indipendenza econonomica, la quale richiede una prospettiva concreta di continuita'". In ogni caso, al padre tenuto al mantenimento "deve essere assicurata la possibilità di provare la raggiunta indipendenza economica dei figli".

martedì 9 giugno 2009

Se l'apparecchio autovelox non è segnalato la sanzione è nulla

A distanza di due anni dalla prima pronuncia in materia (Cass., sez. II civile, sentenza 31.05.2007, n° 12833), la Suprema Corte torna ad esaminare la natura della disposizione di cui all’art. 4, D.L. 20 giugno 2002, n. 121 (conv. in L. 168/02) che prevede l’obbligo, a carico degli organi di polizia stradale, di informare gli automobilisti della presenza di dispositivi di rilevamento a distanza delle infrazioni.
Confermando l’orientamento già espresso la Seconda Sezione con la sentenza n. 7419 del 26.3.09 ha rigettato il ricorso proposto dal Ministero dell’Interno confermando la natura cogente della segnalazione, trattandosi di norma di garanzia per l’automobilista la cui inosservanza determina la nullità della sanzione irrogata.
Disattendendo l’interpretazione fornita dal Ministero dell’Interno, secondo la quale la norma in oggetto pone una disposizione "di carattere meramente organizzativo e precauzionale", che non interferisce "con la legittimità procedimento sanzionatorio", la Corte di Cassazione (Presidente G. Settimj, Relatore P. D'Ascola) precisa che l'obbligo di informazione ivi previsto non può avere efficacia soltanto nell'ambito dei rapporti organizzativi interni alla p.a. (cfr in tal senso Cass. 12833/07), ma è finalizzato a portare gli automobilisti a conoscenza della presenza dei dispositivi di controllo, onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di violazioni con metodiche elettroniche. Si tratta dunque di norma di garanzia per l'automobilista, la cui violazione non è priva di effetto, ma cagiona la nullità della sanzione.
Degna di menzione, inoltre, appare la questione preliminare sul difetto di legittimazione passiva della Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo che è competente sulle opposizioni ad ordinanze ingiunzioni emesse dal Prefetto e non sull'opposizione a verbale di contestazione di sanzioni amministrative. In caso di opposizione proposta avverso il verbale di accertamento di violazione al codice della strada redatto da appartenenti alla polizia stradale, infatti, la legittimazione passiva nel relativo giudizio appartiene al Ministero dell'Interno, essendo a questa amministrazione centrale attribuite specifiche competenze in materia di circolazione stradale, nonché il compito di coordinare i servizi di polizia stradale, anche se espletati da organi appartenenti ad altre amministrazioni centrali (Cass. 17677/06; 4195/06).

Sì alla pensione di reversibilità per il coniuge ''superstite'' separato con colpa

Interessantisima la sentenza 25.02.09 n. 4555 (a cura di Roberto Francesco Iannone) della Corte di Cassazione, sezione lavoro circa il diritto alla pensione di reversibilità per il coniuge ''superstite'' separato con colpa.
Secondo la Corte di casazzione l'addebito della separazione non è un elemento discriminante ai fini dell'erogazione della pensione di reversibilità in favore del coniuge “superstite” nei cui confronti è stata dichiarata la separazione per colpa o con addebito. A tal fine non rileva la circostanza che il coniuge defunto non era tenuto in concreto a versare l’assegno di mantenimento o alimentare.
Ad impugnare le decisioni di merito è stata l’INPS.
La Suprema Corte di Cassazione però tornando nuovamente sull’argomento ha precisato il suo recente indirizzo già favorevole al riconoscimento della pensione di reversibilità nei confronti del coniuge “superstite” separato con addebito o colpa.
E’ opportuno premettere che la tutela previdenziale, in caso di divorzio, trova la sua disciplina nell’art. 9 della legge n. 898/1970 del testo novellato dall'art. 13 della legge n. 74/1984. Specifico oggetto di dibattito sono i commi 2 e 3 di tale articolo, che subordinano il diritto del divorziato alla corresponsione della pensione di reversibilità in presenza di alcuni presupposti specifici: a) il rapporto di lavoro, da cui trae origine il trattamento pensionistico, deve essere sorto anteriormente alla sentenza di scioglimento del matrimonio; b) il coniuge divorziato non deve essere passato a nuove nozze; c) il coniuge divorziato deve essere titolare dell'assegno ex art. 5 della legge n. 898/1970. In particolare la legge richiede dunque, che il coniuge superstite, per godere di tale beneficio economico sia titolare di un assegno divorzile.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 286/1987, ritenendo sussistente un discrimine tra il coniuge separato rispetto al coniuge divorziato ha ampliato la portata della norma estendendo il trattamento previdenziale de quo anche al coniuge superstite separato con colpa o addebito.
Il riferimento alla separazione con colpa ovvero addebito non è casuale. Dopo la riforma del diritto di famiglia (legge n. 151/1975) è stato soppresso l'istituto della separazione per colpa e, sebbene quello dell'addebito sia, a certi effetti, equiparato all'altro dall'art. 151, secondo comma, del codice civile (nuovo testo) è dubbio, come affermano i giudici della Corte Costituzionale nella sentenza citata « che, dopo detta soppressione, al coniuge separato con addebito possa disconoscersi il diritto alla pensione di riversibilità in base alla norma dettata con espresso riferimento al caso di separazione per colpa».
La pronuncia in commento suscita interesse in quanto supera una querelle che si protrae da tempo in dottrina e giurisprudenza ove si discute se « il titolare di assegno ai sensi dell'art. 5 della legge n. 898/1970 in materia di divorzio» faccia o meno riferimento alla titolarità in astratto (quale mero potenziale destinatario dell’assegno), oppure alla titolarità in concreto dell’assegno medesimo.
Parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene infatti ai fini del riconoscimento del diritto all’erogazione della pensione di reversibilità, che non sia sufficiente per il coniuge “supersiste” dimostrare una titolarità astratta dell'assegno di divorzio, atteso che, nel linguaggio corrente, come anche in quello giuridico, la titolarità di un diritto presuppone la sua esistenza in concreto.
Pertanto secondo tale orientamento, se il coniuge superstite fino a quel momento non era titolare in concreto di un assegno di divorzio, non può avanzare alcuna pretesa. Dunque, la liquidazione dell'assegno di divorzio costituirebbe una condicio sine qua non per la nascita del diritto alla pensione di reversibilità. Favorevole nel ritenere sufficiente al fine di ottenere la pensione di reversibilità è altra parte della dottrina e giurisprudenza.
Tornando alla pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 4555/2009 di cui ci stiamo occupando, i giudici di legittimità sanciscono il diritto alla pensione di reversibilità nei confronti del coniuge “superstite” separato con colpa o addebito riconoscendo, pertanto, la legittimazione di un soggetto che in realtà non avrebbe la titolarità astratta e concreta dell’assegno di mantenimento per gli effetti negativi di cui all’art. 156 cod. civ., come non sarebbe titolare dell’assegno alimentare laddove non vi fosse la sussistenza del presupposto del bisogno economico.
Orbene, la pronuncia riprende un indirizzo già espresso in due precedenti pronunce per cui « il coniuge separato per colpa, o al quale la separazione sia stata addebitata, è equiparato, in tutto e per tutto, al coniuge superstite, separato e non, ai fini della pensione di reversibilità, atteso che opera in suo favore la presunzione legale di vivenza a carico del lavoratore al momento della morte, ed indipendentemente dalla circostanza che versi o meno in stato di bisogno o sia beneficiario di un assegno di mantenimento o altra provvidenza di tipo alimentare».
Questo originario orientamento espresso dalla Cassazione ha posto non pochi dubbi e perplessità che hanno indotto nel 2004 la Suprema Corte a compiere un passo indietro precisando che « la pensione di reversibilità va riconosciuta al coniuge separato per colpa o con addebiti, quando a carico del coniuge poi defunto era stato posto un assegno alimentare in considerazione dello stato di bisogno dell'altro coniuge».
Secondo questa pronuncia il coniuge supersite separato con colpa o con addebito che non può ritenersi titolare in astratto né in concreto di un assegno di mantenimento per gli effetti previsti dal codice civile, per ambire alla pensione di reversibilità dovrebbe comunque dimostrare la titolarità dell’assegno alimentare.
Nella pronuncia in commento, invece, i giudici della sezione lavoro smentiscono questo orientamento precedente affermando che « Nè questo Collegio ritiene convincente l'orientamento (cfr. Cass. n. 11428 del 2004), fatto proprio dall'INPS, pur esso intervenuto dopo l'intervento del giudice delle leggi, secondo cui nell'ipotesi in cui il coniuge defunto non era tenuto al mantenimento o all'assegno alimentare in considerazione dello stato di bisogno dell'altro coniuge, in mancanza del presupposto della "vivenza a carico" e della funzione di sostentamento da proseguire, dovrebbe escludersi il diritto alla pensione di reversibilità, in quanto a seguito della sentenza costituzionale n. 286/1987, anche per il coniuge separato per colpa o con addebito della separazione, ai fini del diritto alla pensione di reversibilità, opera la presunzione legale di "vivenza a carico" del lavoratore assicurato al momento della morte».
Se anche il coniuge defunto non era tenuto a versare l’assegno di mantenimento o alimentare al coniuge superstite (perché era stata dichiarata sentenza con addebito ovvero non vi era in quel frangente lo stato di bisogno), sussiste ugualmente il diritto alla pensione di reversibilità per il coniuge “superstite”.
Dunque per i giudici di legittimità non vi sono dubbi: non solo non rileva il titolo della separazione ma non rileva, nemmeno la circostanza se l’assegno era di fatto versato o meno.
In conclusione la pronuncia in commento oltre ridefinire in melius il proprio orientamento induce a riflettere, alla luce di questo indirizzo manifestato dalla Suprema Corte di Cassazione in tema di separazione, se la diatriba in ordine alla titolarità in astratto o in concreto dell’assegno di divorzio possa considerarsi oramai superata.
(Altalex, 5 giugno 2009. Nota di Roberto Francesco Iannone)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 25 febbraio 2009, n. 4555
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROSELLI Federico - Presidente -
Dott. DE RENZIS Alessandro - rel. Consigliere - Dott. LA TERZA Maura - Consigliere -
Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere - Dott. DI CERBO Vincenzo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

sentenza
sul ricorso proposto da:

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore Avv. S.G.P., elettivamente domiciliato in Roma, Via della Frezza 17 presso l'Avvocatura Centrale dello stesso Istituto, rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dagli Avv.ti xxx, vvv e gggg per procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
T.L., rappresentata e difesa dall'Avv. yyy ed elettivamente domiciliata in Roma, Via llll, presso lo studio dell'Avv. hhhhh come da procura in atti rep. 000 del 00/00/00 notaio jjj;
- costituita con procura -
per la cassazione della sentenza n. 68/05 della Corte di Appello di Perugia del 17.02.2 005/25.05.2 005 nella causa iscritta al n. 103 del R.G. anno 2004;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22.01.2009 dal Cons. Dott. Alessandro De Renzis;
udito l'Avv. Roberto Spoldi per T.L.;
sentito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. RIELLO Luigi, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
Fatto
Con ricorso, depositato il 10.06.2002, T.L. esponeva:
- di avere contratto matrimonio in data **** con Sc.Ma.;- che dal matrimonio erano nati i figli D. e V. attualmente maggiorenni;- che con sentenza n. 145 del 1989 il Tribunale di Terni aveva dichiarato la separazione personale con addebito ad entrambi i coniugi senza diritto ad assegno di mantenimento;
- che lo Sc. aveva versato ad essa ricorrente, stante il suo stato di necessità, una somma mensile di L. 300.000 e poi di L. 500.000;
- che lo Sc. era deceduto nel ****;
- che invano essa ricorrente aveva chiesto all'INPS l'erogazione della pensione di reversibilità.
Nel costituirsi l'INPS contestava le avverse deduzioni e chiedeva il rigetto del ricorso.
All'esito, espletata prova per testi, il Tribunale di Terni con sentenza n. 764 del 2003 accoglieva il ricorso e per l'effetto riconosceva a favore della ricorrente il diritto alla pensione di reversibilità.
Tale decisione, impugnata dall'INPS, è stata confermata dalla Corte di Appello di Perugia con sentenza n. 68 del 2005. La Corte ha osservato che la Corte Costituzionale con sentenza n. 286 del 1987 ha dichiarato l'illegittimità della L. n. 153 del 1969, art. 24, nella parte in cui esclude dall'erogazione della pensione di reversibilità il coniuge separato per colpa con sentenza passata in giudicato.
Ciò posto, il giudice di appello ha ritenuto che la sentenza del giudice delle leggi, nel dichiarare l'illegittimità dell'anzidetta norma, non abbia previsto alcuna condizione limitativa, sicchè nel caso di specie la pensione di reversibilità spettava alla ricorrente indipendentemente dall'addebito di colpa in sede di separazione.L'INPS ricorre con un solo motivo.
La T. si è costituita e on procura partecipando con il suo difensore alla udienza di discussione.
Diritto
1. Con l'unico motivo del ricorso l'INPS denuncia:
- violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 636 del 1939, art. 13, convertito nella L. n. 1272 del 1939, come sostituito dalla L. n. 218 del 1952, art. 2, e dalla L. n. 903 del 1965, art. 22;
- violazione della L. n. 153 del 1969, art. 24, come vagliato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 286 del 1987;
- vizio di motivazione.
Il tutto in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
In particolare il ricorrente si richiama a un precedente di questa Corte (sentenza n. 11428 del 2004), sostenendo che nell'ipotesi in cui il coniuge defunto non sia tenuto al pagamento dell'assegno di mantenimento ne di assegno alimentare in considerazione dello stato di bisogno dell'altro coniuge, in mancanza del presupposto della "vivenza a carico", non sussistendo una precedente funzione di sostentamento da proseguire, deve escludersi il diritto del superstite alla pensione di reversibilità.
2. Il motivo è infondato.
La Corte Costituzionale, come ricordato dalla sentenza impugnata, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della L. n. 153 del 1969, art. 24, nella parte in cui tale disposizione esclude "dalla erogazione della pensione di reversibilità il coniuge separato per colpa con sentenza passata in giudicato".
Il nucleo essenziale della motivazione della decisione del giudice delle leggi è che non è più giustificabile, dopo la riforma dell'istituto della separazione personale, introdotto dal novellato art. 151 c.c., il diniego al coniuge, cui sia stata addebitata la separazione, di una tutela che assicuri la continuità dei mezzi di sostentamento che il defunto coniuge sarebbe tenuto a fornirgli ed inoltre che sussiste disparità di trattamento rispetto al coniuge divorziato al quale la pensione di reversibilità è corrisposta quando sia titolare dell'assegno di divorzio, oltre che rispetto al regime della reversibilità operante per il coniuge del dipendente statale separato per colpa.
La motivazione del giudice delle leggi, se conduce ad equiparare con sicurezza la separazione per colpa a quella con addebito, non autorizza l'interprete a ritenere che sia residuata una differenza di trattamento per il coniuge superstite separato in ragione del titolo della separazione. Se è possibile individuare contenuti precettivi ulteriori, essi riguardano esclusivamente il legislatore, autorizzato senza dubbio a disporre che il coniuge separato per colpa o con addebito abbia diritto alla reversibilità ovvero ad una quota, solo nella sussistenza di specifiche condizioni. D'altro canto l'attuale assetto normativo, come determinato dall'intervento della Corte Costituzionale, non può essere sospettato di contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto la posizione del coniuge separato non è comparabile con quella del divorziato, mentre il diverso trattamento riservato ai dipendenti statali potrebbe indurre e a dubitare della legittimità di questo e non certo del trattamento più favorevole del settore privato (in questo senso Cass. n. 15516 del 2003).
Su tali presupposti questo Collegio ritiene corretta la decisione di appello impugnata, atteso che, venuta meno l'esclusione disposta dalle norme dichiarate incostituzionali, il coniuge separato per colpa o per addebito è equiparato in tutto o per tutto al coniuge superstite (separato o non) ai fini della pensione di reversibilità, a lui spettante a norma del R.D.L. n. 636 del 1939, art. 13, nel testo sostituito dalla L. n. 903 del 1965, art. 22.
Nè questo Collegio ritiene convincente l'orientamento (cfr. Cass. n. 11428 del 2004), fatto proprio dall'INPS, pur esso intervenuto dopo l'intervento del giudice delle leggi, secondo cui nell'ipotesi in cui il coniuge defunto non era tenuto al mantenimento o all'assegno alimentare in considerazione dello stato di bisogno dell'altro coniuge, in mancanza del presupposto della "vivenza a carico" e della funzione di sostentamento da proseguire, dovrebbe escludersi il diritto alla pensione di reversibilità, in quanto a seguito della sentenza costituzionale n. 286/1987, anche per il coniuge separato per colpa o con addebito della se-parazione, ai fini del diritto alla pensione di reversibilità, opera la presunzione legale di "vivenza a carico" del lavoratore assicurato al momento della morte (in questo senso Cass. n. 15516 del 2003 citata).
A conferma della impugnata decisione può da ultimo osservarsi che l'INPS non ha espressamente contestato la sentenza impugnata laddove, nella narrativa dello svolgimento del processo, espone che lo Sc. aveva comunque versato alla moglie T., stante il suo stato di necessità, una somma mensile di L. 300.000 e poi di L. 500.000.
3. In conclusione il ricorso dell'INPS è destituito di fondamento e va rigettato.Ricorrono giusti motivi, tenuto conto del riferito contrasto giurisprudenziale sulla questione, per compensare tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Nulla per le spese.
Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2009.

venerdì 5 giugno 2009

Interessante sentenza sulla truffa dell'avvocato e sulla intercettazione.

La II Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 20066/09 ha stabilito che commette reato per truffa e patrocinio infedele l’avvocato che, con una finta causale, si fa lasciare dal suo assistito del denaro a titolo di deposito cauzionale non necessario.
I giudici hanno precisato che “per la sussistenza del reato di patrocinio infedele è necessaria, quale elemento costitutivo del reato, la pendenza di un procedimento nell’ambito del quale deve realizzarsi la violazione degli obblighi assunti con il mandato, che peraltro non deve necessariamente estrinsecarsi in atti o comportamenti processuali. Il delitto di patrocinio infedele è reato proprio, il cui soggetto attivo deve essere il ‘patrocinatore’; ne consegue che essendo detta qualità inscindibile dallo svolgimento di attività processuali, ai fini dell’integrazione del reato non è sufficiente che un avvocato non adempia ai doveri scaturenti dall’accettazione di un qualsiasi incarico di natura legale, ma occorre la pendenza di un procedimento nell’ambito del quale si sia realizzata la violazione degli obblighi assunti con il mandato. (…)”.
Infine la Corte precisato che “integra il delitto la condotta del difensore che si appropri di somma ottenuta in via transattiva per conto della parte assistita in un giudizio in corso”.
Con una ulteriore e importante precisazione la Corte ha stabilito che “la registrazione fonografica di conversazioni o comunicazioni realizzata, anche clandestinamente, da soggetto partecipe di dette comunicazioni, o comunque autorizzato ad assistervi, costituisce prova documentale secondo la disciplina dell’art. 234 c.p.p. e non richiede autorizzazione preventiva da parte dell’autorità giudiziaria. La circostanza che oggetto delle registrazioni siano state conversazioni intercorse tra il difensore e il suo cliente non incide sull’utilizzabilità delle stesse, in quanto il divieto di cui all’art. 103 c. 5 cod. proc. pen. riguarda le intercettazioni regolate dall’art. 266 e ss., vale a dire le captazioni occulte e contestuali di comunicazioni o conversazioni tra due o più soggetti tendenti ad escludere l’intrusione di soggetti diversi, captazioni effettuate da soggetto estraneo alle stesse mediante strumenti tecnici idonei a vanificare le cautele adottate per garantirne la riservatezza. La registrazione effettuata da soggetto partecipe della conversazione, anche se all’insaputa dell’altro, non è definibile intercettazione perché rientra nella diversa categoria della documentazione, disciplinata dagli artt. 234 e segg.”.

Il pedone non ha sempre ragione.

Interessante la sentenza n. 5063 del 3.3.09 della III sezione civile della Corte di cassazione.
Il procedimento riguarda un pedone a seguito di un incidente stradale poi deceduto.
Gli eredi hanno proposto ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte di Appello di Milano del 9.3. 2.4/06 che aveva confermato la sentenza del locale Tribunale del 9.1.02 con la quale aveva ritenuto la esclusiva responsabilità del pedone nella causazione dell'incidente.
I giudici di appello hanno premesso che la prova liberatoria per il conducente di un autoveicolo può risultare anche indirettamente dall'accertamento che il comportamento della vittima sia stato causa esclusiva dell'evento dannoso, comunque non evitabile dal conducente.
Nel caso di specie, dalla risultanze processuali era emerso che il pedone aveva attraversato la strada improvvisamente in un punto in cui non vi era passaggio pedonale. Egli avrebbe dovuto quindi dare la precedenza ai veicoli.
Il conducente del veicolo procedeva a velocità non elevata adeguata alle circostanze di tempo e di luogo, come dimostravano le tracce di frenata ed il punto d'urto. Aveva tentato di frenare per evitare l'urto non appena avvedutosi del fatto che il pedone iniziava l'attraversamento della strada.
Avverso tale decisione gli eredi del pedone deceduto hanno proposto ricorso per cassazione.
La Corte di Cassazione ha stabilito che, la Corte di appello milanese, con motivazione logica che sfugge a qualsiasi censura, ha preso in esame tutte le risultanze istruttorie ed ha concluso che l'evento mortale si era verificato per esclusiva colpa della vittima, che ebbe ad attraversare improvvisamente la strada, proseguendo l'attraversamento dopo aver lasciato scorrere il veicolo dinanzi a sè.
La rottura dell'indicatore luminoso direzionale destro, sistemato tra montante anteriore e parafango, dimostrava che era stato il pedone ad urtare la vettura, quando questa era già in parte passata dinanzi a lui.
Tutto ciò dimostrava, ha concluso la Corte, che il pedone non aveva ispezionato con attenzione la carreggiata e non si era arrestato quando l'auto lo aveva già parzialmente superato.
A carico del conducente del veicolo sarebbe stato possibile ipotizzare una qualche responsabilità solo nel caso in cui fosse risultato che lo stesso avesse tenuto una velocità non adeguata alle condizioni di tempo e di luogo.
Nulla di tutto ciò era invece emerso nel giudizio civile ed in quello penale, conclusosi con l'assoluzione del conducente dell'auto con formula ampia.
Il conducente dell'autoveicolo, ha riconosciuto la Corte territoriale, non ebbe a violare alcuna noma, nè di legge nè di prudenza, ma fece tutto il possibile per evitare il danno, tentando di porre in essere una manovra di emergenza.
Non solo nel caso di specie ha ritenuto di disattendere anche le censure sulla violazione da parte dei giudi di merito degli articoli 141 e 191 codice della strada, artt. 2054 e 1227 c.c., con le quali si è contestato il carattere imprevedibile dell'attraversamento e riproposto la questione della colpa concorrente del conducente dell'auto, per non avere uniformato la propria condotta di guida alle prescrizioni di cui all'art. 141 C.d.S..
A nulla è servito che i ricorrenti hanno ribadito che il pedone venne investito dalla parte anteriore destra del veicolo e non già dalla fiancata laterale destra in quanto trattasi di questioni attinenti alla ricostruzione delle modalità dell'incidente e, dunque, a questioni di merito, in ordine alle quali il giudice di appello ha fornito sufficiente e congrua motivazione.
La Corte in definitiva ha concluso per il rigetto del ricorso.

giovedì 4 giugno 2009

Vittime di tamponamento? Risarcimento ridotto se non portano le cinture di sicurezza.

Non condivido del tutto la sentenza n. 12547 del 28.5.09 della III Sez. Civile della Corte di Cassazione con la quale ha rigettato il ricorso di un uomo ma soprattutto di una donna che aveva subito un tamponamento a Napoli.
Tanto più per quel che riguarda la donna che nel caso specifico era incinta ed è irrilevante secondo la mia umile opionione che la donna nel momento del tamponamento non avesse la certificazione del ginecologo poichè la sua gravidanza è stata accertata successivamente.
In sostanza la Corte di cassazione con citata sentenza ha stabilito che non portare la cintura di sicurezza determina un risarcimento del danno ridotto.
Secondo me l'uso delle cinture di sicurezza dovrebbe essere facoltativo e non invece obbligatorio.
Dico questo perchè ogni conducente di auto che si mette alla guida deve essere consapevole di trasportare dei passeggeri e quindi avere una condotta di guida prudente in ogni circostanza.
Tuttavia con la sentenza in questione i giudici di legittimità hanno stabilito che “nella produzione del danno ha concorso il comportamento colpevole della odierna ricorrente, per non aver indossato la cintura di sicurezza, pur non essendo in possesso della certificazione del ginecologo - essendo la donna in stato di gravidanza - che, ai sensi dell’art. 172 del codice della strada, ne consente l’esenzione”.
Già in precedenza la stessa Corte (Cass. civile , sez. III, 28.8.07, n. 18177) aveva stabilito che la mancata adozione delle cinture di sicurezza da parte di un passeggero, poi deceduto, integra una ipotesi di cooperazione nel fatto colposo che legittima la riduzione proporzionale del risarcimento del danno in favore dei congiunti della vittima.
A parte la troppo rigidità e fiscalità della norma circa il possesso della certificazione che secondo me può essere sempre prodotta anche successivamente e non necessariamente essere esibita nell'immediatezza del controllo una domanda mi viene spontanea: ma quando al contrario proprio l'uso delle cinture di sicurezza ha causato (incendi improvvisi, caduta dell'auto nei fiumi, nei laghi e perdita di sangue per soccorsi tardivi) la perdita di vite umane cosa dovrebbero fare quei familiari? Fare causa allo Stato?


domenica 31 maggio 2009

Mah questa sentenza è proprio bella.

Deve far riflettere molto questa sentenza.
La moglie è infedele? Se vi dovete separare è meglio che lo facciate subito perchè se tollerate a lungo l'infedeltà, in una futura separazione dovrete continuare a mantenere la vostra ex consorte.
In effetti non hanno tutti i torti i giudici della corte di cassazione.
Si tratta di una bella batosta per chi resta in silenzio.
Quindi rimane il dovere del mantenimento anche se lei si è rifatta una vita con un uomo ricco e facoltoso.
La Corte, infatti, analizzando la vicenda di una coppia in cui lui aveva tollerato una relazione extraconiugale della moglie durata ben 12 anni, ha stabilito che il marito dovrà continuare a mantenerla con un assegno di 1.300 euro al mese. Però....
Poco importa che lei per i 12 anni precedenti la loro separazione avesse avuto un amante. Secondo gli ermellini, il silenzio di lui sulla relazione adulterina della moglie va considerato un assenso alla relazione. Come dire: chi tace acconsente!
Ma non basta, in base ala decisione della Corte di cassazione (sent. 12419/09), lui dovrà mantenerla anche se lei si è rifatta la vita con un ricco agente di commercio.
Nella sentenza la Corte ricostruisce la vicenda matrimoniale ed evidenzia che la donna nonostante non lavorasse aveva una "intensa vita sociale e sportiva" che aveva contribuito ad "ampliare le opportunità professionali per il marito". Quest'ultimo poi, nonostante il tradimento, continuava a mantenere la moglie ad un tenore di vita molto elevato con "svaghi propri di una elite di persone facoltose". 

giovedì 28 maggio 2009

Modifiche in vista per lo scontrino parlante.

Condivido la decisione del Garante per la protezione dei dati personali (comunicato pubblicato in G.U. 11.05.2009) il quale ha stabilito che, a partire dal prossimo anno, lo scontrino fiscale (cd. parlante) che le farmacie rilasciano all'acquisto dei farmaci per poter detrarre la spesa nella dichiarazione dei redditi, non riporterà più il nome del farmaco acquistato.
L’Autorità ha infatti chiarito che tale scontrino è in grado di rivelare informazioni sulle patologie delle persone e ciò potrebbe ledere la riservatezza e la dignità del contribuente. L'attività istruttoria svolta dal Garante con l'Agenzia delle entrate e con i rappresentanti di Federfarma ha permesso di stabilire che il controllo sul farmaco venduto può essere effettuato attraverso l'utilizzo del numero di autorizzazione all'immissione in commercio (AIC) presente sulla confezione. In particolare, il codice alfanumerico, rilevabile anche mediante lettura ottica, consente infatti di identificare in modo univoco ogni singola confezione farmaceutica venduta.
I dati idonei a rivelare lo stato di salute degli interessati possono essere trattati solo laddove indispensabili per lo svolgimento di attività istituzionali che non possano essere effettuate, caso per caso, mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa.
Nel provvedimento è stato stabilito che entro il prossimo 1 gennaio, i titolari che emettono scontrini fiscali devono adeguarsi alle indicazioni dell'Agenzia, riportando sugli stessi il numero di autorizzazione all'immissione in commercio (AIC), oltre al codice fiscale del destinatario, alla natura e alla quantità dei medicinali acquistati.

Pedoni attenti a non attraversare la strada fuori dalle strice pedonali.

Pedoni attenzione. D'ora in avanti chi ha la cattiva abitudine di attraversare la strada fuori dalle strisce pedonali può rischiare una multa. E in caso di incidente la colpa è sempre sua. Parola di Cassazione. Il monito della Corte è tassativo: i pedoni vanno sempre multati. Nel caso esaminato degli Ermellini, la Corte ha così convalidato la sanzione amministrativa disposta dalla polizia municipale di Massa nei confronti di un uomo che aveva attraversato la carreggiata senza servirsi degli appositi passaggi pedonali che si trovavano a circa 20 metri dal luogo dell'attraversamento. Nela sentenza i supremi Giudici spiegano inoltre che, nel caso in cui il pedone abbia attraversato fuori dalle strisce e sia rimasto vittima di un incidente, la colpa e' sempre sua. La sanzione amministrativa nei confronti dell'incauto pedone era stata convalidata dal giudice di pace di Massa nel settembre 2004. Inutile il ricorso per Cassazione in cui per difendersi l'uomo aveva anche sostenuto che nel verbale mancava l'indicazione della norma violata. La Corte (sent. 11421/09) respingendo il ricorso ha osservato che la contravvenzione è legittima giacchè vi è stato un attraversamento della strada "al di fuori delle strisce pedonali poste a circa 20 metri dal luogo dell'attraversamento''. Per violazioni del codice della strada, conclude poi la Corte, ''la mancata indicazione della norma che prevede la sanzione contestata non comporta di per se' la nullita' della contestazione della violazione dove l'interessato sia stato posto in condizione di conoscere il fatto addebitato e la contestazione sia stata idonea a garantire l'esercizio del diritto di difesa''.
Ringrazio come sempre Roberto Cataldi.

Sentenza sulle insidie stradali.

Interessante la sentenza 11709/09 della Corte di cassazione.
D'ora in avanti gli enti che hanno il compito diprovvedere alla manutenzione delle strate devono prestare particolare attenzione. Buche, tombini, lavori in corso e insidie di diverso genere presenti sulle strade debbono esere sempre segnalati. In caso contrario, avverte la Cassazione, la mancata segnalazione darà luogo a responsabilità degli enti tenuti alla manutenzione delle strade, in caso di incidente stradale. La Corte (sentenza 11709/2009), in particolare, ha accolto il ricorso di un automobilista che per ben due volte si era visto attribuire la colpa esclusiva di un incidente avvenuto a Fiumicino per la presenza di un tombino "fortemente sporgente dal suolo stradale" e non segnalato. I giudici di merito avevano ritenuto che l'unico colpevole dell'incidente fosse l'automobilista che, andando a forte velocita' aveva investito un automobile parcheggiata nel giardino di un'abitazione. I giudici della Corte ribaltando il verdetto hanno invece evidenziato che, al di la' dell'alta velocita' tenuta dall'automobilista, sicuramente "l'omessa segnalazione dei lavori e del tombino ha avuto una rilevanza causale in ordine al sinistro". Nella sentenza la Corte evidenzia che, pur ammettendo che l'automobilista "tenesse una velocita' eccessiva, la presenza di un cartello di segnalazione e pericolo gli avrebbe consentito di adottare le manovre di emergenza (in particolare, di ridurre drasticamente la velocita'), necessarie ad evitare l'incidente o ad evitarne le conseguenze dannose". Sarà ora necessario fare un nuovo processo in cui si dovrà denere conto della "rilevanza della negligenza dell'ente tenuto alla manutenzione della strada, quanto meno al fine di ravvisare un concorso di colpa e carico dello stesso".

lunedì 18 maggio 2009

Passaggio col semaforo rosso? Se la targa non è ben leggibile il verbale è da annullare-

Interessante il principio con cui il GdP di Lecce con una recente sentenza, depositata il 9 aprile, ha accolto il ricorso proposto da un’automobilista avverso un verbale elevato da agenti di PM per il presunto attraversamento dell’incrocio stradale col semaforo proiettante luce rossa.
La pronuncia conferma l’illegittimo utilizzo, da parte dei VVUU, degli apparecchi Photored che per il Giudice di Pace di Lecce non rispettano nessuna delle regole imposte dalle norme e più volte ribadite da recenti pronunce della Cassazione.
Per il Giudice adito, infatti, l’apparecchio in questione non consente di derogare alla regola generale della contestazione immediata delle infrazioni. Peraltro, il photored per essere utilizzato legittimamente deve scattare due foto ad un intervallo di tempo ben preciso l’una dall’altra e deve essere installato ad una certa altezza per non essere manomettibile. Nel caso, viceversa, nella seconda foto la targa è illeggibile, e quindi non consente di addebitare con certezza l’infrazione al ricorrente, né il verbale risulta sottoscritto e pertanto “non può ritenersi rispettoso delle norme del CdS che nel caso della contestazione non immediata impongono una serie di attività per nulla dimostrate nel corso del procedimento” (Nota di Alfredo Matranga).
Di seguito la sentenza del 30 marzo 2009 del Giudice di Pace di Lecce.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL GIUDICE DI PACE DI LECCE
Avv. Anna Maria Aventaggiato
ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nella causa civile iscritta al numero del ruolo generale indicato a margine, avente l'oggetto pure a margine indicato, discussa e decisa all'udienza del 30.03.2009,
promossa da: ………., elettivamente domiciliato in Lecce, rappresentato e difeso dall'avv.to A. Matranga, come da mandato in atti,
CONTRO
Comune di ........., in persona del Sindaco pro tempore,
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 12.12.2008 ……… proponeva opposizione avverso il verbale di accertamento n. PH 1957/2008, rilevato dalla Polizia Municipale di ..... il 27.07.2008 e notificato il 25.10.2008, per violazione dell'146 co.3° del C.d.S., per aver attraversato l'intersezione semaforizzata mentre la lanterna semaforica proiettava luce rossa, con decurtazione di punti 6 dalla patente di guida. Infrazione accertata a mezzo apparecchiatura elettronica F 17A, senza che in loco vi fosse alcun vigile preposto al controllo. Deduceva il ricorrente l'illegittimità dell'accertamento operato dalla Polizia Municipale di ...... per incompetenza territoriale ed errata applicazione di legge sull'utilizzo delle strumentazioni elettroniche ed in particolare la inidoneità e non corretta funzionalità delle stesse, la mancata contestazione immediata, la mancata omologazione e taratura e la irregolarità delle operazioni connesse alla elevazione, formazione del verbale e successiva notifica, con conseguente violazione delle norme che garantiscono e tutelano il cittadino sulla corretta applicazione di tale strumentazione. Concludeva per l'accoglimento del ricorso e per l'annullamento del verbale opposto. Disposta la comparizione delle parti per l’udienza del 30.03.09, ricorso e decreto venivano regolarmente notificati al ricorrente ed al Comune di ........, il quale provvedeva a rimettere a questo Giudice la documentazione relativa all'illecito amministrativo di cui trattasi. Alla suddetta udienza, fissata anche per la discussione, compariva solo il procuratore del ricorrente che si riportava ai propri scritti, chiedendone l'accoglimento. Il Giudicante decideva il ricorso, dando lettura in udienza del dispositivo.
Motivi della decisione
Il ricorso proposto da……………avverso il verbale PH no 1957/08, elevato dalla Polizia Municipale di .....è fondato e va, pertanto, accolto. Il verbale oggetto del presente ricorso e l'accertamento che esso presuppone si fondano esclusivamente sulle risultanze dell'apparecchiatura PHOTORED F 17 A e pertanto, non vi è prova certa sulla responsabilità dell'opponente atteso che al momento del rilevamento dell'infrazione lo strumento elettronico utilizzato era ancora omologato ai sensi del precedente decreto del 27 gennaio 2t00 — Prot. 430 del Ministero dei Lavori Pubblici, per il quale era richiesta necessariamente la presenza dell'operatore di Polizia Municipale ed erano omologati solo come "ausilio a vigile in servizio" per la lettura e la trascrizione manuale delle targhe dei veicoli in infrazione e che fosse in funzione, oltre l'incrocio, altra lanterna semaforica di ripetizione del segnale, in posizione tale da poter essere inquadrata nel campo di visuale dell'apparecchio fotografico. In merito, pertanto, si precisa che, in deroga al principio generale della contestazione immediata, possono essere accertate infrazioni al C.d.S. in assenza dell'organo di polizia, solo se il rilevamento avvenga a mezzo di utilizzo di apparecchiature debitamente omologate e previa l'applicazione ed osservanza delle prescrizione imposte come ad es. che l'apparecchiatura sia installata in posizione protetta e non manomettibile, la foto deve riprodurre la panoramica dell'incrocio, con il semaforo o l'altra lanterna dopo l'incrocio, devono essere scattate almeno due fotografie, una dopo il superamento della linea di arresto, che deve essere visibile e l'altra quando il mezzo è al centro dell'incrocio; inoltre, proprio perché l'omologazione prevede un lasso di tempo tra il primo ed il secondo scatto, sembra scontato che sulle foto debbano essere indicati anche i secondi. Ebbene, in merito a tanto, nulla la PA ha provato in ordine alla perfetta funzionalità ed omologazione dell’apparecchiatura elettronica utilizzata. Per le considerazioni innanzi esposte è evidente, di conseguenza, l’insufficienza della sola documentazione fotografica, nel caso di specie, una riproducente il veicolo fermo prima della linea di arresto e l’altra con veicolo con targa illeggibile, a costituire piena prova dell’avvenuta violazione dell'art. 146 comma 3° del C.d.S., con conseguente applicazione dell'art. 23, penultimo comma della 1.689/81, che impone l'accoglimento dell'opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell' opponente. Ed invero, l'esame del verbale di accertamento e contestazione inviato al ricorrente per mezzo posta, prestampato è predeterminato nella sua motivazione e nel caso di specie, nemmeno sottoscritto, non può ritenersi rispettoso delle norme del C.d.S., le quali, nelle ipotesi di mancata contestazione immediata, impongono una serie di attività per nulla dimostrate nel corso del procedimento. Il verbale de quo è stato, pertanto, illegittimamente emesso e conseguentemente il ricorso e fondato e deve essere accolto. In considerazione della materia trattata, ritiene il Giudicante che sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di lite.
P.Q.M.

Il Giudice di Pace di Lecce: accoglie il ricorso e, per l'effetto, annulla il verbale n. PH 1577/08 della Polizia Municipale di .........con ogni conseguenza di legge.
Spese compensate.
Cosi deciso in Lecce il 30.03.09.

domenica 17 maggio 2009

Chi di noi non subisce minacce e richieste di soldi dai parcheggiatori abusivi?

Chi di noi non ha avuto a che fare con i parcheggiatori abusivi?
Ebbene la Corte di cassazione con la sentenza n. 20072/09 ha stabilito che commette il reato di tentata estorsione il parcheggiatore abusivo che con atteggiamento intimidatorio minaccia l'automobilista per farsi dare qualche euro.
Nel caso di specie sono state escluse le ipotesi meno gravi di cui agli art. 393 e 610 c.p..

venerdì 15 maggio 2009

Anche il giudizio di un teste può formare il convincimento di un Giudice.

Interessante la sentenza n. 9526/09 della III sez. civile della Corte di cassazione.
Finora il teste nel momento di rilasciare la propria testimonianza veniva prontamente bloccato se esprimeva anche i propri giudizi sulla vicenda per la quale veniva sentito.
Ebbene ora la Corte di cassazione intervenendo in materia di prova testimoniale ha stabilito che nel compiere la valutazione delle risultanze istruttorie "secondo il suo prudente apprezzamento" come dispone l'art. 116 del c.p.c., può formare il suo convincimento anche sulla base di giudizi espressi dal teste.
La Corte, in particolare, chiarisce che "In materia di prova testimoniale, benché i giudizi non possano costituire oggetto di prova, essendo vietato demandare ai testi la valutazione dei fatti, laddove si tratti di apprezzamenti di assoluta immediatezza, praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico, essi possono concorrere al convincimento del giudice".
Il caso esaminato dalla Corte riguarda una donna che scivolando sul pavimento di una sala di un museo aveva riportato lesioni. L'unico teste presente al fatto aveva riferito in merito alle condizioni del pavimento ed aveva affermato che lo stesso era scivoloso.
La Corte d'Appello aveva ritenuto la testimonianza non potesse assumere valore perchè il teste aveva espresso un giudizio sulla causa della caduta. La Suprema Corte ha bocciato la decisione dei giudici di merito chiarendo, sostanzialmente, che il divieto di esprimere giudizi non va applicato in maniera categorica ed assoluta.

venerdì 8 maggio 2009

Ovvio: anche i Sindaci debbono rispettare i loro stessi regolamenti.

Mi sembrava dovesse essere già una cosa scontata questa decisione della Corte di cassazione.
In ogni modo da ora in avanti i primi cittadini dunque sono passibili di condanna penale se non rispettano i propri regolamenti. Sulla scorta di tale principio la Corte ha convalidato una condanna per minacce nei confronti di un sindaco multato da un suo vigile per avere percorso una strada in senso vietato. Nell'occasione il primo cittadino aveva detto ''Io sono il tuo capo, devi obbedire ai miei ordini, domani ti voglio nel mio ufficio a rapporto''.
Il vigile rilevato che il sindaco stava transitando in una zona interdetta al traffico proprio per una sua ordinanza sindacale, aveva proceduto a multarlo. Di qui la risposta minacciosa che ha fatto finire il caso in tribunale. I giudici di merito hanno accertato la sussistenza del reato di minacce disponendo anche un risarcimento di 5 mila euro. Inutile il ricorso in Cassazione in cui si era cercato di attenuare la pena sulla base del rilievo che la frase era stata pronunciata in uno stato di ''ira sociale davanti all'arroganza della vigilessa animata dalla smania di censurare pubblicamente il sindaco''.
La Corte (sent. 19021/09), ha respinto il ricorso evidenziando che la decisione dei giudici di merito è legittima perchè "l'imputato era sempre il capo dell'amministrazione comunale e si trovava in una situazione di superiorità gerarchica rispetto alla parte offesa'', per cui ''la minaccia era certamente grave proprio in considerazione della subordinazione gerarchica''.

Caro ex .... non entrare in quella casa.

Una sentenza questa non del tutto condivisibile ma che merita la massima attenzione.
Infatti secondo la sentenza n. 19116/09 della Corte di cassazione l'ex marito che fa ingresso nella ex casa coniugale commtte reato e deve risarcire il danno se non autorizzato (ma potrebbe anche esserlo stato verbalmente) dalla moglie.....
Bhè mi sembra un tantino esagerata questa sentenza poichè sarebbe una motivazione valida per una vendetta da parte della ex anche in caso di buon rapporto. Ciò che stupisce è che la sentenza comprende anche l'ipotesi che l'ex marito sia comproprietario della casa.
Ebbene secondo i giudici della corte se la casa è stata assegnata alla moglie, un ingresso non autorizzato integra la fattispecie del reato di invasione di edificio e questo da anche diritto ad ottenere il risarcimento.
I giudici per il caso in questione ha confermato la condanna ad una provvisionale di 15.500,00 euro per l'invasione della casa assegnata all'ex consorte.
In primo grado l'uomo era stato assolto dal Tribunale di Roma. La Corte d'Appello invece lo aveva ritenuto colpevole condannandolo al pagamento di una provvisionale di 15.500,00 euro per il reato di invasione di edificio. Inutile il ricorso in Cassazione in cui l'ex marito aveva sostenuto di essere comproprietario dell'appartamento e che il risarcimento da liquidare alla moglie era eccessivo anche considerato il fatto che lei intendeva darlo in affitto per 600,00 euro mensili.
I giudici di Piazza Cavour hanno respinto il ricorso evidenziando la manifesta infondatezza dei motivi "che preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità".

lunedì 4 maggio 2009

Una stangata per le aziende o meglio per chi ha auto aziendali.

Condivido la sentenza n. 9847/09 della Corte di Cassazione, II^ Sezione Civile, con la quale si è stabilito che le società sono tenute a comunicare chi era alla guida dell’auto perché in aziende ben organizzate “l’uso dei veicoli normalmente risulta dai turni di servizio”.
In effetti per le macchine aziendali succede sempre quello che succede per le auto blu, per le auto delle forze armate e forze di polizia.
D'ora in avanti quando non lo fanno pagano una multa salata.
La Corte, nel caso di specie, ha precisato che “il giudicante è pervenuto a una decisione errata, considerato che l’obbligo di cui all’art. 126 bis del codice della strada (come modificato dalla sentenza della corte costituzionale n. 27 del 2005), sanzionato dall’articolo 180, ottavo comma, del codice della strada non può essere eluso adducendo, come nel caso di specie, la difficoltà di individuazione del soggetto che ha utilizzato il veicolo.
Infatti, occorre tener conto che nell’ambito di un’attività correttamente organizzata, l’uso dei veicoli normalmente risulta dai turni di servizio e che comunque anche in organizzazione di piccole dimensioni spetta al proprietario del veicolo tener nota dell’utilizzo dei veicoli adottando gli opportuni accorgimenti e ciò ai fini di adempiere a quanto richiesto dall’art. 180 Codice della Strada”.
Ha quindi aggiunto che “questa Corte ha già avuto occasione di affermare tale principio e di recente con Cass. 2007 n. 13748, la cui massima ufficiale è la seguente: in tema di violazioni alle norme del codice della strada, con riferimento alla sanzione pecuniaria inflitta per l’illecito amministrativo previsto dal combinato disposto degli articoli 126 bis, secondo comma, penultimo periodo, e 180, ottavo comma, del codice suddetto, il proprietario del veicolo, in quanto responsabile della circolazione dello stesso nei confronti delle pubbliche amministrazioni non meno che dei terzi, è tenuto sempre a conoscere l’identità dei soggetti ai quali ne affida la conduzione, onde dell’eventuale incapacità d’identificare detti soggetti necessariamente risponde, nei confronti delle une per le sanzioni e degli altri per i danni, a titolo di colpa per negligente osservanza del dovere di vigilare sull’affidamento in guisa da essere in grado di adempiere al dovere di comunicare l’identità del conducente.
Peraltro, la sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2005 – che pure ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 126 bis cod. strada, nella parte in cui era comminata la riduzione dei punti della patente a carico del proprietario del veicolo che non fosse stata anche responsabile dell’infrazione stradale – ha affermato, con asserzione che in quanto interpretativa e confermativa della validità di norma vigente, trova applicazione anche ai fatti verificatisi precedentemente e regolati dalla norma stessa, che ‘nel caso in cui il proprietario ometta di comunicare i dati personali e della patente del conducente trova applicazione la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 180, comma ottavo, del codice della strada’ e che ‘in tal modo viene anche fugato il dubbio in ordine ad una ingiustificata disparità di trattamento realizzata tra i proprietari di veicoli, discriminati a seconda della loro natura di persone giuridiche o fisiche, ovvero, quanto a queste ultime, in base alla circostanza meramente accidentale che le stesse siano munite o meno di patente’. (Nella specie, il giudice di pace aveva rigettato l’opposizione al verbale di accertamento, per violazione dell’articolo 180, comma ottavo, cod. strada, proposta da una società in a.s., secondo cui le era stato impossibile identificare il conducente a causa dei numerosi automezzi di sua proprietà affidati a vari dipendenti e dell’insussistenza dell’obbligo di registrare ciascun affidamento; la S.C., poiché non era stata fornita idonea ragione per esimersi da responsabilità, ha rigettato il ricorso per erronea interpretazione della norma suddetta in relazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2005)”.
Unico neo, secondo me, presente in questa sentenza, come già riportato su alcuni ricorsi da me predisposti, sta nel fatto che nelle norme citate il legislatore avrebbe dovuto prevedere l'obbligo - per tutti -, ovvero, per ogni veicolo, di un apposito registro ..........

Sentenza sul furto subito dal condomino per la presenza di ponteggi a ridosso dell'edificio.

Interessante la sentenza n. 6435 del 17 marzo 2009 relativa all’ipotesi di furto subito dal condomino per la presenza di ponteggi posti a ridosso dell’edificio che in assenza di opportune precauzioni, hanno agevolato la produzione dell’evento dannoso. Secondo la corte di cassazione sussiste la responsabilità concorrente del condominio e dell’appaltatore.
Nel caso di specie due comproprietari lamentano un furto perpetrato nell’appartamento di loro proprietà, agevolato dai ponteggi esterni all’edificio realizzati dall’imprenditore, al quale, il condominio aveva affidato l’incarico di eseguire lavori di rifacimento della facciata.
La domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti del condominio per l’accaduto, viene, però, rigettata in secondo grado poiché i giudici di appello non rinvenendo alcuna colposa omissione da parte del condominio, nonché l’assenza di un potere di sorveglianza del cantiere, escludono a carico del convenuto l’imputabilità dell’evento sia ai sensi dell'art. 2043 c.c. che dell'art. 2051 c.c..
Secondo i giudici di merito il potere di sorveglianza del cantiere spetta esclusivamente all’impresa che lo ha costruito e gestisce in regime di appalto. Avverso tale decisione i due comproprietari ricorrono in Cassazione. I giudici di legittimità accolgono il ricorso riformando la sentenza di merito. Le conclusioni a cui giungono i giudici di merito per la Cassazione sono infatti "in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale" espresso da tempo dalla Suprema Corte.
L’eventualità che i ponteggi posti a ridosso dello stabile possano agevolare l’accesso ai ladri e conseguentemente arrecare un danno per il proprietario è stata già affrontata dalla Cassazione. Il caso di specie vanta diversi precedenti specifici.
Il comportamento negligente tenuto dall’imprenditore è contrario al principio del neminem laedere. L’imprenditore che esegue lavori di manutenzione dello stabile avvalendosi dell’apporto dei ponteggi deve adottare ogni cautela idonea ad impedire l’uso anomalo delle impalcature.
Alla responsabilità aquiliana dell’appaltatore, la Cassazione nella pronuncia in commento affianca quella più rigorosa prevista per i danni cagionati da cose in custodia (art. 2051 c.c.) per il condominio. La decisione tocca tre fondamentali questioni giuridiche:
L’esistenza di un nesso causale tra il cantiere e la produzione dell’evento dannoso (il furto nell’appartamento); la responsabilità del Condominio in base all’art. 2051 c.c.; l’illecito perpetrato dal terzo quale elemento idoneo per escludere la responsabilità del custode.
Rispetto alla prima questione i giudici di legittimità constatano che «Nel caso di specie era stato accertato in fatto dal giudice di merito: l’esistenza alla data del furto del ponteggio metallico a ridosso della facciata dell’edificio condominiale, su cui si aprono le finestre dell’appartamento dei due attori che avevano subito il furto».
Orbene, in ordine al nesso eziologico si rende necessario appurare l’esistenza di un legame fra l’esistenza dei ponteggi e l’accesso dei ladri nell’appartamento. Attraverso l’indagine ricostruttiva dell’iter che ha portato al verificarsi dell’evento dannoso, i ponteggi esterni all’edificio – che hanno favorito l’accesso dei ladri nell’appartamento - devono qualificarsi come antecedenti necessari.
Infatti i ponteggi si rivelano nella fattispecie in esame quale elemento necessario, all’interno della catena causale, nella produzione dell’eventus danni.
Quanto al secondo quesito bisogna spostare l’attenzione sul responsabilità concorrente del condominio in quanto non si può sottovalutare la differenza che intercorre tra l'art. 2043 c.c. e il più gravoso criterio di imputazione previsto dall’art. 2051 c.c..
Di fronte al generale obbligo del neminem laedere, viceversa l'art. 2051 c.c. prevede un dovere costante di vigilanza per il custode sul bene con la presunzione di colpa che può essere superata solo facendo ricorso alla prova del caso fortuito. Per questo la dottrina maggioritaria colloca la norma citata, tra le ipotesi di responsabilità oggettiva.
Per il verificarsi della responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c. è necessaria e sufficiente una relazione tra la cosa in custodia e l'evento dannoso, nonché l'esistenza dell'effettivo potere fisico su di essa da parte del custode, sul quale incombe l'obbligo di vigilarla e di mantenerne il controllo onde evitare che produca danni a terzi.
Pertanto va evidenziato che il rapporto tra il condominio e i ponteggi realizzati dall’appaltatore si inserisce perfettamente nell’ambito della custodia in quanto sussiste un potere diretto sulla «cosa» che permette di controllare e prevedere i rischi ad essa insiti.
Nel caso di specie, osservano i giudici di legittimità «gli originari attori avevano dedotto che il condominio aveva omesso di vigilare sulla osservanza, da parte della impresa appaltatrice, di tutte le precauzioni del caso essendo stata l’impalcatura montata senza luci esterne e senza alcuna struttura di sicurezza per l’inviolabilità degli appartamenti».
Resta da affrontare l’analisi del fatto illecito compiuto dal terzo, quale circostanza di per sé sufficiente o meno ad escludere la responsabilità del custode. Si è affermato in giurisprudenza che il fatto illecito del terzo può essere equiparato al caso fortuito finendo così con l’interrompere il nesso causale con il danno.
In ogni caso la stessa giurisprudenza precisa che il fatto del terzo esclude la responsabilità del custode in quanto intervenga, nella determinazione dell'evento dannoso, con un impulso autonomo e con i caratteri dell'imprevedibilità e della inevitabilità.
Dunque imprevedibilità ed eccezionalità che dovranno confrontarsi col comportamento assunto dal custode facendo riferimento al grado della sua diligenza.
Pertanto nel caso di specie l’azione dei ladri non può ritenersi causa di esclusione della responsabilità del condominio custode dei ponteggi, in quanto, l’evento era ampiamente prevedibile adottando le precauzioni necessarie a tutela dei singoli condomini.

venerdì 1 maggio 2009

Singolare contestazione al semaforo.

La sentenza n. 9888/09 della Corte di assazione (II sez.) tratta un procedimento davvero singolare.
La Corte annullando un verbale di contestazione per presunto passaggio con il rosso ha stabilito che deve essere annullata la multa elevata a un’automobilista che passa con il rosso se nel verbale non viene indicata l’esatta infrazione commessa.
Nel caso di specie, ha evidenziato che “occorre, infatti, considerare che il rilievo, del tutto fondato, dell’indeterminatezza dell’addebito appare assorbente rispetto ad ogni altra questione.
Infatti, nel caso in questione la contestazione era stata effettuata con riferimento all’avvenuto superamento dell’incrocio regolato da semaforo con luce rossa o con quella gialla, essendo evidente che si tratta di due fattispecie del tutto diverse e potendo il passaggio con luce gialla, ai sensi dell’articolo 41 decimo comma del Codice della strada, risultare non sempre vietato.
Occorre, altresì, osservare che il passaggio avvenuto ai sensi di quest’ultima disposizione costituisce eccezione alla regola imponente negli altri casi l’arresto anche con luce gialla, ma la contestazione risultava comunque generica in quanto formulante due ipotesi alternative, delle quali l’una escludeva l’altra. Si è di fronte quindi a due ipotesi di contestazione del tutto diverse, ancorché accomunate dallo stesso trattamento sanzionatorio di cui all’articolo 146, terzo comma, Codice della Strada”.
Ma come si fa dico io a inviare ad un cittadino un verbale di contestazione del genere?

giovedì 30 aprile 2009

Interessante sentenza sul Telelaser.

Interessante la sentenza del giudice di pace Avv. Antonio Sindaco di Galatina (Lecce) secondo il quale lo stato di necessità esclude la responsabilità ex articolo 4, Legge 689/81.
La sentenza è del 20 settembre 2008.
Il GdP di Galatina che affrontando anche le ulteriori censure ha enucleato importanti principi in materia di circolazione stradale e rilevazione delle infrazioni a mezzo di apparecchiature elettroniche (in particolare tramite telelaser).
Per il Giudice salentino, infatti, il verbale impugnato, elevato per eccesso di velocità, va annullato essendo stata prodotta in atti idonea documentazione medica rilasciata dall'Ospedale di Scorrano, in cui si legge che il giorno della contestazione di cui al verbale impugnato il ricorrente si recava presso il Pronto Soccorso in quanto affetto da un dolore toracico e da crisi ipertensiva.
Per il GdP il verbale impugnato è da considerarsi comunque nullo in quanto sulla strada percorsa dal ricorrente non vi era alcuna segnalazione preventiva del sistema di rilevamento della velocità utillizzato dagli Agenti accertatori. Secondo il Giudice, infatti, le caratteristiche e le specifiche capacità del telelaser richiedono che questo sia utilizzato solo in costanza di un idoneo segnale di avvertimento per gli utenti della strada.
Inoltre, per il GdP il verbale è da annullare per un ulteriore motivo: non vi è prova in atti che il Telelaser utilizzato sia stato regolarmente tarato secondo le normative europee e nazionali di riferimento, trattandosi di apparecchiatura rientrante nella categoria delle strumentazioni a "metrologia legale", dall'utilizzazione delle quali derivano concreti effetti giuridici.
Sempre per il giudicante non e stato provato e dimostrato quindi, che tale strumentazione sia stata sottoposta a periodiche tarature e controlli presso centri opportunamente predisposti e in linea con la normativa europea, i cosiddetti centri SIT (i quali sono depositari delle grandezze metrologiche).
Pertanto, ha concluso il GdP, la totale assenza di un certificato di taratura rilasciato da un apposito centro rende inidonea e assolutamente inattendibile la fondatezza del rilevamento effettuato con apparecchiatura utilizzata, che non può dipendere solo da un generico autocontrollo, contrario ad ogni principio di certezza del diritto.
(Altalx, 30 gennaio 2009. Nota di Alfredo Matranga).

Padre assente? Ai figli va comunque il suo cognome.

Con la sentenza 4819/09 la Corte di cassazione ha stabilito che anche se un padre è “assente” e non adempie ai suoi doveri naturali (anche dopo la sentenza di primo grado non aveva versato nessuna somma per il suo mantenimento) ai figli spetta sempre e in ogni caso il cognome paterno.

Io non condivido assolutamente questa sentenza.
Portare un cognome del proprio genitore oltre ad essere previsto dalla legge deve essere un onore.....
Pertanto è vero che ai figli spetta il cognome del padre ... ma quando questi non lo merita?
In una situazione del genere perchè non riconoscere anche al figlio il diritto (al contrario) di disconoscere il proprio padre e suo relativo cognome?

La Corte di Cassazione quindi ha convalidato la decisione dei giudici di merito e imposto alla minorenne di continuare a conservare il cognome del padre.
Fossi io il suo legale in considerazione che in alcuni paesi europei si prevede persino il doppio cognome proporrei ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo.

domenica 26 aprile 2009

Licenziata perchè in malattia navigava in facebook.

Mi sembra un pò bizzarra la decisione di una azienda nei confronti di una dipendente in malattia "beccata" mentre usa Facebook.
Infatti una 31enne di Basilea ha perso il posto perchè secondo l'azienda: «Chi è in grado di navigare in Rete, può anche lavorare»...
Vero ma una azienda può impedire al dipendente che sta nel proprio domicilio seppur in malattia di utilizzare il proprio pc anche solo per leggere alcuni messaggi su internet?
Io credo di no a prescindere da un emicrania che potrebbe anche essere momentanea.
Ebbene una dipendente di un nota compagnia di assicurazioni svizzera Nationale Suisse si è data malata per un giorno per una forte emicrania.
Tuttavia, non si comprende bene ma il datore di lavoro ha scoperto che la donna navigava su Facebook. Quindi, anche per la stupidità della donna, che ben poteva sostenere che a navigare era una altra persona , il licenziamento in tronco.
La motivazione dell'azienda: "Chi è in grado di navigare in Rete, può anche lavorare".
Certamente ma un conto stare cinque minuti sul pc un conto è stare 7 ore.
Fosse per me impugnerei questo licenziamento.
Non sarà certamente un datore di lavoro a dire cosa o non cosa deve fare un dipendente in malattia al proprio domicilio.
La decisione di questa azienda è sicuramente censurabile poichè non permetterebbe ad un dipendente in malattia di stare a letto con il proprio computer poggiato sulle ginocchia per cinque minuti. A rendere noto il fatto è un giornale elvetico online "20 Minuten".
E in Italia come sarebbe accolta una decisione del genere?

Attenzione a piantare in asso il coniuge senza preavviso.

Una sentenza questa che mi sento di condividere infatti c'è modo e modo di scaricare un partner. E questo a scanso di equivoci vale sia per la donna che per l'uomo.
Ed oggi si rischia di dover anche pagare i danni dell'abbandono. Parola di Cassazione. La Corte infatti ha riconosciuto legittima la condanna al risarcimento del danno inflitta ad una donna che aveva mollato improvvisamente il marito.
La donna, secondo la sentenza n. 14981/09 della VI sezione penale della Corte di cassazione, aveva preso carta e penna e aveva scritto al marito che partiva con la figlia e un amico per una breve vacanza.
Alla faccia...
Solo al ritorno, messa alle strette dal marito, aveva esplicitato la sua decisione di lasciarlo. Processata per violazione degli obblighi di assistenza familiare la moglie era stata condannata (in due gradi di giudizio) a risarcire il marito per i danni patiti con l'abbandono.
Contro la decisione la donna si è rivolta alla Cassazione, rappresentando che il marito era stato avvertito tramite lettera e che, solo successivamente, era maturata in lei la convinzione dell'abbandono dato il "regime di vita e di rapporto intollerabile imposto dal marito".
Nulla da fare però: gli Emellini, respingendo il ricorso hanno evidenziato che "alla stregua del tenore della lettera e del comportamento immediatamente susseguente di [...] non possono nutrirsi dubbi sulla sua volontà di abbandonare in modo improvviso e definitivo il domicilio domestico trattenendo per di più con sè la bambina, con evidente lesione dei doveri coniugali".
Sono state poi considerate ininfluenti le scuse addotte dalla donna in relazione al "limitato bagaglio che, alla luce della lettera, doveva servire solo a evitare probabili problemi nella realizzazione concreta dell'abbandono" e il "rientro successivo a casa, dovuto - scrive la Cassazione - essenzialmente alla reazione del marito per i problemi relativi alla figlia".
Ineccepibile... poteva trovare una altra scusa.

sabato 25 aprile 2009

In motorino senza casco? Paga sempre mamma e papà comunque.

La sentenza della Corte di cassazione n. 9556/09 sul mancato uso del casco da parte del minorenne non stupisce più di tanto. Secondo i giudici se i figli sono indisciplinati e non indossano il casco quando vanno con il motorino è tutta colpa della cattiva educazione che è stata loro impartita dai genitori e, in caso di incidente, mamma e papà dovranno pagare i danni.
Ma è sempre colpa dei genitori anche una educazione la danno regolarmente?
La Corte di Cassazione ha respinto infatti il ricorso di due genitori condannati a risarcire il danno prodotto da un ragazzo che aveva avuto un incidente con la sua vespa su cui trasportava un'altro ragazzo. I giudici di merito avevano già condannato i genitori del ragazzo (ancora minorenne) a risarcire i famigliari del trasportato per i danni morali patiti. La decisione è stata ora confermata da Piazza Cavour che ha sottolineato come "lo stato di immaturità, il temperamento e la cattiva educazione del minore possono desumersi anche dalle modalità del fatto ed è pacifico che il figlio non indossava il casco. Secondo la Corte in base all'articolo 2048 C.c. i genitori di un minorenne hanno "doveri di natura inderogabile finalizzati a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di costante opera educativa, onde realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento consapevolmente illecito". Secondo la Corte, data una certa dimestichezza con i veicoli" che il ragazzo aveva nonostante fosse minorenne, è evidente che il fatto che non indossasse il casco fosse da attribuirsi alla "cattiva educazione" impartita dai genitori. A nulla rileva, chiarisce ancora la Corte rispondendo ad uno dei rilievi avanzati dalla difesa, il fatto che il ragazzo abbia avuto due esperienze lavorative. Questo, scrive Piazza Cavour, "non è sufficiente a fornire la prova liberatoria della presunzione della culpa in educando". Insomma, il fatto che il ragazzo non avesse il casco dimostra che non "era stata impartita al figlio un'educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini, alla sua personalita'".
Mah... non condivido del tutto questa sentenza nella parte in cui la Corte di cassazione dà del maleducato ad un ragazzo per il semplice fatto di non indossare un casco. In quanto un conto è condannare al risarcimento di un danno un conto è dare del maleducato.
Ma poi una altra cosa che mi lascia perplesso in questa sentenza è: ma quei genitori che hanno chiesto il risarcimento per il mancato uso del casco del proprio figlio l'educazione .... loro gliel'hanno insegnata?

giovedì 23 aprile 2009

L'ignoranza non ha limiti. In malattia e un lavoratore va in moto.

Proprio senza limiti l'ignoranza e la strafottenza di certa gente...
Infatti un lavoratore rimasto a casa per malattia pretendeva di concedersi di fare un giro ... pure in motocicletta.... Ora la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9474/09 ha sancito un principio e cioè che l'utilizzo della propria moto denota (giustamente) scarsa attenzione alla propria salute e ai relativi doveri di cura ritardandone la guarigione.
Ed è sulla scorta di tale principio la Corte che ha accolto il ricorso di una clinica privata che si era opposta alla reintegrazione nel lavoro di un dipendente che era stato sorpreso, durante un'assenza per malattia, a recarsi al mare con la sua moto.
In quel giorno tra l'altro il lavoratore, dopo essersi fatto il bagno al mare, aveva raggiunto un'altra azienda in cui svolgeva una seconda attività in qualità di direttore sanitario.
I giudici della Corte non hanno contestato il fatto che il lavoratore svolgesse un secondo lavoro, avendo rilevato che il suo primo impiego era comunque in part-time piuttosto ha rilevato che il lavoratore nonostante la sua malattia (artrosi all'anca) si fosse messo alla guida di una moto di grossa cilindrata prima per andare in spiaggia e poi per recarsi alla seconda attività lavorativa.
Secondo la Cassazione il lavoratore ha mostrato scarsa attenzione alla propria salute e ciò è dimostrazione del fatto che lo stato di malattia non era assoluto e non impediva comunque l'espletamento di una attività ludica o lavorativa. In precedenza la corte d'appello aveva revocato il licenziamento del medico sostenendo che l'aver guidato una moto e l'essersi recato al mare per fare i bagni, non erano attività in contrasto con gli obblighi di cure e riposo in modo da compromettere ulteriormente la guarigione. Contro tale decisione è stata la Clinica a rivolgersi alla Suprema Corte evidenziando che l'uso della motocicletta durante la malattia per andare al mare non era certo atteggiamento propriamente tipico di un malato.
Accogliendo il ricorso la Corte ha ricordato che "l'espletamento di altra attività lavorativa ed extralavorativa da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buonafede nell'adempimento dell'obbligazione, posto che il fatto di guidare una moto di grossa cilindrata, di recarsi in spiaggia e di prestare una seconda attività lavorativa sono indici di una scarsa attenzione ai doveri di cura e ritardano la guarigione".
Sarà ora la Corte d'Appello di Napoli a dover riesaminare il caso.
Ringrazio l'autore Roberto Cataldi.

lunedì 20 aprile 2009

Una ragazza costretta a dimettersi dal datore di lavoro. Ma verrà risarcita.

Una ragazza, protagonista di un video a luci rosse è stata costretta alle dimissioni dai suoi datori di lavoro. lMa il giudice le ha dato ragione.
All'inzio la ragazza durante le ore di lavoro guardava film "hot" sul posto di lavoro e solo questo portava in effetti al licenziamento.
Ma tutto questo non è bastato alla ragazza che ha pensato al grande salto passando direttamente dalla scrivania al set a luci rosse.
Si tratta di una commessa di un negozio di Grosseto che ha girato un filmino porno ed è stata costretta alle dimissioni dai suoi datori di lavoro (i quali non si sa bene come abbiano scoperto il fatto...).
Bhè non è poi tanto difficile venire a conoscenze di queste cose da amici oparenti che conoscono la ragazza soprattutto se il filmino a luci rosse viene diffuso in loco.
Ebbene i datori di lavoro l'anno licenziato per questo motivo ed ora la dovranno risarcire.
La commessa, infatti, non si e' data per vinta e ha intentato una causa ai titolari dell'esercizio commerciale. Il giudice, alla fine, ha dato ragione alla donna, condannando gli ex datori di lavoro della commessa al pagamento di una multa, in attesa che venga quantificato il risarcimento danni, che sarà fissato attraverso un'altra causa (evvai... altro giro ... altra causa...).
I titolari del negozio, dopo aver 'riconosciuto' la ragazza, l'avrebbero costretta alle dimissioni per tutelare il buon nome dell'esercizio commerciale. Ma evidentemente non immaginavano di incontrare un giudice decisamente meno 'bacchettone' di loro.

domenica 19 aprile 2009

Vuoi impugnare un preavviso di fermo amministrativo? Devi attendere il provvedimento definitivo.

Ricevete un preavviso di fermo amministrativo?
Bisogna attendere il provvedimento definitivo.
Io non condivido del tutto questa decisione soprattutto se nell'atto provvisorio ci sono tutti gli elementi necessari ed utili per una impugnazione.
La II Sez. Civile della Corte di Cassazione con la sentenza 8890/09 ha invece stabilito che non è possibile impugnare il preavviso di fermo amministrativo e che il cittadino può contestare il provvedimento solo quando il fermo è già stato iscritto nei pubblici registri.
Mah. Perchè attendere oltre il danno anche la beffa se il provvedimento si rivelerà illegittimo?
In ogni modo la Corte di cassazione ha stabilito che “la comunicazione preventiva di fermo amministrativo (c.d. preavviso) di un veicolo, notificata a cura del concessionario esattore, non arrecando alcuna menomazione al patrimonio – poiché il presunto debitore, fino a quando il fermo non sia stato iscritto nei pubblici registri, può pienamente utilizzare il bene e disporre – è atto non previsto dalla sequenza procedimentale dell’esecuzione esattoriale e, pertanto, non può essere autonomamente impugnabile ex art. 23 L. n. 689/81, non essendo il destinatario titolare di alcun interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ.
L’azione di accertamento negativo del credito dell’amministrazione, da parte sua, non può essere astrattamente proposta in ogni tempo per sottrarsi alla preannunciata esecuzione della cartella esattoriale, impugnabile (eventualmente in via recuperato ria) con le forme, i tempi e il rito specificamente dipendenti dalla sua origine e dal tipo di vizi fatti valere”.
Grazie come sempre a Cristina Matricardi.

Automobilista? Non perdere mai le staffe con i vigili.

Bhè non poteva che usare la mano pesante in questa circostanza la VI Sez. Penale della Corte di Cassazione che con la sentenza n. 16044/09 ha stabilito che l’automobilista stressato non è legittimato a perdere le staffe con i vigili.
Il collegio ha infatti evidenziato che “il delitto di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza che si concreta nelle percosse, non già quegli atti che, esorbitando da tali limiti, siano causa di lesioni personali. Nella specie, la reazione posta in essere dall’imputato, cagionando lesioni alle persone offese, ha ‘esorbitato’ dai limiti sopra indicati, per cui non vi sono ragioni per escludere il concorso del delitto di lesioni personali con quello di resistenza a pubblico ufficiale”.
Mi pare una decisione giusta: mai passare dalla ragione al torto.

venerdì 17 aprile 2009

Autovelox: sentenza n. 7419 del 26 marzo 09

Ancora una sentenza sugli autovelox ed in particolare sulla preventiva informazione agli automobilisti dell'installazione dei marchingegni elettronici.
La Corte di cassazione con la sentenza n. 7419 del 26 marzo u.s. ha stabilito che in materia di accertamento di violazioni delle norme sui limiti di velocità compiuta a mezzo apparecchiatura di controllo (autovelox), la disposizione di cui all’art. 4, d.l. n. 121 del 2002 che prevede che dell’installazione dei dispositivi o mezzi tecnici di controllo deve essere data informazione agli automobilisti non è un obbligo che ha efficacia soltanto nell’ambito dei servizi organizzativi interni della p.a. ma è finalizzato a portare a conoscenza gli automobilisti della presenza dei dispositivi di controllo medesimi onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di violazione con metodiche elettroniche.
Si tratta, quindi, di una norma di garanzia dell’automobilista, la cui violazione non è priva di effetto ma cagiona la nullità della sanzione eventualmente irrogata.

lunedì 13 aprile 2009

Sentenza niente male sulla casa pagata dai suoceri.

Secondo la Corte di cassazione (sez. III civile con la sent. 8386/09) i soldi che i suoceri danno ai figli sposati non possono essere restituiti nel caso in cui la coppia scoppi.
Bhè mi pare non ci sia nessuno scandalo no? Tanto più che i suoceri non si sono cautelati con un atto formale per una restituzione delle somme nel caso di separazione o divorzio.
La Cassazione ha respinto il ricorso di due suoceri che chiedevano all'ex marito della figlia la restituzione dei 9 mila euro da loro anticipati per l'acquisto della casa coniugale mutuata per una somma complessiva di 27 mila euro.
Secondo la Suprema Corte, che ha bocciato il ricorso degli ex suoceri, la somma da loro versata per l'acquisto della casa va inquadrata “in un contesto di solidarietà famigliare che si presume gratuito”, considerato anche il fatto che “è costume diffuso, nell'attuale società, che i genitori aiutino anche finanziariamente i figli al momento del loro matrimonio”.
Di diverso avviso era stato il Tribunale di Milano che nel 2002 aveva condannato il giovane a restituire agli ex suoceri circa 7 mila euro. Verdetto ribaltato dalla Corte d'Appello di Milano nel marzo del 2004.
Inutilmente i suoceri hanno fatto ricorso in Cassazione per chiedere indietro la somma anticipata per l'acquisto della casa. La cassazione ha respinto il ricorso e ha sottolineato che legittimamente i giudici di merito hanno ritenuto che tale somma andasse inquadrata “in un contesto di solidarietà famigliare che si presume gratuito”.
Tra l'altro, annota ancora Piazza Cavour mancava “una prova specifica e precisa” che dimostrasse “tempi della pattuita restituzione” della somma anticipata.
Pertanto cari suoceri e futuri suoceri d'ora in avanti quando prestate o donate delle somme di denaro cautelatevi con atti ad hoc.

Aumentano i divorzi per colpa di Fido e Fuffi

Non mi stupisce più di tanto questa notizia che mi giunge da Adnkronos secondo la quale crescono i divorzi per il troppo attaccamento di uno dei coniugi all´animale domestico.
Bhè anch'io ho avuto un cane... e non nascondo che a volte il nostro amico è stato in effetti causa di litigi... ma non da arrivare però al divorzio.
I dati arrivano dall´analisi degli sportelli on line, dedicati alle questioni di animali in famiglia dell'associazione italiana difesa animali ed ambiente (Aidaa) relativi al biennio 2007-2008.
Le coppie separate e divorziate che si sono rivolte nei due anni presi in considerazione agli sportelli online di Aidaa per chiedere consulenza su come gestire i propri animali domestici sono state 580 di queste sono state ben 88 che hanno ammesso che come prima causa della separazione o del divorzio c'è un problema con l´animale di casa.
Tra gli animali oggetto morboso di attenzione da parte dei coniugi primeggia il cane che è indicato come causa di separazione in ben 51 casi, seguito dal gatto in 19 casi e poi pappagalli, tartarughe e pesci, mentre un caso riguarda persino due topolini bianchi.
E, strano ma vero, in quasi il 70% dei casi il coniuge morboso è l'uomo, marito o convivente.
In altri 47 casi di separazione o divorzio viene indicata tra le cause l'abbandono da parte di uno dei coniugi di un'animale domestico, ma allo stesso tempo aumentano le richieste di affido condiviso del cane o del gatto di casa in sede di separazione. Ma dall´analisi dei dati emersi da questa ricerca sui 580 casi di coppie che si sono rivolte all´Aidaa per dirimere le questioni legate agli animali domestici vi sono stati ben 269 coppie che si sono rivolte all´associazione animalista per chiedere di aiutarli a trovare un accordo per poter condividere insieme il proprio animale, e in questo caso in ben 245 casi la soluzione e' stata positiva con un forte incremento del dato del 2008 rispetto all´anno precedente (155 casi nel 2008 e solo 9 nel 2007). Anche in questo caso oltre il 70% degli animali interessati era composto da cani, il 22% da gatti ed in quasi tutti gli altri casi si trattava di coppie separate o divorziate che possedevano piu' di un´animale. Non sono mancate -sostiene Lorenzo Croce presidente nazionale dell´Aidaa- le richieste di intervento piuttosto strane come due casi di richiesta di aiuto per superare il pignoramento di un gatto e cinque casi relativi a questioni di eredità collegate ad animali".
"Ora -prosegue Croce- con l´avvio delle sezioni del tribunale degli animali sono sempre più le persone che si presentano nelle nostre tredici sedi a chiedere informazioni su come tenere i propri animali insieme anche in caso di separazione, ma non manca chi chiede di tornare in possesso totale del proprio animale accusando il coniuge di essere poco attento al benessere del cane o del gatto di coppia.
Strano ma proprio vero....

venerdì 10 aprile 2009

Interessante sentenza sui danni subiti dai cani randagi.

Interessantissima e condivisibile la sentenza n. 8137/09 della III Sez. civile della Corte di Cassazione che ha stabilito che, in tema di randagismo, sono le Asl territorialmente competenti, a dover risarcire i danni alle persone che subiscono danni dai cani randagi e ciò in quanto una legge regionale affida la lotta contro questo fenomeno ai servizi veterinari delle aziende sanitarie locali.
Un sospiro di sollievo quindi per i Comuni che sono chiamati sempre più spesso dai cittadini al risarcimento dei danni.
I Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che “la legittimazione passiva spetta alla locale azienda sanitaria, succeduta alla USL, e non al Comune, sul quale, perciò, non può ritenersi ricadente il giudizio di imputazione dei danni dipendenti dal suddetto evento”.

mercoledì 8 aprile 2009

Ancora una sentenza sul semaforo rosso.

Con la sentenza n. 7388 del 26 marzo 2009 la Corte di cassazione, sezione II civile, conferma i precedenti giudizi sulla nullità del verbale redatto per violazione dell'art. 146, terzo comma, del Codice della strada, ovvero, per il passaggio con il rosso per mancanza di contestazione da parte dell'agente.
A pagarne le spese questa volta la Polizia Municipale di Modena. In un primo momento il giudice di pace di Modena aveva dato ragione al Comune poichè aveva ritenuto, che la mancata contestazione immediata della infrazione fosse legittima, in quanto l'art. 384 del regolamento del Codice della strada (che ha natura regolamentare e, quindi, secondaria rispetto alla disposizione legislativa che, in astratto, prevede comunque come regola generale la contestazione immediata) individua l'ipotesi di "attraversamento di un incrocio con il semaforo indicante la luce rossa" tra quelle per cui può essere omessa la contestazione immediata.
Di diverso avviso è infatti la Corte di cassazione che pur non ignorando che in precedenti decisioni si è ritenuta legittima l'assenza di agenti in relazione all'utilizzazione di autovelox (Cass. 21 luglio 2005, n. 15348, ed altre), ha rilevato che, la istituzionale rinuncia alla contestazione immediata appare non conforme alle possibili situazioni che in tali evenienze possono verificarsi (esemplificativamente, il caso di coda di autoveicoli che non consenta al mezzo che abbia legittimamente impegnato l'incrocio di attraversarlo tempestivamente) e che, solo la presenza di un agente operante in loco, può ricondurre nell'alveo della corretta applicazione delle disposizioni relative (vedi in termini Cass. n. 23310/2005, n. 8465/2006).
Nel caso in questione la mancata presenza in loco di agenti operanti, per un verso, preclude la possibilità di contestazione immediata nei casi in cui ciò sia possibile, così eludendo ex ante il precetto legislativo al riguardo e, per altro verso, non consente di verificare le concrete situazioni in cui l'apparecchio di rilevamento automatico opera, consentendo possibili equivoci, non risolubili con certezza proprio per l'assenza degli agenti sul posto.
Con tali riassunte motivazioni la Corte ha accolto il ricorso del cittadino ed ha condannato il Comune di Modena alle spese di giudizio.

lunedì 6 aprile 2009

Interessante sentenza sull'ispezione in casa del contribuente.

Interessante e meritevole di essere diffuso il numero della sentenza sull'ispezione in casa del contribuente da parte della Guardia di Finanza.
Secondo la Corte di cassazione è legittima solo se ci sono "gravi" indizi di evasione fiscale.
Ha stabilirlo è la V Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 6836/09.

venerdì 3 aprile 2009

Finalmente qualcuno incomincia a pagare di persona.

Io sono uno tra quelli favorevoli alla condanna personale del dipendente ex art. 328 c.p. ovvero per omissione di atti d'ufficio. Ebbene la Corte di cassazione, VI sez. penale, con la sentenza n. 14466 ha dato uno stop ai ritardi nella pubblica amministrazione e quindi anche al rifiuto di rispondere alle istanze dei cittadini sempre più maltrattati e vessati dai lunghi silenzi degli uffici pubblici.
A pagarne le conseguenze in questo procedimento un ingegnere addetto ai servizi tecnici comunali che è stato condannato appunto per omissione di atti d'ufficio per non aver dato risposta ad una formale richiesta di una cittadina.
Il caso per la determinazione della signora è finito in Tribunale con la conseguente condanna dell'Ingegnere per omissione di atti d'ufficio ora confermata dalla Corte di cassazione che ha spiegato che ''Resta ingiustificato il silenzio omissivo del pubblico ufficiale perche', nell'economia del delitto di cui all'art. 328 c.p., una volta individuato l'interesse qualificato alla conoscenza da parte del richiedente, anche la risposta negativa dell'ufficio adito, in termini di indisponibilita', oppure di parziale disponibilita' della documentazione richiesta, fa parte del contenuto dell'atto dovuto al cittadino, il quale, sull'informazione negativa, puo' organizzare la sua strategia di tutela, oppure rinunciare in modo definitivo ad ogni diversa sua pretesa''.
Io ho esperienza diretta sull'art. 328 c.p. per aver denunciato più volte alcuni dipendenti della mia ex amministrazione ma fortuna per loro i procedimenti nonostante la severità della norma sono stati sempre inspiegabilmente archiviati.
Ora i giudici della Corte di cassazione hanno avvertito - finalmente - che ''il silenzio omissivo del pubblico ufficiale'' o gli eventuali ritardi nelle risposte al cittadino saranno puniti severamente.

mercoledì 1 aprile 2009

Nullo il verbale emesso dagli ausiliari fuori dalle strisce blu.

Questa volta ad esprimersi sulla competenza dei vigilini sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che con sentenza n. 5621/09 hanno stabilito: “può essere enunciato il principio di diritto secondo cui le violazioni in materia di sosta che non riguardino le aree contrassegnate con le strisce blu e/o da segnaletica orizzontale e non comportanti pregiudizio alla funzionalità delle aree distinte come sopra precisato, non possono essere legittimamente rilevate da personale dipendente delle società concessionarie di aree adibite a parcheggio a pagamento, seppure commesse nell’area oggetto di concessione (ma solo limitatamente agli spazi distinti con strisce blu)”.
A pagarne le spese il Comune di Parma.
Infatti contro l'annullamento della multa accordato all'automobilista nel gennaio 2004 il comune di Parma ha fatto ricorso in Cassazione affermando che il potere degli ausiliari del traffico dovrebbe essere “più ampio in materia di sosta nell'area soggetta a concessione, in ragione del fatto che la concessionaria è direttamente interessata al rispetto dei limiti e dei divieti vigenti, in quanto qualsiasi violazione andrebbe ad incidere sul suo diritto alla riscossione delle tariffe stabilite".
Le Sezioni Unite, rigettando il ricorso, hanno stabilito in merito alla questione il principio secondo cui i c.d. “vigilini” possano fare multe soltanto nelle aree contrassegnate dagli spazi distinti con strisce blu, in tal modo risolvendo speriamo in maniera definitva un rebus che aveva creato grandi problemi interpretativi tra le stesse sezioni semplici della Corte di Cassazione che emettevano sentenze discordanti.