mercoledì 18 febbraio 2009

Violenza sessuale: secondo l’A.n.m., la scarcerazione del tunisino non è correlata al grave episodio di Bologna.

Intervenendo sulla vicenda del tunisino clandestino 33enne, che ha violentato una ragazza di 15 anni in un parco di Bologna, il presidente dell'associazione nazionale magistrati (A.n.m.) dell’ Emilia-Romagna, Rossella Poggioli, avrebbe dichiarato che “La scarcerazione, disposta dopo l'espiazione in via cautelare di due terzi della pena, non può essere messa in alcun modo in correlazione con il grave, diverso e imprevedibile episodio delittuoso di violenza sessuale, accaduto un mese dopo”.
Secondo il magistrato sarebbe invece necessario prendere atto che “l'attuale assetto normativo non assicura l'effettivo allontanamento dal territorio dello Stato degli stranieri clandestini, in particolare di quelli che vengono denunciati o addirittura condannati per reati, adempimento la cui materiale esecuzione esula dalle competenze della magistratura”. L'A.n.m. chiarisce che il magrebino è stato scarcerato dal Tribunale della Libertà di Bologna sulla base della considerazione che “l'ulteriore protrarsi della custodia, a fronte della sanzione comminata di otto mesi di reclusione, avrebbe di fatto comportato l'espiazione dell'intera pena in fase cautelare in violazione del canone di proporzione indicato dal codice di procedura penale e di generale applicazione”.

Il contribuente non ha l’onere di produrre in giudizio il p.v.c..

Interessante la sentenza n. 3456/09 della Corte di cassazione, Sezione Tributaria Civile, che ha ha stabilito che è onere del Fisco produrre in giudizio il processo verbale di contestazione della Guardia di Finanza anche se serve al cittadino per difendersi.
I giudici della Corte hanno stabilito il seguente principio di diritto “in relazione agli atti impositivi notificati prima dell’entrata in vigore della legge 212/2000, per i quali non era necessaria la contestuale notifica del p.v.c. richiamato in motivazione, il contribuente non ha l’onere di produrre in giudizio il p.v.c. richiamato, trattandosi di adempimento che anche in sede contenziosa, grava sull’ufficio” e che “il mancato deposito p.v.c., non soltanto non produce effetti negativi a carico del contribuente (restando un onere che deve soddisfare l’ufficio), ma nemmeno rileva come possibile causa di inammissibilità del ricorso: ‘la sanzione processuale della inammissibilità del ricorso è disposta soltanto nel caso di mancato deposito degli atti e documenti previsti dal primo comma dell’art. 22 d.lgs. 546 del 1992 (tra i quali è compreso l’originale o la fotocopia dell’atto impugnato), non anche degli atti previsti dal quarto comma dello stesso articolo; ne consegue che l’originale o la fotocopia dell’atto impugnato può essere prodotto anche in un momento successivo ovvero su impulso del giudice tributario, che si avvalga dei poteri previsti dal quinto comma dell’articolo citato”.

martedì 17 febbraio 2009

Importante sentenza sul rinvio dell'udienze dovute a malattia del difensore.

Con questa sentenza credo che la Corte di cassazione abbia voluto mettere un po’ il freno al proliferare delle udienze anche a causa dell’assenza del difensore che effettivamente non sempre è giustificata.
Infatti la Corte di cassazione, III Sez. Penale, con la sentenza n. 5496/09 ha stabilito che è legittima l’assenza del difensore d’ufficio e pertanto è possibile ottenere il rinvio dell’udienza solo se l’assenza è giustificata da gravi patologie alle quali segue un ricovero ospedaliero.
Questa sentenza metterà certamente in grave difficoltà quegli avvocati che hanno troppe udienze nello stesso giorno e in sedi diverse. Fatto che non è stato mai risolto con norme specifiche anche se è prevista comunque la sostituzione.
Ma a volte gli avvocati preferiscono non farsi sostituire per non creare eventuali equivoci o problemi ai propri clienti ai quali devono dare conto del proprio operato e non è raro che proprio i sostituti creano veri disagi a volte anche seri ai sostituiti.
Comunque nel caso di specie la Corte ha precisato che “in ordine alla istanza di rinvio della udienza dibattimentale [..], formulata dal difensore per essere affetto da colica renale [..], legittimamente la corte […] l’ha respinta, con una motivazione incensurabile in questa sede. Infatti, dopo aver rilevato che il certificato medico prodotto dal difensore a sostegno della sua istanza, risaliva ad alcuni giorni addietro, e che l’istanza medesima non era tempestiva – come richiesto dalla costante giurisprudenza di legittimità – la Corte di merito ha correttamente ritenuto che la patologia denunciata (colica renale) non poteva configurare un impedimento assoluto a comparire, sia perché, secondo il certificato medico, comportava soltanto tre giorni di riposo e non un intervento chirurgico o comunque un ricovero ospedaliero, sia perché il dolore fisico che notoriamente accompagna le coliche renali poteva essere già cessato nel giorno della udienza per effetto delle cure e del riposo”.
È evidente che in questo caso ha pesato anche l’errore macroscopico del legale che non aveva inviato il certificato medico in cancelleria immediatamente.
Ha pagarne le spese in questo caso è stato il cittadino rimasto indifeso in quanto la Corte ha anche ritenuto legittima “la denegata concessione del termine a difeso chiesto dal difensore di ufficio nominato dopo il predetto rigetto della istanza di rinvio avanzata dal difensore di fiducia […]. Sul punto, infatti, la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di precisare che il termine a difesa previsto dall’art. 10 c.p.p. spetta soltanto nei casi di rinuncia, revoca, incompatibilità o di abbandono della difesa, e pertanto non spetta al difensore di ufficio designato in sostituzione di quello “non comparso” verso il quale sia stata disattesa la richiesta di rinvio della udienza”.
Nulla da eccepire.

domenica 15 febbraio 2009

Guida in stato di ebbrezza? Ora basterebbe la parola del poliziotto.

Si alla linea dura contro chi si mette ubriaco alla guida. Si anche alle multe salate per chi viene sorpreso alla guida in stato d'ebbrezza o peggio drogato. Si al ritiro definitivo della patente in casi più gravi.
Ma non condivido assolutamente quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la novella sentenza con la quale ha stabilito che per dimostrare lo stato di ebbrezza basta la parola del poliziotto anche se non è stato effettuato l'alcol test e se invece di ubriaco fosse drogato?
Ma insomma con una precedente sentenza la Corte aveva disposto l’ulteriore test presso l’ospedale per l’accertamento vero e proprio dello stato di ebbrezza. Ora invece basta la parola del poliziotto, pur non essendo medico di professione, purché dimostri l'esistenza dello stato di ebbrezza sulla base delle circostanze sintomatiche sul verbale (?) Ma stiamo dando i numeri?
Ma un poliziotto è in grado ora di riconoscere e accertare i sintomi e la diagnosi di una persona?
Mi sa che si sta facendo davvero un po’ troppa confusione in questo mondo. Il medico che deve denunciare un paziente anche se immigrato ed ora il poliziotto che deve fare la diagnosi.

mercoledì 11 febbraio 2009

Lecita la pubblicazione sul web anche delle sentenze integrali.

Lo stabilisce la corte di cassazione V Sezione penale con la sentenza n. 4239/09.
Se non c'è richiesta espressa di omettere le generalità la pubblicazione sul web del testo integrale delle sentenze quindi è lecita.
Difficile comunque che le generalità integrali delle persone vengano pubblicate.
Nel caso di specie, la Corte ha osservato che “il tribunale, con adeguata e coerente motivazione, ha ritenuto la liceità della pubblicazione integrale sul sito Eius della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte dei Conti nei confronti di […] sia in quanto avvenuta nel pieno rispetto della normativa di cui all’art. 52 D.lgs. 30/6/2003, n. 196, sia perché reperibile attraverso la banca dati presente sul sito ufficiale della cennata Corte” e che “i limiti di accesso alla banca dati della Corte dei Conti dedotti dal ricorrente non escludono la liceità della pubblicazione in quanto comunque conforme al disposto dell’art. 52 D.lgs. 196/2003”.


domenica 8 febbraio 2009

No all'annullamento di decreti pensionistici dopo lunghissimo tempo.

Interessante la Sentenza n. 563/08/A della Corte dei Conti, Sez. I, Giurisdizionale centrale emessa sull’appello proposto da D.D. e, dopo il suo decesso, riassunto dagli eredi, avverso la sentenza 220/05 della Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la regione Piemonte.
Il signor D.D., con ricorso impugnava il provvedimento con il quale l'INPDAP aveva revocato la pensione a suo tempo concessagli, con la motivazione che non avrebbe "maturato l'anzianità contributiva prevista per il diritto a pensione"; il ricorrente chiedeva di accertare l'illegittimità del provvedimento dell'ente previdenziale, il riconoscimento del suo diritto a percepire la pensione di anzianità attribuitagli con decreto del Ministro del Tesoro, Direzione generale II.PP. – CPDEL, nonchè le somme non corrisposte a decorrere dal giugno 2001, maggiorate di interessi e rivalutazione, ed il risarcimento dei danni.
A sostegno della sua richiesta il D. evidenziava invece di aver prestato servizio in via continuativa presso il Comune di S. dall'anno 1953 sino al 31.12.1974 e che al momento del pensionamento gli era stato riconosciuto solo il periodo compreso fra il 1° gennaio 1955 e il 1967, nel corso del quale avrebbe prestato la sua opera continuativa alle dipendenze del Comune.
Con la sentenza n. 220/05, la Sezione giurisdizionale per il Piemonte accertava che il rapporto di lavoro subordinato del ricorrente con il Comune di S. era cessato il 31 maggio 1967; circostanza, peraltro, avvalorata dal successivo comportamento delle parti che, perlomeno in base al Regolamento organico del personale ed alle delibere prodotte dallo stesso ricorrente non avevano inteso dar corso ad alcun rapporto di lavoro subordinato, il cui svolgimento potesse essere utilizzato per calcolare l'anzianità necessaria per la pensione CPDEL.
In particolare, osservava il primo Giudice la chiara volontà che gli organi competenti (Consiglio comunale e Giunta Comunale), manifestata nelle relative delibere, di non costituire alcun rapporto di lavoro, con l'ulteriore specificazione, contenuta in ciascuna delibera, che il rapporto non avrebbe comportato l'insorgenza di obblighi previdenziali a carico del Comune e l'accettazione di tale situazione da parte del D. per cui, la successiva rivendicazione del trattamento pensionistico da parte del ricorrente (con l'avallo degli stessi amministratori) non poteva che configurare quella “illiceità della causa” che in base all'art. 2126 cod. civ. esclude ogni forma di tutela per il lavoratore.
Il provvedimento di revoca dell'INPDAP è stato pertanto ravvisato dal Giudice come pienamente legittimo, poiché l'ente previdenziale dopo aver ricevuto dal Comune di S. un nuovo “modello 98.1” in sostituzione del precedente, non poteva che verificare se in base alle nuove dichiarazioni dell'Amministrazione il D. avesse o meno diritto alla pensione di anzianità.
Avverso la sentenza interponeva appello l’interessato, il quale deduceva di aver prestato un servizio continuativo, senza soluzione, presso il comune di S. dall’1.1.55 al 31.12.74; in particolare, dal 1.7.67 al 31.12.74 – a seguito della soppressione del posto di capo dell’ufficio tecnico, operata dal Regolamento organico del comune - egli espletò l’incarico di tecnico comunale a tempo parziale, ma sempre con carattere di continuità, con vincolo di subordinazione, stipendio predeterminato mensilmente e regolare versamento di contributi previdenziali da parte dell’ente alla CPDEL.
Si tratterebbe, quindi, di un rapporto di lavoro avente tutte le caratteristiche per la quiescibilità in base alla normativa INPDAP, sulla qualificazione giuridica del quale la Corte dei conti avrebbe piena giurisdizione.
Sotto altro profilo, lamentava l’errata e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c., e dei principi in materia di rapporto lavorativo di fatto: per la valorizzabilità in pensione di un determinato periodo, afferma parte appellante, è irrilevante il nomen iuris attribuito dalla parti al rapporto, dovendosi considerare in proposito il concreto atteggiarsi e le caratteristiche del servizio svolto.
Da ultimo, viene dedotta la violazione degli artt. 204 e segg. del T.U. n. 1092/1973 sulla revoca dei provvedimenti di pensione; revoca che non sarebbe stata giustificata nel caso di specie.

Dopo il decesso dell’appellante, il gravame veniva riassunto dagli eredi.
Con memoria depositata il 1.10.08, si costituiva in giudizio l’INPDAP, che eccepiva, in rito, il difetto di giurisdizione della Corte dei conti in ordine all’esatta qualificazione del rapporto intercorso per il periodo dal 1967 al 1974 tra il comune e il de cuius D.
Nel merito, affermava la piena legittimità del provvedimento di revoca della pensione, adottato sulla scorta di quanto stabilito dagli artt. 7 L. n. 379/1955 (sull’anzianità lavorativa minima per il conseguimento del diritto a pensione) e 30 D.L. 28.2.1983, n. 55, sulla rilevanza della certificazione dei servizi da parte dell’amministrazione di provenienza del pensionato CPDEL.
All’udienza dibattimentale, il legale intervenuto per gli appellanti, insisteva per l’accoglimento del gravame, riportandosi alle memorie depositate. Parte avversa invece ripetuto l’eccezione di difetto di giurisdizione del Giudice in ordine al rapporto di lavoro intercorso tra le parti nella fattispecie; in subordine, chiedeva il rigetto dell’appello.
La corte dei conti precisava che la giurisdizione non poteva essere seriamente posta in discussione (v. art. 62 t.u. n. 1214/1934), facendosi questione relativa al diritto a pensione.
Nel merito riteneva l’appello fondato con relativo accoglimento con conseguente riforma dell’impugnata sentenza di prime cure, la quale ha erroneamente riteneva legittima la revoca del primo decreto (definitivo) di pensione, emesso dalla CPDEL.
La Corte dei Conti precisava che l’art. 203 del t.u. n. 1092/1973 dispone che “Il provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza può essere revocato o modificato dall'ufficio che lo ha emesso, secondo le norme contenute negli articoli seguenti”. Ai sensi del successivo art. 204, “La revoca o la modifica di cui all'articolo precedente può aver luogo quando: a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti; b) vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo del riscatto, nel calcolo della pensione, assegno o indennità o nell'applicazione delle tabelle che stabiliscono le aliquote o l'ammontare della pensione, assegno o indennità; c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l'emissione del provvedimento; d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi”.
Orbene, come correttamente lamentato da parte appellante, la CPDEL nel caso di specie non avrebbe potuto in alcun modo ritenere valido, ai fini della revoca poi emessa, il nuovo modello 98.1, correttivo di quello a suo tempo inviato all’Istituto previdenziale, predisposto dal comune di Strambino nel 2003, dopo 17 anni (!) dal primo provvedimento di pensione. Tale documento, infatti, non integra alcuno dei presupposti di cui alla norma sopra riportata, e che soli possono legittimare la revoca in esame: non vi era stato un errore di fatto o un errore nel computo dei servizi; non sono emersi nuovi documenti decisivi dopo l'emissione del primo provvedimento; infine, il decreto del 1976 non fu emesso in base a documenti falsi, giacchè il comune era stato sempre perfettamente a conoscenza della particolare situazione di servizio del dipendente.
Insomma, non ricorre alcuno dei – tassativi – presupposti richiesti dalla legge perché sia possibile far luogo, e per giunta dopo un tempo lunghissimo, alla revoca del decreto già emesso. Ha dunque errato il primo Giudice nel ritenere corretto il su detto provvedimento del quale, al contrario, va dichiarata l’illegittimità.
L’appello proposto quindi il 24.10.08 è stato accolto con conseguente annullamento dell’impugnata sentenza di prime cure.
Sentenza depositata il 18/12/2008.

Immigrati? Non sono cittadini di serie B.

Immigrati sono anche gli Italiani all’estero!
Come si può pensare in certe circostanze di trattare le persone in maniera diversa per il semplice fatto di non essere residenti in Italia?
Condivido il monito lanciato dalla Corte di Cassazione ai colleghi del “merito” che evidentemente applicavano la legge in maniera distorta e parziale.
Una Corte d'Appello aveva negato ai familiari di una vittima di incidente mortale il risarcimento del danno per la morte del loro congiunto sulla base del fatto che essi non erano residenti in Italia (?)
Ma come si può in Italia, in Europa, fare una sentenza del genere?
Infatti la Corte di cassazione ha stabilito che gli immigrati non sono cittadini di serie B e in caso di morte per incidente stradale i familiari hanno diritto non solo di chiedere ma anche di ottenere il risarcimento danni anche se sono residenti all'estero.
Lo stesso vale per chi ha figli all’estero per studio o lavoro.
Secondo la Corte se si dovesse ragionare diversamente ''ne conseguirebbe che la vita di uno straniero senza congiunti in Italia varrebbe molto meno di quella del cittadino italiano, pur essendogli attribuiti in vita gli stessi diritti, perché verrebbe escluso alcun rilievo alla sua valenza spirituale, che si traduce nei tanti doveri e diritti di relazione che ad altri soggetti vengono riconosciuti come produttivi di effetti giuridici dopo la morte''.
Sulla scorta di questo principio la IV sezione penale della Corte di cassazione ha accolto il ricorso di ben 9 familiari di un cittadino straniero morto a seguito ad un incidente stradale.