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sabato 6 febbraio 2010

In Italia bisogna affidarsi al Giudice di turno.

La II sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 4804/10 ha stabilito che il Giudice penale ha l'obbligo di esaminare l'istanza di rinvio eventualmente presentata dal difensore perchè impegnato in altri uffici giudiziari.
Se il magistrato omette di pronunciarsi su tale istanza limitandosi a nominare in sua vece un difensore d'ufficio e proseguendo il dibattimento, detemina un difetto di assistenza dell'imputato che comporta la nullità assoluta della sentenza. Nella parte motiva la Corte richiama anche alcuni precedenti decisioni come la n. 2875/04 e 2850/99.
Insomma in Italia bisogna affidarsi al Giudice di turno. La Cassazione con questa sentenza si contraddice sul punto con altre sentenze simili. Insomma è nullità assoluta o relativa?
La Giustizia non è uguale per tutti.

Senza parole.

Secondo la non condivisa sentenza della Corte di cassazione il portatore di handicap che sosta all’interno delle aree assoggettate a tariffa deve sostenere il costo del parcheggio, pur munito dello speciale contrassegno esposto sul parabrezza del veicolo: il principio (ma quale principio esistono ancora?) è stato affermato dalla Corte di Cassazione – Sezione 2^ Civile, che ha respinto il ricorso presentato dal disabile, già risultato soccombente nell’ambito della procedura di opposizione alla sanzione amministrativa promossa avanti al Giudice di Pace di Palermo.
I Giudici di Piazza Cavour evidenziano nella parte motiva che l’esonero dal pagamento del ticket non è previsto da alcuna norma, quantunque venga teorizzato all’interno di circolari della Pubblica Amministrazione, prive del rango di norme di diritto.
Oltretutto, aggiungono gli Ermellini, non ha fondamento invocare a sostegno di un’interpretazione ipoteticamente difforme l’esigenza di favorire la mobilità delle persone disabili; “dalla gratuità, anziché onerosità come per gli altri utenti, della sosta deriva, infatti, un vantaggio meramente economico, non un vantaggio in termini di mobilità”.
Talché, anche nell’indisponibilità degli apposti spazi riservati alla categoria dei disabili, mancanti o già occupati da altri portatori di handicap, costoro non possono fruire della sosta gratuita negli stalli a pagamento.
La pronuncia, recante il n° 21271 e depositata il 5 ottobre 2009, fa riflettere su come i Giudici di questo Stato giudicano i casi .... che riguardano le persone comuni... per non andare oltre.

mercoledì 3 febbraio 2010

La Corte di Cassazione avverte tutti gli automobilisti sui rischi che si corrono ad ospitare a bordo della propria auto un passeggero che non vuole me

Secondo gli Ermellini, con la sentenza che non condivido, bisogna far scendere i passeggeri perchè in caso di incidente mortale scatta la condanna per omicidio colposo.
Come più volte ho sostenuto esistono anche situazioni in cui proprio le cinture di sicurezza hanno portato alla morte di un passeggero o di un conducente e allora come la mettiamo?
La cassazzione non si dovrebbe forse fermare al solo invito di allacciare le cinture di sicurezza e lasciare al conducente la eventuale responsabilità civile e penale per eventuali danni ai passeggeri?
Ora la Corte è invece categorica: bisogna pretendere che i trasportati indossino le cinture di sicurezza e a fronte di persone ostinate, bisogna farle scendere senza esitazione.
Ma insomma se uno si mette alla guida ed è consapevole che deve andare piano rispettare il codice della strada e la segnaletica stradale laddove esistente non basta? A maggior ragione se il conducente come si sostiene nella sentenza n. 3585/10 è "titolare di una posizione di garanzia" e deve quindi "prevedere e prevenire le altrui imprudenze e avventatezze".
Vi è mai capitato di vedere un conducente di una autovettura che dopo un incidente tentava invano di salvare i propri passeggeri rimasti intrappolati e schiacciati nell'auto?
Io sono del parere che bisogna lasciare la facoltà alle persone di allacciare o meno le cinture.
Salvo appunto ad assumersi le proprie responsabilità che non vuole dire che bisogna obbligarli a morire anche per aver tenuto allacciato le cinture.
A nulla rileva infatti che nel caso di specie a seguito di un incidente il trasportato perdeva la vita e ciò è costato all'automobilista una condanna per il resto previsto e punito dall'art. 589 del codice penale. Evidentemente non rispettava le altre norme del codice della strada.

domenica 24 gennaio 2010

Un condomino vittima di soprusi da parte del vicino può anche improvvisarsi sceriffo e risolversi il caso da solo.

Sono pienamente d'accordo con quanto stabilito con la sentenza depositata in questi giorni, dalla VI sezione penale della Corte (sentenza 2548/10) la quale occupandosi di una lite condominiale nata per questioni di parcheggio ha affermato che "la difesa privata di un proprio diritto di possesso, anche con il ricorso all'uso di una violenza reale, è consentito a chi subisca un fatto vanificante tale diritto (spoglio), allorchè l'autodifesa segua senza soluzione temporale nell'attualità e nell'immediatezza l'azione lesiva" subita.
Insomma ci si può difendere ma occorre farlo subito. Sulla scorta di tale principio la Corte ha annullato una condanna per esercizio arbitrario delle proprie ragioni che i giudici di merito avevano inflitto ad un condomino che trovandosi nell'impossibilità di accedere al parcheggio condominiale per via di un lucchetto (apposto sul cancello d'ingresso) e di un paletto (che il suo rivale aveva apposto per delimitare il suo posto), aveva deciso di risolvere la cosa a modo suo rimuovendo il paletto con le sue mani e senza interessare il Tribunale. Inizialmente il condomino che si era fatto giustizia da solo era stato condannato in primo e in secondo grado per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni punito dall'art. 392 c.p. La Cassazione al contrario ha ribaltato il verdetto riconoscendo che l'imputato rimuovendo paletti e lucchetto aveva esercitato una "legittima difesa" a fronte "a una ingiusta aggressione al libero esercizio del proprio diritto di transito in uno spazio condominiale comune".

Lecito viaggiare di notte con l'uso contemporaneo di anabbaglianti e fendinebbia anche se non ne ricorrono i presupposti.

Ha stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n.534/10 con la quale chiarisce che nessuna norma di legge stabilisce quali debbano essere le condizioni a rendere necessario questo tipo di utilizzo.
Ne consegue secondo la Corte che una sanzione eventualmente irrogata deve ritenersi illegittima.
In precedenza il Giudice di pace aveva ritenuto che l'uso dei fendinebnbia fosse consentito solo di giorno e in presenza di determinate condizioni metereologiche. La suprema Corte richiamando alla lettura dell'art. 153 del codice della strada fa notare che la norma non stabilisce uno specifico divieto di utilizzo contemporaneo di fendinebbia e fari anabbaglianti in orario notturno.

martedì 19 gennaio 2010

Niente decurtazione dei punti se quando si parla al cellulare non vi è la contestazione immediata.

Chi viene sorpreso a parlare con il cellulare mentre è al volante, senza fare uso dell'auricolare, non può subire la decurtazione di punti dalla patente se non c'è stata la contestazione immediata.
Lo ha stabilito la sentenza n. 232/10 della Corte di Cassazione.
In sostanza per applicare la sanzione accessoria della decurtazione dei punti al proprietario dell'auto occorre avere certezza sul fatto che fosse proprio lui alla guida del mezzo.
Del resto - ricorda la Corte - la Corte Costituzionale (sent. n. 27/05) aveva dichiarato l'illegittimità dell'articolo 126 bis del codice della strada nella parte in cui assoggettava a tale sanzione il proprietario dell'auto in caso di mancata identificazione del conducente o di omessa indicazione dello stesso da parte del proprietario.
Finalmente un pò di giustizia.

giovedì 7 gennaio 2010

Interessante sentenza relativa alle spese da attribuire al nuovo condomino che acquista l'appartamento.

Con sentenza n. 23686 del 9 novembre 2009, la Corte di Cassazione torna a occuparsi di una problematica nota e piuttosto frequente in materia condominiale, inerente alla ripartizione delle spese condominiali fra il condomino che ha venduto il proprio immobile e il soggetto che ha acquistato il detto immobile, divenendo così condomino.
Come noto infatti, ai sensi dell'art. 1123 del Codice Civile, i condomini sono tenuti a sostenere le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, così come per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Trattasi di obbligazioni propter rem (costante la giurisprudenza in tal senso) posto che l'obbligo deriva dalla titolarità del diritto reale sull'immobile (ex multis, Cass. Civ. 6323/2003).
E' altresì noto che l'articolo 63 delle disposizioni di attuazione al Codice Civile prevede (al secondo comma) una solidarietà tra il venditore e l'acquirente, nei confronti del condominio, per il pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente, il tutto nell'ottica di agevolare l'amministrazione condominiale al recupero delle spese condominiali.
Senonchè il legislatore nulla dice in ordine al momento del sorgere del contributo condominiale, ossia se quest'ultimo sorga nel momento dell'autorizzazione accordata all'amministratore a compiere la spesa nell'interesse del condominio, ossia al momento della delibera, o al momento in cui sia sorta effettivamente la necessità della spesa ovvero ne sia seguita la concreta attuazione. Il problema è di non poco rilievo, anche in punto di fatto, se si pone attenzione alla circostanza che è assai frequente, nella gestione condominiale, che intercorra un considerevole lasso di tempo tra il sorgere della necessità della spesa o la concreta esecuzione dei lavori di manutenzione e il momento della delibera di approvazione della spesa medesima.
L'orientamento giurisprudenziale prevalente (cfr. Cass. 23345/08, 12013/04, 6323/03) ritiene che l'obbligo del condomino al pagamento dei contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell'edificio debba ancorarsi al momento in cui sia sorta la necessità della spesa ovvero si sia data concreta attuazione ai lavori di manutenzione, posto che la relativa delibera assembleare di approvazione della spesa ha la funzione di rendere liquido il debito determinando, in sede di ripartizione, la quota a carico di ciascun condomino, ma non costituisce quindi il presupposto dell'esistenza stessa del debito, legata invece, come detto, alla titolarità del diritto reale sul bene. E' agevole altresì osservare che tale prospettazione risponde alla logica di accollare le spese a chi veda effettivamente accresciuto il valore del proprio immobile, circostanza che si verifica evidentemente al momento dell'effettiva esecuzione dei lavori di manutenzione.
Ebbene, i Giudici di legittimità specificano altresì che nel momento in cui il condomino vende il proprio immobile, e rende noto tale trasferimento al condominio, perde il proprio status di condomino, tant'è che non è più legittimato a partecipare direttamente alle assemblee condominiali e può far valere le proprie ragioni in ordine al pagamento dei contributi dovuti (nei limiti di cui al richiamato art. 63 disp. att. c.c., II comma) solo tramite l'acquirente che è subentrato nella posizione di condomino. Ne consegue quindi che se il condomino alienante non è legittimato a partecipare alle assemblee e ad impugnare le delibere condominiali, nei suoi confronti non può essere chiesto ed emesso il decreto ingiuntivo per la riscossione dei contributi, atteso che solanto nei confronti di colui che rivesta la qualità di condomino può trovare applicazione l'art. 63 primo comma (così Cass. Civ., Sez. II, sentenza 9 settembre 2008, n. 23345).
Il caso che ci occupa nasce dall'opposizione di un condomino innanzi al Giudice di Pace avverso un decreto ingiuntivo emesso per contributi dovuti ex art. 63 disp. att. c.c.; a fondamento dell'opposizione il condomino pone appunto la circostanza di aver venduto l'immobile prima della delibera delle spese oggetto del provvedimento d'ingiunzione; il Giudice di Pace rigetta l'opposizione rilevando in particolare che la trascrizione (e quindi la conoscenza nei terzi) della vendita dell'appartamento de quo era avvenuta successivamente alla delibera di approvazione della spesa di cui al decreto e che l'amministratore non è onerato a verificare i registri immobiliari per accertare la titolarità della proprietà. I Giudici di legittimità, nella sentenza esaminata, cassano però la sentenza del Giudice di Pace (con rinvio ad altro G.d.P.), evidenziando ancora una volta come, stante il rapporto di natura reale che lega il condomino alla proprietà dell'immobile, la vendita del bene comporta la perdita della qualità di condomino dell'ex proprietario (non rilevando la trascrizione del relativo atto, avente solo fini di pubblicità dichiarativa) e l'impossibilità di chiedere nei confronti di quest'ultimo il decreto ingiuntivo di cui al richiamato art. 63 disp. att. c.c., non essendo possibile peraltro configurare, per le medesime ragioni, la figura del condomino “apparente” (ossia di un soggetto che, con comportamenti anche univoci, possa ingenerare nell'amministratore il ragionevole convincimento di essere l'effettivo condomino, cfr. Trib. Bari, Sez. III, 25.7.08; Trib. Napoli, 13.3.06).
(Altalex, 3 dicembre 2009. Nota di Claudio Vantaggiato)

Sul condominio.

Assemblea condominiale, presidente, compiti, precisazioni
Cassazione civile , sez. II, sentenza 13.11.2009 n° 24132
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Durante lo svolgimento dell’assemblea condominiale, il presidente, nell’esercizio delle proprie funzioni, può limitare i tempi di intervento dei partecipanti,considerato che lo stesso ha il compito di garantire la verifica della corretta costituzione dell’assemblea, nonchè l’ordinato svolgimento della stessa. (1-3)

(*) Riferimenti normativi: artt. 1129-1135 c.c. e 66 disp. att. c.c..
(1) In tema di assemblea e verifica del quorum, si veda Cassazione civile, sez. II, sentenza 10.08.2009 n° 18192.
(2) In materia di condominio e mancata convocazione, si veda Cassazione civile, sez. II, sentenza 03.11.2008 n° 26408.
(3) Sul condominio si veda il Focus, VIOLA, Il condominio: i recenti orientamenti giurisprudenziali.
Si veda l’ebook (collana Altalex Massimario diretta da Luigi Viola) MOMMO, Le problematiche condominiali alla luce della recente giurisprudenza.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 29 ottobre - 13 novembre 2009, n. 24132

(Presidente Triola - Relatore Giusti)

Svolgimento del processo

1. - Con atto di citazione notificato il 26 ottobre 1995, il condomino T.E. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Teramo il Condominio Abruzzo I di Pineto, in persona dell'amministratore pro tempore, per sentire dichiarare l'illegittimità, la nullità o l'annullabilità dei verbali delle assemblee tenute in seduta straordinaria, ed in seconda convocazione, il 6 agosto 1994 ed il 12 agosto 1995, esponendo un dettagliato elenco di molteplici vizi delle deliberazioni adottate e dei comportamenti tenuti dal presidente delle assemblee o dall'amministratore del condominio.

Il Tribunale adito, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 28 novembre 2000, rigettò integralmente le domande dell'attore, avendo rilevato l'intervenuta decadenza dall'impugnativa dell'assemblea condominiale del 6 agosto 1994 ed avendo peraltro ritenuto che i vizi fatti valere tardivamente erano sostanzialmente coincidenti con quelli, rigettati nel merito, propri della delibera assembleare del 12 agosto 1995.
2. - La Corte d'appello dell'Aquila, con sentenza depositata il 2 novembre 2004, ritenutane l'ammissibilità (atteso che la comunicazione del verbale al condomino E., che non aveva partecipato all'assemblea, era avvenuta irritualmente), ha tuttavia respinto l'impugnazione avverso le deliberazioni dell'assemblea condominiale del 6 agosto 1994, rigettando per il resto l'appello e confermando quindi la pronuncia del Tribunale.

2.1. - Secondo la Corte territoriale, la circostanza che nel verbale dell'assemblea del 6 agosto 1994 sia stato riportato che i condomini erano 47 anziché 45 è del tutto ininfluente ai fini della regolare costituzione della detta assemblea, sia perché il regolamento non esclude che il numero dei partecipanti al condominio possa variare nel tempo, in aumento o in diminuzione, per qualsiasi causa legittima, sia perché nella specie l'aumento dei condomini è derivato dal fatto che gli alloggi n. 11 e n. 12 del fabbricato “D”, insistenti su due piani diversi, ciascuno con doppio ingresso, sono stati trasformati in due mini appartamenti autonomi e sono stati ceduti dall'unico proprietario ad altri acquirenti, con conseguente aumento di due unità del numero dei condomini (da 45 a 47), senza alcuna incidenza significativa sui millesimi di proprietà, semplicemente ripartiti tra le unità ricavate da quella originaria.

In ordine alla eccepita invalidità dell'assemblea del 12 agosto 1995, derivante dalla mancata indicazione nel verbale del numero totale dei partecipanti al condominio, la Corte d'appello ha rilevato che nessuna prescrizione - a pena di nullità o di annullabilità - è posta dal legislatore in ordine alla necessità dell'attestazione nel verbale di assemblea del raggiungimento, per ogni singola riunione, del quorum per numero dei condomini presenti e per valore, espresso in millesimi, dell'edificio, rimanendo peraltro la sussistenza, in concreto, del quorum costitutivo presupposto di validità dell'assemblea e delle deliberazioni in essa adottate. Il dato formale della mancata trascrizione nel verbale dell'assemblea del numero totale dei condomini - ha proseguito la Corte territoriale - di per sé non integra motivo di invalidità dell'assemblea, mentre dell'effettiva sussistenza del vizio avrebbe dovuto fornire la prova l'attore. E siccome dal contenuto del verbale impugnato risulta che alla verifica preliminare erano intervenuti all'assemblea del 12 agosto 1995 21 condomini per complessivi 462,70 millesimi, l'E., presente all'assemblea, a conoscenza del fatto che il numero dei condomini era di 47 componenti, ben avrebbe potuto contestare, già in quella sede, la validità dell'assemblea, oltre che, successivamente, provare i presupposti della contestazione medesima.

Quanto alla denunciata irregolare ed illegittima costituzione delle due assemblee, per non essere stato consentito all'E. di controllare le relative modalità di convocazione, la Corte d'appello ha rilevato, per un verso, che deve presumersi che tutti i condomini abbiano ricevuto comunicazione della convocazione dell'assemblea (sia in prima che in seconda seduta), non essendovi stato reclamo da parte di alcuno degli stessi, consapevoli tutti che il numero totale dei condomini era di 47; e, per l'altro verso, che la mancanza delle sottoscrizioni da parte dei condomini delle tavole annesse al regolamento condominiale non ha alcun riflesso sulla validità del procedimento di costituzione dell'assemblea e neppure sul quorum deliberativo.

In ordine al prospettato vizio di illegittima costituzione dell'assemblea del 12 agosto 1995 per mancanza del quorum costitutivo (che si sarebbe svolta in prima, non già in seconda convocazione, giacché all'assemblea convocata alle otto del mattino dell'11 agosto 1995 era presente soltanto l'E. e neppure l'amministratore), la Corte dell'Aquila, nel confermare il rigetto della doglianza pronunciato dal Tribunale, ha rilevato che, in tema di assemblea condominiale, la sua seconda convocazione è condizionata dall'inutile e negativo esperimento della prima, sia per completa assenza dei condomini, sia per insufficiente partecipazione degli stessi in relazione al numero e al valore delle quote, ed ha quindi ritenuto che l'assemblea del 12 agosto 1995 fu tenuta in seconda convocazione.

Ad avviso della Corte d'appello, la limitazione a 10 minuti, da parte del presidente, della durata di ogni singolo intervento non ha compresso in alcun modo il diritto dell'E. di esprimere il proprio pensiero su ogni punto all'ordine del giorno delle assemblee del 6 agosto 1994 e del 12 agosto 1995.

Quanto, infine, ai motivi di appello sub VI, X, XIII, XIV, XV, XVI e XVIII, la Corte territoriale li ha respinti, condividendo la decisione adottata dal primo giudice.

3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello ha proposto ricorso l'E., con atto notificato il 14 dicembre 2005, sulla base di sei motivi.

Il Condominio intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

1. - Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione all'art. 8 del regolamento condominiale, nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.
Dalla lettura del regolamento condominiale si ricaverebbe che l'interno 11 e l'interno 12 non sono insistenti su piani diversi - come afferma l'impugnata sentenza - ma sono posti entrambi al secondo piano e corrispondono non già ad un'unica unità immobiliare di poi trasformata in due appartamenti autonomi, ma a due unità immobiliari originariamente distinte ed autonome ed aventi eguale consistenza. Il rogito per notaio C. del 7 febbraio 1997, prodotto dal Condominio, dimostrerebbe come in epoca successiva alla approvazione del regolamento condominiale il sottotetto indicato come “appartamento sito al terzo piano”, non considerato ai fini del regolamento stesso per determinazione delle tabelle millesimali, ha acquisito la consistenza di un appartamento. Tale documento smentirebbe l'assunto secondo cui l'aumento del numero dei condomini non comporterebbe alcuna incidenza significativa dei millesimi di proprietà.

1.1. - Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente si duole che il verbale dell'assemblea del 6 agosto 1994 non abbia considerato che l'aumento a 47 del numero dei condomini corrisponde, in realtà, ad un mutamento, in senso ampliativo, dell'edificio “D” e che l'inserimento di essi nell'elenco dei condomini avrebbe dovuto essere preceduto da una modifica del regolamento e delle pertinenti tabelle millesimali, modifica da praticarsi con il consenso unanime dei condomini o con una azione giudiziaria da proporsi in contraddittorio con tutti i condomini.

È esatta la premessa in diritto da cui muove il ricorrente: che cioè, per un verso, in base all'art. 69 disp. att. cod. civ., i valori proporzionali dei vari piani o porzioni di piano possono essere riveduti o modificati, anche nell'interesse di un solo condomino, quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano; e, per l'altro verso, che le tabelle millesimali allegate ad un regolamento condominiale contrattuale non possono essere modificate se non con il consenso di tutti i condomini (che, sotto il profilo dell'impegno e del vincolo, equivale all'accordo iniziale) ovvero per atto dell'autorità giudiziaria ex art. 69 cit., il quale contempla i presupposti, e non già il quorum di validità, della relativa deliberazione.

Sennonché, nella specie non si censura che l'assemblea abbia proceduto, a maggioranza, ad adottare nuove tabelle millesimali a modifica di quelle allegate al regolamento contrattuale, ma semplicemente ci si duole che il relativo verbale abbia erroneamente attestato in 47, anziché in 45, il numero totale dei partecipanti al condominio.

Sotto questo profilo, il ricorrente non solo non precisa come tale (pur in ipotesi erronea) attestazione del verbale abbia influito sulla validità della costituzione dell'assemblea e delle deliberazioni in essa assunte, ma neppure indica se il proprietario dell'unità immobiliare non ancora contemplato nelle tabelle in questione abbia partecipato all'assemblea e (in ipotesi affermativa) se abbia inciso sulla formazione della maggioranza.

2. - Con il secondo mezzo, il ricorrente censura violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione all'art. 8 del regolamento condominiale, nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Erroneamente non sarebbe stata dichiarata l'invalidità del verbale dell'assemblea del 12 agosto 1995, nonostante in esso manchi l'indicazione del numero totale dei condomini.

2.1. - Il motivo è infondato.

Il verbale dell'assemblea condominiale rappresenta la descrizione di quanto è avvenuto in una determinata riunione e da esso devono risultare tutte le condizioni di validità della deliberazione, senza incertezze o dubbi, non essendo consentito fare ricorso a presunzioni per colmarne le lacune.

Il verbale deve pertanto contenere l'elenco nominativo dei partecipanti intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, perché tale individuazione è indispensabile per la verifica della esistenza dei quorum prescritti dall'art. 1136 cod. civ.
In questo senso è orientata la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato: (a) che non è conforme alla disciplina indicata omettere di riprodurre nel verbale l'indicazione nominativa dei singoli condomini favorevoli e contrari e le loro quote di partecipazione al condominio, limitandosi a prendere atto del risultato della votazione, in concreto espresso con la locuzione “l'assemblea, a maggioranza, ha deliberato” (Sez. II, 19 ottobre 1998, n. 10329; Sez. II, 29 gennaio 1999, n. 810); (b) che la mancata verbalizzazione del numero dei condomini votanti a favore o contro la delibera approvata, oltre che dei millesimi da ciascuno di essi rappresentati, invalida la delibera stessa, impedendo il controllo sulla sussistenza di una delle maggioranze richieste dall'art. 1136 cod. civ., né potendo essere attribuita efficacia sanante alla mancata contestazione, in sede di assemblea, della inesistenza di tale quorum da parte del condomino dissenziente, a carico del quale non è stabilito, al riguardo, alcun onere a pena di decadenza (Sez. II, 22 gennaio 2000, n. 697); (c) che è annullabile la delibera il cui verbale contenga omissioni relative alla individuazione dei singoli condomini assenzienti o dissenzienti o al valore delle rispettive quote (Sez. Un., 7 marzo 2005, n. 4806).

Ma poiché il verbale è narrazione dei fatti nei quali si concreta la storicità di un'azione, esso deve attestare o “fotografare” quanto avviene in assemblea; pertanto, non incide sulla validità del verbale la mancata indicazione, in esso, del totale dei partecipanti al condominio, se a tale ricognizione e rilevazione non ha proceduto l'assemblea stessa, nel corso dei suoi lavori, giacché questa incompletezza non diminuisce la possibilità di controllo aliunde della regolarità del procedimento e delle deliberazioni assunte.

3. - Il terzo motivo è rubricato “violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione agli artt. 10 e 11 del regolamento condominiale”, nonché “omessa o insufficiente motivazione su più punti decisivi della controversia”.

Ad avviso del ricorrente, dal fatto che da parte dei condomini presenti all'assemblea non siano stati sollevati reclami in ordine alla convocazione di tutti i condomini non può inferirsi, alla stregua dei canoni della normalità causale e della ragionevole probabilità, che tutti i condomini fossero stati regolarmente convocati. La sentenza impugnata non avrebbe considerato che, nell'atto di appello, era stato lamentato non solo che non erano state poste a disposizione dell'attore le convocazioni dei condomini, ma anche che il presidente aveva omesso di dare atto a verbale della regolarità della convocazione dell'assemblea, in violazione, oltre che dell'art. 1136 cod. civ., dell'art. 10 del regolamento condominiale. Nel verbale il presidente ha dichiarato validamente costituita l'assemblea: ma un conto sarebbe la dichiarazione di validità dell'assemblea, altro la regolarità della sua convocazione, il cui accertamento manca del tutto.

3.1. - Il motivo è fondato, nei termini di seguito precisati.

L'onere di provare che tutti i condomini sono stati tempestivamente convocati incombe al condominio, non potendosi addossare al condomino che deduca l'invalidità dell'assemblea la prova negativa dell'inosservanza di tale obbligo (Cass., Sez. II, 25 marzo 1999, n. 2837). E sebbene tale prova possa essere desunta anche da presunzioni, non si può attribuire al comportamento dei condomini partecipanti ad un'assemblea non totalitaria, i quali nulla abbiano eccepito al riguardo, valore di prova presuntiva univoca della ricezione dell'avviso di convocazione anche da parte di quei condomini che a tale seduta non abbiano preso parte.

4. - Con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ.) il ricorrente sostiene che l'assemblea del 12 agosto 1995, sebbene tenutasi in seconda convocazione, doveva considerarsi tenuta in prima convocazione, con la necessità del quorum deliberativo di cui al secondo comma dell'art. 1136, dato che l'assemblea di prima convocazione era andata completamente deserta. Il caso di completa diserzione dell'assemblea - si afferma - non può essere equiparato a quello di assemblea che non si è potuta tenere per insufficiente partecipazione dei condomini. Quando, invece, non si verifichi il fenomeno fattuale della riunione di due o più condomini nel giorno, luogo ed ora della convocazione, l'assemblea tenuta alla data successiva indicata nell'avviso come di seconda convocazione è, in realtà, di prima convocazione e soggiace alle condizioni di validità di costituzione e di deliberazione previste nell'art. 1136, primo comma, cod. civ..

4.1. - La doglianza è priva di fondamento.

In tema di assemblea condominiale, la sua seconda convocazione è condizionata dall'inutile e negativo esperimento della prima, sia per completa assenza dei condomini, sia per insufficiente partecipazione degli stessi in relazione al numero ed al valore delle quote. La verifica di tale condizione va espletata nella seconda convocazione, sulla base delle informazioni orali rese dall'amministratore, il cui controllo può essere svolto dagli stessi condomini, che o sono stati assenti alla prima convocazione, o, essendo stati presenti, sono in grado di contestare tali informazioni (Cass., Sez. II, 24 aprile 1996, n. 3862).

5. - Il quinto mezzo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione all'art. 67 disp. att.) lamenta che la Corte d'appello abbia respinto la censura di invalidità delle deliberazioni, nonostante il presidente dell'assemblea abbia - in mancanza di ogni e qualsiasi norma attributiva del relativo potere - limitato la durata degli interventi dei condomini a dieci minuti. Il punto non è quello di stabilire se la limitazione degli interventi a 10 minuti sia tale da comprimere, in concreto, il diritto di ciascun condomino ad intervenire in assemblea, ma se il potere di introdurre limiti temporali agli interventi dei condomini sia nella disponibilità del presidente ovvero se esso debba trovare la propria fonte in una disposizione regolamentare (che nel caso manca) ovvero in una deliberazione della stessa assemblea.

5.1. - Il motivo non è fondato.

Il presidente dell'assemblea condominiale - tenuto conto del fatto che la sua funzione consiste nel garantire l'ordinato svolgimento della riunione - ha il potere di dirigere la discussione, assicurando, da un lato, la possibilità a tutti i partecipanti di esprimere, nel corso del dibattito, la loro opinione su argomenti indicati nell'avviso di convocazione e curando, dall'altro, che gli interventi siano contenuti entro limiti ragionevoli. Ne consegue che il presidente, pur in mancanza di una espressa disposizione del regolamento condominiale che lo abiliti in tal senso, può stabilire la durata di ciascun intervento, purché la relativa misura sia tale da assicurare ad ogni condomino la possibilità di esprimere le proprie ragioni su tutti i punti in discussione.

6. - L'ultimo motivo prospetta “nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ.”. La motivazione contenuta nella sentenza impugnata per rispondere al VI, al X, al XIII, al XIV, al XV, al XVI e al XVIII motivo di appello, sarebbe una tipica motivazione per relationem. La Corte territoriale si sarebbe limitata a dichiarare la propria condivisione alle soluzioni delle questioni controverse fornite dalla sentenza di primo grado “nonostante le argomentazioni dell'appellante” che, però, non sono minimamente esaminate. Risulterebbero pertanto non individuabili né le ragioni per cui sono state condivise le decisioni del primo giudice né le ragioni per cui sono stati disattesi i motivi di impugnazione.

6.1. - La doglianza è meritevole di accoglimento.

Quanto ai motivi di appello sub VI, X, XIII, XIV, XV, XVI e XVIII, la Corte territoriale li ha respinti sulla base della seguente argomentazione: è condivisa, “nonostante le argomentazioni dell'appellante”, “la decisione adottata dal primo giudice sui rilievi mossi, con l'atto introduttivo del giudizio, in ordine alla delega rilasciata dal condomino Dante Castagnetta, alla valida partecipazione all'assemblea del 12 agosto 1995 della moglie di Lucio K., alla pretesa violazione dell'art. 10 del regolamento condominiale, alla validità del voto (unico) espresso dai coniugi C. - M., alla determinazione dei millesimi della condomina S., alla sufficiente individuazione del condomino attraverso la trascrizione nel verbale di assemblea del solo cognome, non essendovi casi di omonimia, alla declaratoria di inammissibilità dei rilievi inerenti scelte di merito dell'assemblea condominiale, non sindacabili - come tali - dall'autorità giudiziaria”.

La laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consente in alcun modo di ritenere che all'affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice d'appello sia pervenuto attraverso l'esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., Sez. III, 2 febbraio 2006, n. 2268; Cass., Sez. III, 11 giugno 2008, n. 15483).

7. - La sentenza è cassata in relazione alle censure accolte.

La causa deve essere rinviata ad una diversa Corte dr appello, che si designa nella Corte d'appello di Roma.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.


P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo ed il sesto motivo di ricorso, rigettati il primo, il secondo, il quarto ed il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Roma.

Se l'airbag non funziona la vittima in caso di sinistro soprattutto mortale deve essere risarcita dal costruttore.

Condivido pienamente quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 2010/09 la quale ha affermato che in caso di incidente, se l'airbag non funziona, chi lo ha prodotto deve risarcire il danno alla vittima o ai parenti della vittima.
Molti potrebbero pensare ad un caso raro ma cosi non è perchè proprio alcuni giorni fa un avvocato del posto è stato vittima di un brutto tamponamento e guarda anche in questa occasione gli airbag non si sono aperti. Ma non solo a detta dello stesso avvocato nella circostanza anche la cintura di sicurezza non ne voleva sapere di sganciarsi dalla sua sede con tutti i rischi possibili e immaginabili qualora l'autovettura avesse preso fuoco.
Ebbene ora finalmente la Corte di Cassazione ha stabilito che se il dispositivo di sicurezza è difettoso i danneggiati potranno ottenere il risarcimento semplicemente dimostrando "il collegamento causale tra le lesioni subite e l'omesso funzionamento dell'airbag".
La decisione è della III sezione civile che ha confermato la condanna nei confronti di Opel la nota casa automobilistica al risarcimento dei danni in favore dei prossimi congiunti di un uomo deceduto in un incidente stradale.
La morte era stata causata appunto dalla mancata apertura dell'airbag sull'autovettura in cui viaggiava. In precedenza i giudici di merito avevano riconosciuto il diritto al risaricmento ai familiari della vittima per la mancata apertura del dispositivo di sicurezza.
Ricorrendo in Cassazione la casa automobilistica ha contestato un presunto ''vizio di motivazione'' delle decisioni dei precedenti gradi di giudizio. Nel respingere il ricorso Piazza Cavour ha evidenziato che il giudice di merito ''ha spiegato con motivazione congrua e logica priva di vizi giuridici'' che giustamente la casa automobilistica era colpevole in quanto ''l'onere del danneggiato si esaurisce nella dimostrazione di aver subito un danno causalmente connesso con l'uso del prodotto''. In conclusione, hanno evidenziato i supremi giudici, è stato provato ''il collegamento causale tra le lesioni subite dalla vittima e l'omesso funzionamento dell'airbag''.
La Opel, oltre a risarcire i familiari dell'automobilista morto nell'incidente, è stata anche condannata a pagare ai familiari della vittima 5.200 euro di spese processuali.
A quando ora una sentenza che riguarda anche il non corretto funzionamento delle cinture di sicurezza? Ovvero una sentenza che riconosca la facoltà del loro uso?

venerdì 1 gennaio 2010

Sulle insidie stradali

In materia di insidie stradali la Corte di Cassazione ha ribadito che in linea generale non si può escludere l'applicabilità dell'art. 2051 c.c. nei confronti dell'ente proprietario della strada, se tali beni hanno una notevole estensione tale da non consentire una idonea vigilanza per evitare situazioni di pericolo.
La Corte con la sentenza n. 24529/09, richiamando un orientamento precedentemente espresso (Cass., n. 20427/08) ricorda di aver superato il precedente indirizzo, secondo cui l'art. 2051 c.c., sarebbe "applicabile nei confronti della P.A., per le categorie di beni demaniali quali le strade pubbliche, solamente quando, per le ridotte dimensioni, ne è possibile un efficace controllo ed una costante vigilanza da parte della P.A., tale da impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti".
Il nuovo orientamento è ora nel senso di dover affermare il diverso principio per cui "la responsabilità da cosa in custodia presuppone che il soggetto al quale la si imputa sia in grado di esplicare riguardo alla cosa stessa un potere di sorveglianza, di modificarne lo stato e di escludere che altri vi apporti modifiche". Nella motivazione la Corte chiarisce:
a) che per le strade aperte al traffico l'ente proprietario si trova in questa situazione una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato a causa di una anomalia della strada stessa (e l'onere probatorio di tale dimostrazione grava, palesemente, sul danneggiato);
b) che è comunque configurabile la responsabilità dell'ente pubblico custode, salvo che quest'ultimo non dimostri di non avere potuto far nulla per evitare il danno;
c) che l'ente proprietario non può far nulla quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada ma in maniera improvvisa, atteso che solo quest'ultima (al pari della eventuale colpa esclusiva dello stesso danneggiato in ordine al verificarsi del fatto) integra il caso fortuito previsto dall'art. 2051 c.c., quale scriminante della responsabilità del custode".
In sostanza, conclude la Corte, "agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito è in linea generale è applicabile l'art. 2051 c.c., in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione" Ribaltando la precedente decisione dei giudici di Merito la Corte spiega che l'errore della sentenza impugnata è stao quello appunto di aver escluso "l'applicabilità dell'art. 2051 c.c., in ragione della estensione del bene demaniale".
Per quanto riguarda poi "l'indagine sulla diligenza dell'ente proprietario e sull'adeguatezza del suo intervento" si tratta di profili che rilevano nell'ambito dell'accertamento della responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non in relazione all'art. 2051. "La P.A. per escludere la responsabilità che su di essa fa capo a norma dell'art. 2051 c.c., deve infatti provare che il danno si e verificato per caso fortuito, non ravvisabile come conseguenza della mancata prova da parte del danneggiato dell'esistenza dell'insidia". Chi è stato vittima dell'incidente, infatti, "non deve provare quest'ultima, così come non ha l'onere di provare la condotta commissiva od omissiva del custode, essendo sufficiente che provi l'evento danno ed il nesso di causalità con la cosa".

giovedì 31 dicembre 2009

Basta con le sentenze scritte a mano.

Sono pienamente d'accordo con la bacchettata che i Giudici della Corte di Cassazione hanno rivolto ad alcuni dei loro colleghi che ancora oggi scrivono le sentenze a mano e che risultano ostilli all'utilizzo delle nuove tecnologie.
La decisione la condivido in quanto alcune volte le sentenze scritte a mano risultano incomprensibili. Decisione che io estenderei anche ai verbali di udienza.
La Corte di Cassazione ha chiarito che non è vietato scrivere a mano una sentenza ma tuttavia la scelta di redigere le sentenze dimostra "attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale" e mette "in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportata condanna, pretende di conoscere agilmente le ragioni''.
Gli ermellini considerano insomma "obsoleto" il giudice che continua a scrivere di suo pugno.
L'invito della Corte a "modernizzarsi" è nato in relazione all'esame di una sentenza relativa a due persone condannate per concorso in tentata rapina impropria. Ricorrendo in Cassazione i due imputati hanno cercato di annullare la sentenza che i Giudici della Corte di Appello avevano scritto a mano e con una grafia poco leggibile.
Esaminando il caso la Suprema Corte ha rilevato che "la lettura del testo non era impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione al di là di ogni ragionevole dubbio".
Ma dopo questa considerazione hanno dato una tirata di orecchie ai colleghi della Corte territoriale che continuano a scrivere le sentenze con la penna. Si tratta di una modalità obsoleta - rimarca la Cassazione - segno, appunto, "di attenzione ridotta'' anche nei confronti degli imputati.

sabato 26 dicembre 2009

Avvertimento a tutti gli amanti.

L'avvertimento arriva dalla Corte di Cassazione secondo la quale una relazione clandestina deve restare tale perchè se si minaccia di rivelarla si rischia una condanna per il reato di estorsione.
D'accordissimo con questa decisione.
Una simile minaccia, infatti, spiegano gli Ermellini, determina quella condizione di assoggettamento della volontà che costituisce il presupposto di tale reato.
E a nulla rileva che "il fatto minacciato possa assumere, in sè, risalto soltanto sul piano dei costumi e delle regole sociali".
La vicenda presa in esame dal Palazzaccio riguarda il caso di un uomo di 33 anni che aveva minacciato di rivelare alla madre della sua amante la loro relazione. Dopo la minaccia il caso finiva nelle aule di giustizia e ne scaturiva una doppia codanna in primo e in secondo grado per tentata violenza privata e per estorsione a due anni, 4 mesi e 20 giorni di reclusione con l'aggiunta di una multa di 320 euro.
In Cassazione l'uomo si è difeso sostenendo che il fatto di minacciare di togliere dalla clandestinità una relazione segreta poteva solo incidere sul "piano morale" ma non certo avere rilevanza sotto il profilo penale. Il ricorso è stato respinto dalla suprema Corte che nella parte motiva della sentenza sottolinea come "in tema di estorsione, la minaccia diviene 'contra ius' quando, pur non essendo antigiuridico il male prospettato, si faccia uso di mezzi giuridici legittimi per ottenere scopi non consentiti o risultati non dovuti, come quando la minaccia sia fatta con il proposito di coartare la volontà di altri per soddisfare scopi non consentiti o risultati non dovuti, per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia".

Ammessa l'opposizione al verbale che costa all'automobilista ben 6 punti.

E’ ammissibile l’opposizione avverso la sanzione "accessoria" della decurtazione dei punti da parte dell’automobilista multato per aver attraversato col semaforo rosso. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza 21 ottobre 2009, n. 22235.
La questione ha riguardato un automobilista, multato per essere passato col rosso, senza contestazione immediata dell’infrazione, al quale è stata comminata la sanzione amministrativa del pagamento di una determinata somma e la sanzione accessoria della decurtazione di sei punti sulla patente. L’interessato ha proposto ricorso per vedersi riconoscere l’annullamento del verbale, ma la sua richiesta è stata rigettata con la conseguenza di essere soggetto per l’infrazione accertata al pagamento della sanzione amministrativa e alla decurtazione dei punti sulla patente.
Proprio quest’ultimo aspetto, tra gli altri, è stato portato all’attenzione della Suprema Corte che ha assegnato la decisione alle Sezioni Unite.
Gli ermellini, al riguardo, hanno innanzitutto richiamato la loro precedente giurisprudenza (Cass., SS.UU., sentenza 29 luglio 2008, n. 20544) secondo cui la decurtazione dei punti, che ha natura di sanzione accessoria, non può essere sottratta al mezzo di opposizione in sede giurisdizionale, poiché ciò risulterebbe privo di ogni ragionevole giustificazione e non compatibile con i principi stabiliti dagli artt. 3 e 24 Costituzione.
Inoltre, addentrandosi nella fattispecie in argomento, le Sezioni Unite hanno ricordato che la Corte Costituzionale (Corte Cost., sentenza 21 gennaio 2005, n. 27) era già intervenuta in merito cancellando la decurtazione dei punti per il proprietario non individuato come responsabile dell’infrazione o per omessa comunicazione da parte di quest’ultimo dell’identità del conducente.
Sulla base di quest’ultima decisione, in attuazione al divieto di applicazione delle norme dichiarate illegittime previsto dall’art. 136 Cost, le Sezioni Unite hanno accolto il ricorso dell’automobilista, cassando la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.

Per la sentenza cliccate qui.

Interessante decisione in materia di intersezioni della Corte di cassazione.

Intervenendo in materia di circolazione stradale, la II sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 25769/09 ha stabilito che la valutazione relativa alla velocità di un mezzo, per stabilire se sia da considerarsi eccessiva, deve essere condotta con riferimento alle condizioni dei luoghi, del traffico e della strada.
Un principio questo quasi sempre trascurato dalle Polizie locali anche in caso di sinistri nei centri urbani ed in particolare in prossimità delle intersezioni (mancato rispetto della precedenza) dove viene sottovalutata la velocità dei conducenti favoriti.
Secondo la Corte non assume valore decisivo l'eventuale osservanza dei limiti imposti in via generale dal codice della strada. La decisione della Corte va riferita all'art. 141 del codice della strada che tra le altre cose dispone che "È obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che, avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione".
Il caso era stato affrontato dal Giudice di Pace in relazione ad una contravvenzione elevata a un automobilista che aveva attraversato un incrocio mentre il semaforo segnalava la luce gialla.
Il giudice di pace aveva ritenuto che il tempo di quattro secondi di accensione della luce gialla fosse sufficiente per consentire all'automobilista di fermarsi al semaforo.
Nella valutazione il giudice aveva preso in considerazione la velocità da tenere in relazione allo stato dei luoghi.

Sentenza sul grattino scaduto

Non condivido la sentenza della Cassazione II sezione civile del 5.11.09 n. 23543 per il semplice fatto che ritengo illegittima la richiesta di pagamento anticipata senza poter poi essere risarcito per il tempo di sosta non goduto.
FATTO E DIRITTO
Il Prefetto di Lecce impugna la sentenza n. 2262 del 2005 del Giudice di Pace di Lecce, depositata il 10 ottobre 2005, che aveva accolto l'opposizione proposta dall'odierna intimata, snc avverso ordinanza ingiunzione 3564/02 del Prefetto di Lecce che la ingiungeva il pagamento di Euro 38,00, a titolo di sanzione amministrativa per la violazione dell'art. 7 C.d.S., avendo lasciato in sosta il proprio veicolo in area di sosta regolamentata a pagamento oltre i limiti di orario segnalato sullo scontrino.

Il Giudice di Pace accoglieva il ricorso, affermando che si era realizzato "un rapporto di natura privata che prevede da una parte le offerte di un servizio agli automobilisti e dall'altra il pagamento del servizio stesso", concludendo che si trattava di un inadempimento contrattuale di natura privata. Ricorre l'amministrazione che formula due motivi di ricorso.

Nessuna attività in questa sede ha svolto l'intimata.

Col primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione le la falsa applicazione dell'art. 7 C.d.S., comma 5, poichè tale norma prevede che il sindaco possa determinare l'area destinata a parcheggio su cui autorizzare la sosta, subordinando al pagamento della somma determinata, da riscuotere mediante dispositivi di controllo di durata della sosta stessa e il successivo quindicesimo comma de lo stesso art. 7 stabiliva poi la sanzione pecuniaria nel caso di violazione delle disposizioni sulla sosta regolamentata.

Col secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 3, posto che nessun rilievo poteva avere la circostanza, dedotta dal Giudice di Pace, secondo la quale "nessuno dei cartelli stradali predisposti dal Comune di Lecce recavano indicato l'avviso che in caso di scadenza del titolo si procederà a sanzionare il comportamento con l'applicazione dell'art. 7 C.d.S.".

Nel caso in questione, infatti, anche in relazione alla norma citata, non risultava scusabile l'ignoranza della norma giuridica. Attivatasi procedura ex art. 375 c.p.c., il Procuratore Generale invia requisitoria scritta nella quale, concordando con il parere espresso nella nota di trasmissione, conclude con richiesta di accoglimento del ricorso per la sua manifesta fondatezza.

Tale richiesta va accolta. Il ricorso è fondato e va accolto.

Quale che sia la natura (se di corrispettivo, tassa ect.) del pagamento imposto per la sosta a "tempo", è certo che l'omesso pagamento di quanto dovuto in ragione della protrazione della stessa oltre il periodo indicato nel titolo esposto, configuri l'inosservanza di una prescrizione o limitazione attenente alla relativa "durata" (espressamente contemplata dall'art. 7 C.d.S., comma 1, lett. f) con conseguente sanzionabilità della relativa inosservanza ai sensi dello stesso art. 7, comma 14, indipendentemente dalla sussistenza di possibilità d' intralcio o di pericolo alla circolazione. D'altra parte le modalità, legittimamente prescritte, di regolamentazione della sosta "onerosa" in relazione al tempo, comportano "in re ipsa" l'onere per l'utente di prevederne la durata e regolare il pagamento anticipato in relazione alla relativa previsione con conseguente abusività, non necessitante di alcun espressa e pubblicizzata comminatoria (derivando la liceità della relativa condotta dall'osservanza delle regole menzionate) di "penali" e simili, non essendo prevista siffatta pubblicità da alcuna specifica disposizione codicistica o regolamentare.

A tal riguardo, questa Corte ha già avuto occasione di affermare che: "in tema di violazioni al codice della strada , l'irrogazione, da parte del Comune, di una sanzione amministrativa in caso di parcheggio dell'autovettura senza esposizione del tagliando comprovante il prescritto pagamento non è preclusa dal fatto che il parcheggio sia gestito in concessione da un privato e che per il mancato pagamento del posteggio sia prevista dal concessionario una specifica penale, la quale attiene esclusivamente al rapporto privatistico fra utente e concessionario e non costituisce una alternativa al potere sanzionatorio dell'ente pubblico" (Cass. 2006 n. 14736).

Il ricorso va accolto e il provvedimento impugnato cassato.

Sussistendone i presupposti, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., questa Corte può pronunciare sul merito, rigettando l'opposizione originariamente proposta.

Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa senza rinvio il provvedimento impugnato e, decidendo nel merito, rigetta l'opposizione originariamente proposta dalla parte intimata.

Condanna la parte intimata alle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 400,00, per onorari oltre spese prenotate a debito e accessori come per legge.

Limitata la rateizzazione delle multe.

D'ora in avanti sarà più difficile ottenere la rateizzazione per il pagamento delle multe.
A stabilirlo è la sentenza 26932/09 della Corte di Cassazione (II sezione) che ha precisato che il beneficio può essere accordato solo a chi è povero e comunque le rate non possono essere più di trenta.
La stessa Corte ha ricordato come il ricorso alle rateizzazioni deve essere limitato a chi si trova in "condizioni realmente disagiate". Nella parte motiva gli Ermellni ricordano peraltro che a decidere sulle rate è il Comune che ha inflitto la sanzione per violazione del codice della strada e queste non devono mai essere inferiori a 15 euro al mese per un totale massimo di trenta rate.
La Corte ha così accolto il ricorso contro una decisione del Giudice di Pace che aveva concesso ad un automobilista, in debito per diverse contravvenzioni, la possibilità di rateizzarle, pagando 10 euro al mese. Piazza Cavour ha ricordato che non è certo il Giudice a poter stabilire le rate mettendo in chiaro peraltro che "il potere di suddivisione in rate è legato all'esistenza di condizioni economiche disagiate dell'obbligato e non può essere stabilito secondo equità". L'automobilista aveva ricevuto diverse contravvenzioni per aver circolato in corsie riservate ad altri veicoli ed aveva collezionato multe per un totale di ben 2.777,00 euro.
Il giudice di Pace aveva così deciso di autorizzare la rateizzazione in 278 rate da 10 euro al mese. Il Comune naturalmente si è rivolto alla Suprema Corte che accogliendo il ricorso ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la rateizzazione del pagamento ed ha ricordato che "la rateizzazione" è appannaggio esclusivo del Comune e che "non puo' essere inferiore a 15 euro" così come non può superare le trenta rate.
Ora l'automobilista dovrà pagare oltre alle multe anche ulteriori 400 euro per rifondere il Comune delle spese processuali.
Bhè come dice il proverbio chi troppo vuole nulla stringe.

sabato 19 dicembre 2009

Ora mi sembra esagerato ritenere reato la linguaccia.

D'ora in avanti bisognerà fare molta attenzione anche alle smorfie del viso perchè anche fare le linguacce può costituire un ingiuria ed integrare così la fattispecie di reato prevista e punita dall'art. 594 del codice penale.
A me francamente pare una esagerazione questa. Anche il solo fatto di arrivare ad un processo per una liguaccia.
In ogni modo a stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 48306/09 che ha confermato una condanna inflitta ad un 41enne che aveva fatto le linguacce ad un vicino di casa.
Secondo gli ermellini quella smorfia è da considerarsi "idonea ad incidere sul decoro e sull'onore della vittima". E non c'è solo la condanna penale perchè la persona offesa ha diritto anche al risarcimento del danno. Già in primo grado il Giudice di pace aveva emesso sentenza di condanna per quello sberleffo che la persona offesa era riuscita persino a fotografare. Il caso è finito poi davanti alla Cassazione dove l'imputato ha tentato di sostenere che il suo gesto non poteva avere "una oggettiva valenza dispregiativa idonea ad incidere sull'onore della vittima".
Niente da fare però: La V sezione penale ha respinto il ricorso. Sarà ora il giudice civile a dover dererminare la misura del risarcimento del danno.

Finalmente un giro di vite contro l'affissione selvaggia sui muri delle città.

Finalmente una sentenza su un aspetto che ho sempre odiato.
Arrivata infatti la linea dura della Cassazione contro chi affigge volantini sui muri della città. In special modo se l'affissione avviene nei centri storici.
Il giro di vite arriva dalla II sezione penale della Corte di cassazione che promette multe salate per il reato di imbrattamento. E le condanne - chiarisce la Corte - prescinderanno dalla precedente condizione estetica del muro.
Gli Ermellini (sent. n. 47184/09) hanno convalidato una multa di 300 euro ciascuno inflitta a tre ragazzi che avevano affisso volantini pubblicitari relativi a eventi musicali e cinematografici.
Il reato contestato è quello previsto e punito dall'art. 639 del codice penale. Contro la decisione presa inizialmente dal Giudice di Pace, i tre ragazzi si erano rivolti alla suprema Corte deducendo che si sarebbe dovuto tenere conto dello "stato antecedente dei luoghi".
Deducevano inoltre che non vi sarebbe stata la prova che gli edifici su cui avevano apposto i volantini fossero ricompresi nel centro storico della città. La Corte, respingendo i ricorsi, ha osservato che "la condotta di 'imbrattamento' quale quella di affissione di volantini sul muro previa spennellatura di colla sullo stesso, prescinde dalla preesistente condizione estetica del muro stesso, perche' l'atto di imbrattare lede comunque l'interesse giuridicamente protetto".
Per questo "ai fini della verifica della sussistenza dell'elemento oggettivo del reato punito dall'art. 639 c.p. non e' necessario accertare la previa condizione dell'oggetto danneggiato".

sabato 5 dicembre 2009

Non sempre in caso di sinistro è colpa di chi guida l'auto.

La Corte di cassazione con la sentenza che segue e che condivido sembra aver posto fine ad un principio che deve essere sempre l'automobilista ad usare maggiore prudenza.
Infatti, la Corte di cassazione, IV sezione, con la sentenza n. 46741/09 convalidando l'assoluzione di un automobilista che in primo grado era stato condannato per lesioni personali avendo investito una donna che, alla guida di un motorino, lo aveva superato a destra tagliandogli la strada, ha fatto presente che sulla strada ci sono ''troppe condotte imprudenti'' e che per questo non si può pretendere da un automobilista di prevedere anche la condotta indisciplinata altrui.
Nella sentenza si spiega che chi è al volante deve potersi affidare agli altri un pò come un medico che lavora in equipe, diversamente, non solo si arriverebbe a soluzioni irrealistiche ma si ''condurrebbe a risultati non conformi al principio di personalità della responsabilità, prescrivendo obblighi talvolta inesigibili e votando l'utente della strada al destino del colpevole per definizione o, se si vuole, del capro espiatorio''.
Il Tribunale di Ancona aveva ritenuto invece che l'automobilista avrebbe dovuto prevedere anche una manovra irregolare della conducente del ciclomotore.
Ora la Corte ha assolto l'automobilista sottolineato come ''non può esercitare un'influenza contraria il fatto che gli altrui comportamenti imprudenti siano tanto gravi quanto diffusi''.
Un ragionamento del genere, secondo Piazza Cavour ''condurrebbe ad un effetto paradossale: quello di svuotare la forza cogente della disciplina positiva e di generare un patologico affidamento inverso da parte dell'agente indisciplinato sull'altrui attenzione anche nel prevedere le proprie audaci intemperanze comportamentali''.

giovedì 26 novembre 2009

Non commette reato chi circola con il mezzo sottoposto a fermo amministrativo.

Proprio pochi giorni fa avevo suggerito ad un mio amico di utilizzare l'unico mezzo sottoposto (per mero errore e ritardo nella notificazione di una sentenza favorevole) al fermo amministrativo da ben 4 mesi !
Ebbene la VI Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 44498/09 che condivido pienamente ha stabilito che non commette reato chi circola con il mezzo sottoposto a fermo amministrativo.
Gli Ermellini hanno infatti evidenziato che “ritiene la Corte, in adesione ad un dominante orientamento di questa sezione, di ritenere l’insussistenza della violazione dell’art. 334 c.p., allorquando la materialità della condotta di sottrazione abbia ad oggetto beni sottoposti a provvedimento di fermo amministrativo, ai sensi dell’art. 214 D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285. Conclusione negativa che si impone, considerata l’impossibile riconducibilità del ‘fermo amministrativo’, avuto riguardo ai due distinti profili che attengono al principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali ed al divieto del ricorso della analogia in malam partem”.