lunedì 15 marzo 2010

Sentenza assurda: se sono clandestini anche i bambini come hanno fatto ad iscriverli a scuola?

Trovo assurda la decisione della Corte di Cassazione (sent. n. 5856/10 - I sez. civile)con la quale ha stabilito che i clandestini possono essere allontanati dal territorio italiano anche se hanno dei figli che vanno a scuola.
Qualcosa non mi torna in questa vicenda. Almeno che gli istituti scolastici non accettano a scuola anche i bambini clandestini.
Comunque secondo gli Ermellini la scolarizzazione rientrerebbe in una situazione "ordinaria" che non legittima la permanenza degli irregolari. Una decisione che si pone in contrasto con quanto la stessa Corte aveva in precedenza affermato consentendo invece la permanenza nel territorio italiano dei clandestini con figli in età scolare.
Ma che giustizia è questa cosi ballerina?
Nella precedente decisione la Corte aveva fatto riferimento al bisogno di garantire una "crescita armonica" ai minori. Ora con un evidente dietrofront la Corte afferma che la scuola non può essere un motivo "straordinario" per usare tolleranza nei confronti degli irregolari.
La decisione nella parte motiva afferma che diversamente si "finirebbe col legittimare l'inserimento di famiglie di stranieri strumentalizzando l'infanzia". Piazza Cavour ha così respinto il ricorso di un extracomunitario padre di due figli in età scolare. L'uomo oltretutto aveva una moglie a Milano titolare di permesso di soggiorno e in attesa della cittadinanza italiana.
Il padre dei due bambini aveva anche evidenziato che un suo allontanamento avrebbe comportato per i piccoli "un vero e proprio depauperamento sentimentale" che avrebbe inciso negativamente sul loro futuro. Commentando la decisione, Navi Pillay, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha espresso viva preoccupazione. E ti credo.
"Come giudice - afferma - non posso esprimermi su una sentenza senza averla prima letta. Tuttavia se è cosi' è una decisione preoccupante. [...]
Devo comunque confrontare tale sentenza con la giurisprudenza già esistente sulla difesa e la tutela dei diritti dei bambini".
Resta comunque il fatto che la giurisprudenza italiana sta diventando troppo ma troppo ballerina.....

domenica 14 marzo 2010

Cassazione: lavoratore in malattia va a trovare mamma malata. L'assenza è giustificata

ll lavoratore in malattia che non viene trovato in casa al momento della visita fiscale, può essere giustificato dal fatto di essersi recato a trovare la mamma malata.
Esistono infatti esigenze di solidarietà e vicinanza familiare che legittimano la non reperibilità fiscale. Parola di Cassazione.
La Corte spiega che tali esigenze di "solidarietà e di vicinanza familiare" sono senz'altro meritevoli di tutela "nell'ambito dei rapporti etico sociali garantiti dalla Costituzione". Piazza Cavour (sent. 5718/10) ha così respinto un ricorso dell'INPS che non voleva invece riconoscere l'indennità di malattia per il fatto che il lavoratore, essendo in malattia, avrebbe dovuto farsi trovare in casa.
Sta di fatto che il lavoratore si era dovuto recare a fare visita alla madre ricoverata in un centro specialistico di riabilitazione a seguito di un intervento cardiochirurgico. Era però rimasto intrappolato nel traffico e non era rientrato in tempo per la visita fiscale.

sabato 6 marzo 2010

Bella gatta ... da pelare... per tanti ...

In materia di danni da vacanza rovinata la Corte di Cassazione ha ora riconosciuto nuove possibilità per i turisti di essere risarciti. Anche spiaggia e mare puliti sono una legittima aspettativa di chi va in vacanza. Con la sentenza n. 5189/10 la Terza Sezione Civile della Corte ha infatti respinto il ricorso di un tour operator che i giudici di merito avevano condannato a risarcire il danno ad una coppia di Pordenone che aveva trascorso una vacanza in Grecia. La coppia aveva acquistato un pacchetto vacanza che prevedeva l'alloggio in un club di Creta. Il depliant era senza dubbio invitante anche perchè riproduceva una spiaggia molto bella e un mare cristallino. All'arrivo la coppia aveva però constatato che non solo la spiaggia era sporca ma che il mare era inquinato da idrocarburi. In primo grado il Tribunale dava torto alla coppia sostenendo che la pulizia della spiaggia e la purezza del mare "non dipendevano dalla responsabilita' dell'albergo". Diverso il verdetto della Corte d'appello che condannava il tour operator a risarcire un danno di oltre mille euro per la settimana di vacanza rovinata. Ora anche la Cassazione ha confermato la condanna spiegando che "l'organizzatore o il venditore" di un pacchetto turistico "assumono specifici obblighi soprattutto di tipo qualitativo, riguardo a modalita' di viaggio, sistemazione alberghiera, livello dei servizi che vanno esattamente adempiuti" sulla base di quanto il turista vede sui "depliant illustrativi".

giovedì 25 febbraio 2010

Sui punti della patente

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

(Sezione Seconda)




ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 21 e 26 della legge 1034/71 e successive modifiche e integrazioni,
Sul ricorso numero di registro generale 1314 del 2009, proposto da:
**, rappresentata e difesa dall'avv. Massimo Ceccanti, con domicilio eletto presso il suo studio in Torino, via Principe Tommaso, 2;

contro

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Torino presso la quale domicilia in corso Stati Uniti n. 45;
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, Direzione Generale della Motorizzazione e della Sicurezza del Trasporto Terrestre, Ufficio Provinciale di Torino, in persona del legale rappresentante pro tempore;

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

del seguente atto:

- provvedimento del Direttore dell'Ufficio Provinciale di Torino, prot. N. 2036/R/A, del 16/07/2009, comunicato con raccomandata con avviso di ricevimento, in data 05/08/2009 (data ritiro plico), con il quale veniva disposta la revisione della patente di guida della ricorrente, mediante nuovo esame di idoneità tecnica, ai sensi dell'art. 126 bis, del D.Lgs. 285/92;

- di tutti gli atti precedenti e consequenziali, presupposti o, comunque, connessi, con particolare riferimento, in quanto occorra, per la pendenza di ricorsi amministrativi alle infrazioni (per cui è stata effettuata la variazione dei punti patente), nonchè alla mancata comunicazione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con cui si sarebbe notificata la decurtazione di altri punti della patente di guida, per ulteriori sanzioni.



Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 12/01/2010 il dott. Antonino Masaracchia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Avvisate le stesse parti ai sensi dell'art. 21 decimo comma della legge n. 1034/71, introdotto dalla legge n. 205/2000;



Ritenuto che, con rituale ricorso a questo TAR, la signora ** ha impugnato il provvedimento n. 2036/RA del 16 luglio 2009 con il quale il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – Direzione Generale per la Motorizzazione – Ufficio Provinciale di Torino ha disposto la revisione della sua patente di guida, chiedendone l’annullamento previa sospensione cautelare;

che l’impugnato provvedimento prende le mosse dalla “comunicazione dell’Anagrafe nazionale degli abilitati alla guida in data 22/05/2009, dalla quale risulta che è esaurito il punteggio di 20 punti attribuito” alla ricorrente, ed ha quindi disposto la misura della revisione in applicazione dell’art. 126-bis, comma 6, del d.lgs. n. 285 del 1992;

che, nell’atto introduttivo, la ricorrente riferisce di aver subito un primo verbale di contestazione in data 26 giugno 2008, per la quale è seguita rituale comunicazione da parte del Ministero, in data 22 gennaio 2009, concernente l’avvenuta decurtazione di n. 5 punti dalla patente di guida;

che, con tale comunicazione, la ricorrente veniva edotta unicamente della decurtazione dei suddetti 5 punti, con variazione del proprio punteggio complessivo da punti 24 a punti 19;

che altri due verbali notificati alla ricorrente (elevati in data 17 dicembre 2008 e 20 febbraio 2009), nei confronti dei quali ella ha anche presentato reclamo (rimasto, tuttavia, senza risposta), non sono stati seguiti dalla rituale comunicazione dell’avvenuta decurtazione del punteggio;

che, dopo aver iniziato il corso di recupero per i 5 punti già decurtati a seguito della prima infrazione, la ricorrente si è vista notificare l’impugnato provvedimento di revisione per avvenuto esaurimento di tutto il punteggio attribuito alla sua patente di guida;

che avverso l’atto di revisione la ricorrente deduce un unico motivo di gravame, così rubricato: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 126 bis, comma 2 e 3, del D.Lgs. 285/92 e dell’art. 6, comma 1, del D.M. 29/07/2003, nonché dei principi generali in materia di decurtazione dei punti della patente di guida”;

che si è costituito in giudizio il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Torino, depositando documenti e chiedendo il rigetto del ricorso, senza tuttavia illustrare alcuna argomentazione difensiva;

Considerato che il ricorso è manifestamente fondato;

che, infatti, come rilevato dalla ricorrente, la mancata comunicazione della decurtazione che avrebbe dovuto seguire alle infrazioni del 17 dicembre 2008 e del 20 febbraio 2009 non ha consentito alla sig.ra ** di venire a conoscenza della progressiva diminuzione del suo punteggio complessivo, in modo da poter frequentare i corsi di recupero appositamente istituiti con d.m. 29 luglio 2003;

che, nel sistema delineato dall’art. 126-bis del d.lgs. n. 285 del 1992, ad ogni violazione del codice della strada deve seguire, nei tempi dettati dalla legge, sia la relativa decurtazione di punteggio sia una specifica ed autonoma comunicazione al contravventore, così da consentire a quest’ultimo di “riparare” alla violazione commessa frequentando gli appositi corsi, allo stesso tempo alimentando il circuito educativo alla conoscenza ed al rispetto del codice della strada;

che, pertanto, il comportamento tenuto dall’amministrazione, nel non consentire alla ricorrente di frequentare per tempo i corsi di recupero al fine di evitare il totale azzeramento del punteggio, è in contrasto con la ratio dell’istituto della patente a punti, in violazione dell’art. 126-bis del codice della strada (cfr. TAR Piemonte, sez. II, nn. 188 e 189 del 2010; nn. 1591, 3176 e 3181 del 2009);

che, quindi, il presente ricorso può essere deciso, essendo state sentite sul punto le parti costituite, con sentenza succintamente motivata, ricorrendo tutti i presupposti di cui all’art. 21, comma 10, della legge n. 1034 del 1971;

che le spese seguono la soccombenza e sono da liquidarsi, equitativamente, in Euro 2.000,00 (duemila/00);

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, sez. II, definitivamente pronunciando con sentenza succintamente motivata,

Accoglie

il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla il provvedimento n. 2036/RA del 16 luglio 2009 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – Direzione Generale per la Motorizzazione – Ufficio Provinciale di Torino.

Condanna l’amministrazione resistente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in Euro 2.000,00 (duemila/00), oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 12/01/2010 con l'intervento dei Magistrati:

Giuseppe Calvo, Presidente

Ofelia Fratamico, Referendario

Antonino Masaracchia, Referendario, Estensore





L'ESTENSORE IL PRESIDENTE




DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 05/02/2010

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

IL SEGRETARIO

domenica 14 febbraio 2010

Non spetta al giudice disporre la rateizzazione delle multe

Condivido la decisione della Corte di cassazione secondo la quale il beneficio di rateizzare la multa può essere accordato solo a chi è povero.
La decisione è della II sez. civile (sent. n. 26932/09).
Con la stessa la Corte ha ricordato come il ricorso alle rateizzazioni deve essere limitato a chi si trova in "condizioni realmente disagiate". Nella parte motiva gli Ermellni ricordano peraltro che a decidere sulle rate è il Comune che ha inflitto la sanzione per violazione del codice della strada e queste non devono mai essere inferiori a 15 euro al mese per un totale massimo di trenta rate.
La Corte ha così accolto il ricorso contro una decisione del Giudice di Pace che aveva concesso ad un automobilista, in debito per diverse contravvenzioni, la possibilita' di rateizzarle, pagando 10 euro al mese. Piazza Cavour ha ricordato che non è certo il Giudice a poter stabilire le rate mettendo in chiaro peraltro che "il potere di suddivisione in rate è legato all'esistenza di condizioni economiche disagiate dell'obbligato e non può essere stabilito secondo equita'". L'automobilista aveva ricevuto diverse contravvenzioni per aver circolato in corsie riservate ad altri veicoli ed aveva collezionato multe per un totale di ben 2.777 euro. Il giudice di Pace aveva così deciso di autorizzare la rateizzazione in 278 rate da 10 euro al mese. Il Comune naturalmente si è rivolto alla Suprema Corte che accogliendo il ricorso ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la rateizzazione del pagamento ed ha ricordato che "la rateizzazione" è appannaggio esclusivo del Comune e che "non puo' essere inferiore a 15 euro" così come non puo' superare le trenta rate. Ora l'automobilista dovrà pagare oltre alle multe anche ulteriori 400 euro per rifondere il Comune delle spese processuali.

domenica 7 febbraio 2010

Sentenza o barzelletta?

Non lo so se definire quanto ho letto una sentenza o una barzelletta.
Secondo la Corte di cassazione il giornalista che sottrae temporanemente un fascicolo dal Tribunale per dimostrare l'inefficienza dei sistemi di sicurezza non commette reato.
Quello che normalmente dovrebbe considerarsi un comportamento sanzionabile a norma dell'art. 351 del codice penale (Violazione della pubblica custodia di cose), non è applicabile se il fatto è compiuto con estrema rapidità.
La decisione è della VI sezione penale della Corte (sentenza n. 4699/10) che nella motivazione chiarisce come non può configurare reato la condotta del giornalista che per scrivere un pezzo di cronaca, si introduca in un Tribunale e prelevi atti dagli armadietti per poi ricollocarli al loro posto dopo averli consultati.
Si tratta secondo la Corte di una condotta che data la sua "assoluta immediatezza" (apertura , asportazione, uscita e rientro nel palazzo) non può ricondursi alla nozione di sottrazione. Mancherebbe in sostanza l'elemento oggettivo del reato giacché, spiega la Corte, nella fattispecie non vi sarebbe stata neppure quella "temporanea rimozione" che richiede quanto meno un apprezzabile mantenimento del bene nell'esclusiva disponibilità di chi lo sottrae. Nel caso esaminato dalla Corte una giornalista aveva scritto un articolo su un quotidiano locale dando conto del suo gesto per denunciare i disservizi della giustizia. Un fotografo aveva anche documentato l'accaduto.
A Voi il giudizio.

sabato 6 febbraio 2010

In Italia bisogna affidarsi al Giudice di turno.

La II sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 4804/10 ha stabilito che il Giudice penale ha l'obbligo di esaminare l'istanza di rinvio eventualmente presentata dal difensore perchè impegnato in altri uffici giudiziari.
Se il magistrato omette di pronunciarsi su tale istanza limitandosi a nominare in sua vece un difensore d'ufficio e proseguendo il dibattimento, detemina un difetto di assistenza dell'imputato che comporta la nullità assoluta della sentenza. Nella parte motiva la Corte richiama anche alcuni precedenti decisioni come la n. 2875/04 e 2850/99.
Insomma in Italia bisogna affidarsi al Giudice di turno. La Cassazione con questa sentenza si contraddice sul punto con altre sentenze simili. Insomma è nullità assoluta o relativa?
La Giustizia non è uguale per tutti.

Senza parole.

Secondo la non condivisa sentenza della Corte di cassazione il portatore di handicap che sosta all’interno delle aree assoggettate a tariffa deve sostenere il costo del parcheggio, pur munito dello speciale contrassegno esposto sul parabrezza del veicolo: il principio (ma quale principio esistono ancora?) è stato affermato dalla Corte di Cassazione – Sezione 2^ Civile, che ha respinto il ricorso presentato dal disabile, già risultato soccombente nell’ambito della procedura di opposizione alla sanzione amministrativa promossa avanti al Giudice di Pace di Palermo.
I Giudici di Piazza Cavour evidenziano nella parte motiva che l’esonero dal pagamento del ticket non è previsto da alcuna norma, quantunque venga teorizzato all’interno di circolari della Pubblica Amministrazione, prive del rango di norme di diritto.
Oltretutto, aggiungono gli Ermellini, non ha fondamento invocare a sostegno di un’interpretazione ipoteticamente difforme l’esigenza di favorire la mobilità delle persone disabili; “dalla gratuità, anziché onerosità come per gli altri utenti, della sosta deriva, infatti, un vantaggio meramente economico, non un vantaggio in termini di mobilità”.
Talché, anche nell’indisponibilità degli apposti spazi riservati alla categoria dei disabili, mancanti o già occupati da altri portatori di handicap, costoro non possono fruire della sosta gratuita negli stalli a pagamento.
La pronuncia, recante il n° 21271 e depositata il 5 ottobre 2009, fa riflettere su come i Giudici di questo Stato giudicano i casi .... che riguardano le persone comuni... per non andare oltre.

giovedì 4 febbraio 2010

Tar Lazio: le amministrazioni pubbliche hanno l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la salute dei propri dipendenti.

Con la sentenza depositata il 29 gennaio 2010, il Tar Lazio ha condannato il Ministero della Giustizia al risarcimento del danno non patrimoniale (4.000,00 euro complessivi) per non aver adottato le misure di sicurezza idonee a preservare l’integrità fisica e la salute dei dipendenti.
Secondo la ricostruzione della vicenda, un agente scelto del Corpo della polizia penitenziaria aveva adito il Tar Lazio per l’accertamento della mancata adozione da parte del Ministero della Giustizia delle misure di sicurezza delle condizioni di lavoro presso la Casa Circondariale presso cui prestava servizio (il riferimento specifico era al fumo passivo derivante da tabacco).
L’agente chiedeva pertanto la condanna dell’amministrazione all’adozione delle misure specifiche per la tutela della salute e al risarcimento del danno non patrimoniale. Il tribunale amministrativo, in seguito ad un excursus relativo al quadro normativo vigente all’epoca dei fatti (legge n.584/1975 sul divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico), dopo aver citato la sentenza della Consulta n.399 del 20 dicembre 1996 e dopo le varie testimonianze (da cui emergeva che la prevenzione del divieto di fumo non era stata affiancata da altre attività se non dalla semplice apposizione di cartelli di divieto), ha accertato che gravava sul Ministero intimato l’obbligo di “adottare misure organizzative idonee a prevenire il rischio per i dipendenti derivante dall’esposizione a fumo passivo” e ha inoltre ritenuto fondata la domanda, (proposta sulla base dell’art.2087 sull’obbligo contrattuale di sicurezza sul lavoro) di risarcimento del danno non patrimoniale identificato dal ricorrente nella “violazione della propria serenità e tranquillità”.
A sostegno dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, il Tribunale ha infine citato l’ultimo orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione secondo cui il danno non patrimoniale si identifica con “il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica”. La tutela di tale danno è riconosciuta non solo nei casi espressamente previsti dalla legge ma anche “in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, (…) ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione”.

mercoledì 3 febbraio 2010

La Corte di Cassazione avverte tutti gli automobilisti sui rischi che si corrono ad ospitare a bordo della propria auto un passeggero che non vuole me

Secondo gli Ermellini, con la sentenza che non condivido, bisogna far scendere i passeggeri perchè in caso di incidente mortale scatta la condanna per omicidio colposo.
Come più volte ho sostenuto esistono anche situazioni in cui proprio le cinture di sicurezza hanno portato alla morte di un passeggero o di un conducente e allora come la mettiamo?
La cassazzione non si dovrebbe forse fermare al solo invito di allacciare le cinture di sicurezza e lasciare al conducente la eventuale responsabilità civile e penale per eventuali danni ai passeggeri?
Ora la Corte è invece categorica: bisogna pretendere che i trasportati indossino le cinture di sicurezza e a fronte di persone ostinate, bisogna farle scendere senza esitazione.
Ma insomma se uno si mette alla guida ed è consapevole che deve andare piano rispettare il codice della strada e la segnaletica stradale laddove esistente non basta? A maggior ragione se il conducente come si sostiene nella sentenza n. 3585/10 è "titolare di una posizione di garanzia" e deve quindi "prevedere e prevenire le altrui imprudenze e avventatezze".
Vi è mai capitato di vedere un conducente di una autovettura che dopo un incidente tentava invano di salvare i propri passeggeri rimasti intrappolati e schiacciati nell'auto?
Io sono del parere che bisogna lasciare la facoltà alle persone di allacciare o meno le cinture.
Salvo appunto ad assumersi le proprie responsabilità che non vuole dire che bisogna obbligarli a morire anche per aver tenuto allacciato le cinture.
A nulla rileva infatti che nel caso di specie a seguito di un incidente il trasportato perdeva la vita e ciò è costato all'automobilista una condanna per il resto previsto e punito dall'art. 589 del codice penale. Evidentemente non rispettava le altre norme del codice della strada.

Mantenimento dei figli: anche i nonni sono obbligati a concorrere.

La disposizione dell’art. 148 c.c., nel testo modificato dalla riforma del diritto di famiglia (L. 151/1975), sancisce l’obbligo primario di mantenimento dei figli minori da parte di entrambi i genitori e quello sussidiario degli ascendenti “quando i genitori non hanno mezzi sufficienti”.

Nel caso di specie, posto di recente all’attenzione del Tribunale civile di Genova, l’iniziativa giudiziaria era stata assunta dalla madre naturale di una minore in via diretta nei confronti del padre (in costante pregressa inadempienza) ed in via sussidiaria nei confronti degli ascendenti, cui era seguita emissione di decreto di ingiunzione di pagamento di somme di denaro a favore della minore stessa gravanti in parte sul padre (per ciò che si era dichiarato disponibile a pagare) ed in parte sugli avi paterni. L’avo paterno, lamentandosi della eccessività della quota di mantenimento posta a suo carico, promuoveva quindi giudizio di opposizione al decreto esecutivo emesso nei suoi confronti, il che ha fornito occasione al Tribunale, in tal sede, per chiarire che cosa debba intendersi per “sussidiarietà dell’obbligazione degli ascendenti” ai sensi dell’art. 148 c.c..

La Curia genovese (G.U. dott.ssa Monica Parentini, sentenza 28/10/2009), ha infatti precisato che il riferimento legislativo relativo al non avere i genitori mezzi sufficienti al mantenimento, non vada inteso “in maniera assoluta, perchè l’insufficienza dei mezzi ammette anche un’integrazione parziale e non la sostituzione di una categoria all’altra. Detta obbligazione non dipende dall’oggettiva insufficienza dei redditi effettivi dei genitori, ma dalla loro capacità di provvedere al mantenimento della minore; come è stato rilevato dalla giurisprudenza di merito (Trib. Napoli 15.02.1977) non vale ad esonerare gli ascendenti da tale obbligo il comportamento dei genitori che di fatto non provvedano in maniera adeguata al mantenimento dei figli, essendo appunto la norma in concreto finalizzata a garantire l’adeguato mantenimento della prole”.

L’obbligazione degli ascendenti può ben quindi concorrere con quella dei genitori ed essere con loro ripartita in base alle rispettive sostanze: non è necessario, in altri termini, che i genitori non provvedano affatto al mantenimento della prole per far maturare il loro obbligo ex art. 148 c.c., ma è sufficiente che consti un apporto contributivo insufficiente del nucleo genitoriale, perché gli ascendenti debbano essere chiamati al loro intervento economico in via quindi sussidiaria e complementare.

Inoltre il bene oggetto di tutela immediata è il minore, sicchè l’obbligazione ex art. 148 c.c. scatta in presenza di oggettiva inadeguatezza dell’apporto da parte dei genitori (quando non possano o non vogliano) indipendentemente in questa fase dalla accertamento di eventuali responsabilità degli stessi lasciato a diverso ambito di indagine, essendo in questa sede primario assicurare al minore il suo diritto al mantenimento, in modo celere, concreto e fattivo (per spunti in merito, anche Tribunale Taranto, 04/02/2005 in Foro It. 2005, I, 1599).

Si evince, inoltre, dalla partecipazione al giudizio dell’ascendente anche materna, che l’obbligazione ex art. 148 c.c. va letta in ampio raggio, potendosi estendere gli obblighi a tutti gli ascendenti del minore, così come già annotato da pregressa giurisprudenza di merito (Tribunale di Reggio Calabria, 11.05.2007) non avendo l’obbligazione in parola carattere fideiussoria ma ancorquì precipuo fine di tutela del minore.

Il tutto, va valutato, sancisce infine la sentenza genovese, alla luce della situazione economica singolarmente e complessivamente considerata al fine di assicurare ad ogni componente obbligato uno sforzo contributivo che assicuri, in situazioni di particolare disagio, il diritto di ciascuno di sopportare le primarie esigenze di vita.
Non condivido del tutto questa sentenza nella parte in cui stabilisce che debbano essere i nonni a mantenere i nipoti.

Il giudice dell’opposizione è quindi pervenuto, tramite analitica disamina e comparazione delle sostanze reddituali, a prospettare un riparto dell’obbligo di contribuzione che nel complesso soddisfa, previamente valutatane l’entità, il concreto diritto della minore ad un suo adeguato mantenimento.

domenica 24 gennaio 2010

Un condomino vittima di soprusi da parte del vicino può anche improvvisarsi sceriffo e risolversi il caso da solo.

Sono pienamente d'accordo con quanto stabilito con la sentenza depositata in questi giorni, dalla VI sezione penale della Corte (sentenza 2548/10) la quale occupandosi di una lite condominiale nata per questioni di parcheggio ha affermato che "la difesa privata di un proprio diritto di possesso, anche con il ricorso all'uso di una violenza reale, è consentito a chi subisca un fatto vanificante tale diritto (spoglio), allorchè l'autodifesa segua senza soluzione temporale nell'attualità e nell'immediatezza l'azione lesiva" subita.
Insomma ci si può difendere ma occorre farlo subito. Sulla scorta di tale principio la Corte ha annullato una condanna per esercizio arbitrario delle proprie ragioni che i giudici di merito avevano inflitto ad un condomino che trovandosi nell'impossibilità di accedere al parcheggio condominiale per via di un lucchetto (apposto sul cancello d'ingresso) e di un paletto (che il suo rivale aveva apposto per delimitare il suo posto), aveva deciso di risolvere la cosa a modo suo rimuovendo il paletto con le sue mani e senza interessare il Tribunale. Inizialmente il condomino che si era fatto giustizia da solo era stato condannato in primo e in secondo grado per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni punito dall'art. 392 c.p. La Cassazione al contrario ha ribaltato il verdetto riconoscendo che l'imputato rimuovendo paletti e lucchetto aveva esercitato una "legittima difesa" a fronte "a una ingiusta aggressione al libero esercizio del proprio diritto di transito in uno spazio condominiale comune".

Lecito viaggiare di notte con l'uso contemporaneo di anabbaglianti e fendinebbia anche se non ne ricorrono i presupposti.

Ha stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n.534/10 con la quale chiarisce che nessuna norma di legge stabilisce quali debbano essere le condizioni a rendere necessario questo tipo di utilizzo.
Ne consegue secondo la Corte che una sanzione eventualmente irrogata deve ritenersi illegittima.
In precedenza il Giudice di pace aveva ritenuto che l'uso dei fendinebnbia fosse consentito solo di giorno e in presenza di determinate condizioni metereologiche. La suprema Corte richiamando alla lettura dell'art. 153 del codice della strada fa notare che la norma non stabilisce uno specifico divieto di utilizzo contemporaneo di fendinebbia e fari anabbaglianti in orario notturno.

sabato 23 gennaio 2010

Dico no a questo tipo di "Processo breve".

Il processo breve? Un delitto pro delinquenti danarosi.
Per essere una Giusta Legge ... si doveva prevedere la sua applicazione ai reati commessi successivamente alla sua approvazione e pubblicazione ...
Ma si sa che in Italia ci sono solo Cattive Leggi... e i poveracci pagano... sempre e comunque...

martedì 19 gennaio 2010

Niente decurtazione dei punti se quando si parla al cellulare non vi è la contestazione immediata.

Chi viene sorpreso a parlare con il cellulare mentre è al volante, senza fare uso dell'auricolare, non può subire la decurtazione di punti dalla patente se non c'è stata la contestazione immediata.
Lo ha stabilito la sentenza n. 232/10 della Corte di Cassazione.
In sostanza per applicare la sanzione accessoria della decurtazione dei punti al proprietario dell'auto occorre avere certezza sul fatto che fosse proprio lui alla guida del mezzo.
Del resto - ricorda la Corte - la Corte Costituzionale (sent. n. 27/05) aveva dichiarato l'illegittimità dell'articolo 126 bis del codice della strada nella parte in cui assoggettava a tale sanzione il proprietario dell'auto in caso di mancata identificazione del conducente o di omessa indicazione dello stesso da parte del proprietario.
Finalmente un pò di giustizia.

giovedì 7 gennaio 2010

Interessante sentenza relativa alle spese da attribuire al nuovo condomino che acquista l'appartamento.

Con sentenza n. 23686 del 9 novembre 2009, la Corte di Cassazione torna a occuparsi di una problematica nota e piuttosto frequente in materia condominiale, inerente alla ripartizione delle spese condominiali fra il condomino che ha venduto il proprio immobile e il soggetto che ha acquistato il detto immobile, divenendo così condomino.
Come noto infatti, ai sensi dell'art. 1123 del Codice Civile, i condomini sono tenuti a sostenere le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, così come per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Trattasi di obbligazioni propter rem (costante la giurisprudenza in tal senso) posto che l'obbligo deriva dalla titolarità del diritto reale sull'immobile (ex multis, Cass. Civ. 6323/2003).
E' altresì noto che l'articolo 63 delle disposizioni di attuazione al Codice Civile prevede (al secondo comma) una solidarietà tra il venditore e l'acquirente, nei confronti del condominio, per il pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente, il tutto nell'ottica di agevolare l'amministrazione condominiale al recupero delle spese condominiali.
Senonchè il legislatore nulla dice in ordine al momento del sorgere del contributo condominiale, ossia se quest'ultimo sorga nel momento dell'autorizzazione accordata all'amministratore a compiere la spesa nell'interesse del condominio, ossia al momento della delibera, o al momento in cui sia sorta effettivamente la necessità della spesa ovvero ne sia seguita la concreta attuazione. Il problema è di non poco rilievo, anche in punto di fatto, se si pone attenzione alla circostanza che è assai frequente, nella gestione condominiale, che intercorra un considerevole lasso di tempo tra il sorgere della necessità della spesa o la concreta esecuzione dei lavori di manutenzione e il momento della delibera di approvazione della spesa medesima.
L'orientamento giurisprudenziale prevalente (cfr. Cass. 23345/08, 12013/04, 6323/03) ritiene che l'obbligo del condomino al pagamento dei contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell'edificio debba ancorarsi al momento in cui sia sorta la necessità della spesa ovvero si sia data concreta attuazione ai lavori di manutenzione, posto che la relativa delibera assembleare di approvazione della spesa ha la funzione di rendere liquido il debito determinando, in sede di ripartizione, la quota a carico di ciascun condomino, ma non costituisce quindi il presupposto dell'esistenza stessa del debito, legata invece, come detto, alla titolarità del diritto reale sul bene. E' agevole altresì osservare che tale prospettazione risponde alla logica di accollare le spese a chi veda effettivamente accresciuto il valore del proprio immobile, circostanza che si verifica evidentemente al momento dell'effettiva esecuzione dei lavori di manutenzione.
Ebbene, i Giudici di legittimità specificano altresì che nel momento in cui il condomino vende il proprio immobile, e rende noto tale trasferimento al condominio, perde il proprio status di condomino, tant'è che non è più legittimato a partecipare direttamente alle assemblee condominiali e può far valere le proprie ragioni in ordine al pagamento dei contributi dovuti (nei limiti di cui al richiamato art. 63 disp. att. c.c., II comma) solo tramite l'acquirente che è subentrato nella posizione di condomino. Ne consegue quindi che se il condomino alienante non è legittimato a partecipare alle assemblee e ad impugnare le delibere condominiali, nei suoi confronti non può essere chiesto ed emesso il decreto ingiuntivo per la riscossione dei contributi, atteso che solanto nei confronti di colui che rivesta la qualità di condomino può trovare applicazione l'art. 63 primo comma (così Cass. Civ., Sez. II, sentenza 9 settembre 2008, n. 23345).
Il caso che ci occupa nasce dall'opposizione di un condomino innanzi al Giudice di Pace avverso un decreto ingiuntivo emesso per contributi dovuti ex art. 63 disp. att. c.c.; a fondamento dell'opposizione il condomino pone appunto la circostanza di aver venduto l'immobile prima della delibera delle spese oggetto del provvedimento d'ingiunzione; il Giudice di Pace rigetta l'opposizione rilevando in particolare che la trascrizione (e quindi la conoscenza nei terzi) della vendita dell'appartamento de quo era avvenuta successivamente alla delibera di approvazione della spesa di cui al decreto e che l'amministratore non è onerato a verificare i registri immobiliari per accertare la titolarità della proprietà. I Giudici di legittimità, nella sentenza esaminata, cassano però la sentenza del Giudice di Pace (con rinvio ad altro G.d.P.), evidenziando ancora una volta come, stante il rapporto di natura reale che lega il condomino alla proprietà dell'immobile, la vendita del bene comporta la perdita della qualità di condomino dell'ex proprietario (non rilevando la trascrizione del relativo atto, avente solo fini di pubblicità dichiarativa) e l'impossibilità di chiedere nei confronti di quest'ultimo il decreto ingiuntivo di cui al richiamato art. 63 disp. att. c.c., non essendo possibile peraltro configurare, per le medesime ragioni, la figura del condomino “apparente” (ossia di un soggetto che, con comportamenti anche univoci, possa ingenerare nell'amministratore il ragionevole convincimento di essere l'effettivo condomino, cfr. Trib. Bari, Sez. III, 25.7.08; Trib. Napoli, 13.3.06).
(Altalex, 3 dicembre 2009. Nota di Claudio Vantaggiato)

Sul condominio.

Assemblea condominiale, presidente, compiti, precisazioni
Cassazione civile , sez. II, sentenza 13.11.2009 n° 24132
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Durante lo svolgimento dell’assemblea condominiale, il presidente, nell’esercizio delle proprie funzioni, può limitare i tempi di intervento dei partecipanti,considerato che lo stesso ha il compito di garantire la verifica della corretta costituzione dell’assemblea, nonchè l’ordinato svolgimento della stessa. (1-3)

(*) Riferimenti normativi: artt. 1129-1135 c.c. e 66 disp. att. c.c..
(1) In tema di assemblea e verifica del quorum, si veda Cassazione civile, sez. II, sentenza 10.08.2009 n° 18192.
(2) In materia di condominio e mancata convocazione, si veda Cassazione civile, sez. II, sentenza 03.11.2008 n° 26408.
(3) Sul condominio si veda il Focus, VIOLA, Il condominio: i recenti orientamenti giurisprudenziali.
Si veda l’ebook (collana Altalex Massimario diretta da Luigi Viola) MOMMO, Le problematiche condominiali alla luce della recente giurisprudenza.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 29 ottobre - 13 novembre 2009, n. 24132

(Presidente Triola - Relatore Giusti)

Svolgimento del processo

1. - Con atto di citazione notificato il 26 ottobre 1995, il condomino T.E. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Teramo il Condominio Abruzzo I di Pineto, in persona dell'amministratore pro tempore, per sentire dichiarare l'illegittimità, la nullità o l'annullabilità dei verbali delle assemblee tenute in seduta straordinaria, ed in seconda convocazione, il 6 agosto 1994 ed il 12 agosto 1995, esponendo un dettagliato elenco di molteplici vizi delle deliberazioni adottate e dei comportamenti tenuti dal presidente delle assemblee o dall'amministratore del condominio.

Il Tribunale adito, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 28 novembre 2000, rigettò integralmente le domande dell'attore, avendo rilevato l'intervenuta decadenza dall'impugnativa dell'assemblea condominiale del 6 agosto 1994 ed avendo peraltro ritenuto che i vizi fatti valere tardivamente erano sostanzialmente coincidenti con quelli, rigettati nel merito, propri della delibera assembleare del 12 agosto 1995.
2. - La Corte d'appello dell'Aquila, con sentenza depositata il 2 novembre 2004, ritenutane l'ammissibilità (atteso che la comunicazione del verbale al condomino E., che non aveva partecipato all'assemblea, era avvenuta irritualmente), ha tuttavia respinto l'impugnazione avverso le deliberazioni dell'assemblea condominiale del 6 agosto 1994, rigettando per il resto l'appello e confermando quindi la pronuncia del Tribunale.

2.1. - Secondo la Corte territoriale, la circostanza che nel verbale dell'assemblea del 6 agosto 1994 sia stato riportato che i condomini erano 47 anziché 45 è del tutto ininfluente ai fini della regolare costituzione della detta assemblea, sia perché il regolamento non esclude che il numero dei partecipanti al condominio possa variare nel tempo, in aumento o in diminuzione, per qualsiasi causa legittima, sia perché nella specie l'aumento dei condomini è derivato dal fatto che gli alloggi n. 11 e n. 12 del fabbricato “D”, insistenti su due piani diversi, ciascuno con doppio ingresso, sono stati trasformati in due mini appartamenti autonomi e sono stati ceduti dall'unico proprietario ad altri acquirenti, con conseguente aumento di due unità del numero dei condomini (da 45 a 47), senza alcuna incidenza significativa sui millesimi di proprietà, semplicemente ripartiti tra le unità ricavate da quella originaria.

In ordine alla eccepita invalidità dell'assemblea del 12 agosto 1995, derivante dalla mancata indicazione nel verbale del numero totale dei partecipanti al condominio, la Corte d'appello ha rilevato che nessuna prescrizione - a pena di nullità o di annullabilità - è posta dal legislatore in ordine alla necessità dell'attestazione nel verbale di assemblea del raggiungimento, per ogni singola riunione, del quorum per numero dei condomini presenti e per valore, espresso in millesimi, dell'edificio, rimanendo peraltro la sussistenza, in concreto, del quorum costitutivo presupposto di validità dell'assemblea e delle deliberazioni in essa adottate. Il dato formale della mancata trascrizione nel verbale dell'assemblea del numero totale dei condomini - ha proseguito la Corte territoriale - di per sé non integra motivo di invalidità dell'assemblea, mentre dell'effettiva sussistenza del vizio avrebbe dovuto fornire la prova l'attore. E siccome dal contenuto del verbale impugnato risulta che alla verifica preliminare erano intervenuti all'assemblea del 12 agosto 1995 21 condomini per complessivi 462,70 millesimi, l'E., presente all'assemblea, a conoscenza del fatto che il numero dei condomini era di 47 componenti, ben avrebbe potuto contestare, già in quella sede, la validità dell'assemblea, oltre che, successivamente, provare i presupposti della contestazione medesima.

Quanto alla denunciata irregolare ed illegittima costituzione delle due assemblee, per non essere stato consentito all'E. di controllare le relative modalità di convocazione, la Corte d'appello ha rilevato, per un verso, che deve presumersi che tutti i condomini abbiano ricevuto comunicazione della convocazione dell'assemblea (sia in prima che in seconda seduta), non essendovi stato reclamo da parte di alcuno degli stessi, consapevoli tutti che il numero totale dei condomini era di 47; e, per l'altro verso, che la mancanza delle sottoscrizioni da parte dei condomini delle tavole annesse al regolamento condominiale non ha alcun riflesso sulla validità del procedimento di costituzione dell'assemblea e neppure sul quorum deliberativo.

In ordine al prospettato vizio di illegittima costituzione dell'assemblea del 12 agosto 1995 per mancanza del quorum costitutivo (che si sarebbe svolta in prima, non già in seconda convocazione, giacché all'assemblea convocata alle otto del mattino dell'11 agosto 1995 era presente soltanto l'E. e neppure l'amministratore), la Corte dell'Aquila, nel confermare il rigetto della doglianza pronunciato dal Tribunale, ha rilevato che, in tema di assemblea condominiale, la sua seconda convocazione è condizionata dall'inutile e negativo esperimento della prima, sia per completa assenza dei condomini, sia per insufficiente partecipazione degli stessi in relazione al numero e al valore delle quote, ed ha quindi ritenuto che l'assemblea del 12 agosto 1995 fu tenuta in seconda convocazione.

Ad avviso della Corte d'appello, la limitazione a 10 minuti, da parte del presidente, della durata di ogni singolo intervento non ha compresso in alcun modo il diritto dell'E. di esprimere il proprio pensiero su ogni punto all'ordine del giorno delle assemblee del 6 agosto 1994 e del 12 agosto 1995.

Quanto, infine, ai motivi di appello sub VI, X, XIII, XIV, XV, XVI e XVIII, la Corte territoriale li ha respinti, condividendo la decisione adottata dal primo giudice.

3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello ha proposto ricorso l'E., con atto notificato il 14 dicembre 2005, sulla base di sei motivi.

Il Condominio intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

1. - Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione all'art. 8 del regolamento condominiale, nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.
Dalla lettura del regolamento condominiale si ricaverebbe che l'interno 11 e l'interno 12 non sono insistenti su piani diversi - come afferma l'impugnata sentenza - ma sono posti entrambi al secondo piano e corrispondono non già ad un'unica unità immobiliare di poi trasformata in due appartamenti autonomi, ma a due unità immobiliari originariamente distinte ed autonome ed aventi eguale consistenza. Il rogito per notaio C. del 7 febbraio 1997, prodotto dal Condominio, dimostrerebbe come in epoca successiva alla approvazione del regolamento condominiale il sottotetto indicato come “appartamento sito al terzo piano”, non considerato ai fini del regolamento stesso per determinazione delle tabelle millesimali, ha acquisito la consistenza di un appartamento. Tale documento smentirebbe l'assunto secondo cui l'aumento del numero dei condomini non comporterebbe alcuna incidenza significativa dei millesimi di proprietà.

1.1. - Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente si duole che il verbale dell'assemblea del 6 agosto 1994 non abbia considerato che l'aumento a 47 del numero dei condomini corrisponde, in realtà, ad un mutamento, in senso ampliativo, dell'edificio “D” e che l'inserimento di essi nell'elenco dei condomini avrebbe dovuto essere preceduto da una modifica del regolamento e delle pertinenti tabelle millesimali, modifica da praticarsi con il consenso unanime dei condomini o con una azione giudiziaria da proporsi in contraddittorio con tutti i condomini.

È esatta la premessa in diritto da cui muove il ricorrente: che cioè, per un verso, in base all'art. 69 disp. att. cod. civ., i valori proporzionali dei vari piani o porzioni di piano possono essere riveduti o modificati, anche nell'interesse di un solo condomino, quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano; e, per l'altro verso, che le tabelle millesimali allegate ad un regolamento condominiale contrattuale non possono essere modificate se non con il consenso di tutti i condomini (che, sotto il profilo dell'impegno e del vincolo, equivale all'accordo iniziale) ovvero per atto dell'autorità giudiziaria ex art. 69 cit., il quale contempla i presupposti, e non già il quorum di validità, della relativa deliberazione.

Sennonché, nella specie non si censura che l'assemblea abbia proceduto, a maggioranza, ad adottare nuove tabelle millesimali a modifica di quelle allegate al regolamento contrattuale, ma semplicemente ci si duole che il relativo verbale abbia erroneamente attestato in 47, anziché in 45, il numero totale dei partecipanti al condominio.

Sotto questo profilo, il ricorrente non solo non precisa come tale (pur in ipotesi erronea) attestazione del verbale abbia influito sulla validità della costituzione dell'assemblea e delle deliberazioni in essa assunte, ma neppure indica se il proprietario dell'unità immobiliare non ancora contemplato nelle tabelle in questione abbia partecipato all'assemblea e (in ipotesi affermativa) se abbia inciso sulla formazione della maggioranza.

2. - Con il secondo mezzo, il ricorrente censura violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione all'art. 8 del regolamento condominiale, nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Erroneamente non sarebbe stata dichiarata l'invalidità del verbale dell'assemblea del 12 agosto 1995, nonostante in esso manchi l'indicazione del numero totale dei condomini.

2.1. - Il motivo è infondato.

Il verbale dell'assemblea condominiale rappresenta la descrizione di quanto è avvenuto in una determinata riunione e da esso devono risultare tutte le condizioni di validità della deliberazione, senza incertezze o dubbi, non essendo consentito fare ricorso a presunzioni per colmarne le lacune.

Il verbale deve pertanto contenere l'elenco nominativo dei partecipanti intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, perché tale individuazione è indispensabile per la verifica della esistenza dei quorum prescritti dall'art. 1136 cod. civ.
In questo senso è orientata la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato: (a) che non è conforme alla disciplina indicata omettere di riprodurre nel verbale l'indicazione nominativa dei singoli condomini favorevoli e contrari e le loro quote di partecipazione al condominio, limitandosi a prendere atto del risultato della votazione, in concreto espresso con la locuzione “l'assemblea, a maggioranza, ha deliberato” (Sez. II, 19 ottobre 1998, n. 10329; Sez. II, 29 gennaio 1999, n. 810); (b) che la mancata verbalizzazione del numero dei condomini votanti a favore o contro la delibera approvata, oltre che dei millesimi da ciascuno di essi rappresentati, invalida la delibera stessa, impedendo il controllo sulla sussistenza di una delle maggioranze richieste dall'art. 1136 cod. civ., né potendo essere attribuita efficacia sanante alla mancata contestazione, in sede di assemblea, della inesistenza di tale quorum da parte del condomino dissenziente, a carico del quale non è stabilito, al riguardo, alcun onere a pena di decadenza (Sez. II, 22 gennaio 2000, n. 697); (c) che è annullabile la delibera il cui verbale contenga omissioni relative alla individuazione dei singoli condomini assenzienti o dissenzienti o al valore delle rispettive quote (Sez. Un., 7 marzo 2005, n. 4806).

Ma poiché il verbale è narrazione dei fatti nei quali si concreta la storicità di un'azione, esso deve attestare o “fotografare” quanto avviene in assemblea; pertanto, non incide sulla validità del verbale la mancata indicazione, in esso, del totale dei partecipanti al condominio, se a tale ricognizione e rilevazione non ha proceduto l'assemblea stessa, nel corso dei suoi lavori, giacché questa incompletezza non diminuisce la possibilità di controllo aliunde della regolarità del procedimento e delle deliberazioni assunte.

3. - Il terzo motivo è rubricato “violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione agli artt. 10 e 11 del regolamento condominiale”, nonché “omessa o insufficiente motivazione su più punti decisivi della controversia”.

Ad avviso del ricorrente, dal fatto che da parte dei condomini presenti all'assemblea non siano stati sollevati reclami in ordine alla convocazione di tutti i condomini non può inferirsi, alla stregua dei canoni della normalità causale e della ragionevole probabilità, che tutti i condomini fossero stati regolarmente convocati. La sentenza impugnata non avrebbe considerato che, nell'atto di appello, era stato lamentato non solo che non erano state poste a disposizione dell'attore le convocazioni dei condomini, ma anche che il presidente aveva omesso di dare atto a verbale della regolarità della convocazione dell'assemblea, in violazione, oltre che dell'art. 1136 cod. civ., dell'art. 10 del regolamento condominiale. Nel verbale il presidente ha dichiarato validamente costituita l'assemblea: ma un conto sarebbe la dichiarazione di validità dell'assemblea, altro la regolarità della sua convocazione, il cui accertamento manca del tutto.

3.1. - Il motivo è fondato, nei termini di seguito precisati.

L'onere di provare che tutti i condomini sono stati tempestivamente convocati incombe al condominio, non potendosi addossare al condomino che deduca l'invalidità dell'assemblea la prova negativa dell'inosservanza di tale obbligo (Cass., Sez. II, 25 marzo 1999, n. 2837). E sebbene tale prova possa essere desunta anche da presunzioni, non si può attribuire al comportamento dei condomini partecipanti ad un'assemblea non totalitaria, i quali nulla abbiano eccepito al riguardo, valore di prova presuntiva univoca della ricezione dell'avviso di convocazione anche da parte di quei condomini che a tale seduta non abbiano preso parte.

4. - Con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ.) il ricorrente sostiene che l'assemblea del 12 agosto 1995, sebbene tenutasi in seconda convocazione, doveva considerarsi tenuta in prima convocazione, con la necessità del quorum deliberativo di cui al secondo comma dell'art. 1136, dato che l'assemblea di prima convocazione era andata completamente deserta. Il caso di completa diserzione dell'assemblea - si afferma - non può essere equiparato a quello di assemblea che non si è potuta tenere per insufficiente partecipazione dei condomini. Quando, invece, non si verifichi il fenomeno fattuale della riunione di due o più condomini nel giorno, luogo ed ora della convocazione, l'assemblea tenuta alla data successiva indicata nell'avviso come di seconda convocazione è, in realtà, di prima convocazione e soggiace alle condizioni di validità di costituzione e di deliberazione previste nell'art. 1136, primo comma, cod. civ..

4.1. - La doglianza è priva di fondamento.

In tema di assemblea condominiale, la sua seconda convocazione è condizionata dall'inutile e negativo esperimento della prima, sia per completa assenza dei condomini, sia per insufficiente partecipazione degli stessi in relazione al numero ed al valore delle quote. La verifica di tale condizione va espletata nella seconda convocazione, sulla base delle informazioni orali rese dall'amministratore, il cui controllo può essere svolto dagli stessi condomini, che o sono stati assenti alla prima convocazione, o, essendo stati presenti, sono in grado di contestare tali informazioni (Cass., Sez. II, 24 aprile 1996, n. 3862).

5. - Il quinto mezzo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione all'art. 67 disp. att.) lamenta che la Corte d'appello abbia respinto la censura di invalidità delle deliberazioni, nonostante il presidente dell'assemblea abbia - in mancanza di ogni e qualsiasi norma attributiva del relativo potere - limitato la durata degli interventi dei condomini a dieci minuti. Il punto non è quello di stabilire se la limitazione degli interventi a 10 minuti sia tale da comprimere, in concreto, il diritto di ciascun condomino ad intervenire in assemblea, ma se il potere di introdurre limiti temporali agli interventi dei condomini sia nella disponibilità del presidente ovvero se esso debba trovare la propria fonte in una disposizione regolamentare (che nel caso manca) ovvero in una deliberazione della stessa assemblea.

5.1. - Il motivo non è fondato.

Il presidente dell'assemblea condominiale - tenuto conto del fatto che la sua funzione consiste nel garantire l'ordinato svolgimento della riunione - ha il potere di dirigere la discussione, assicurando, da un lato, la possibilità a tutti i partecipanti di esprimere, nel corso del dibattito, la loro opinione su argomenti indicati nell'avviso di convocazione e curando, dall'altro, che gli interventi siano contenuti entro limiti ragionevoli. Ne consegue che il presidente, pur in mancanza di una espressa disposizione del regolamento condominiale che lo abiliti in tal senso, può stabilire la durata di ciascun intervento, purché la relativa misura sia tale da assicurare ad ogni condomino la possibilità di esprimere le proprie ragioni su tutti i punti in discussione.

6. - L'ultimo motivo prospetta “nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ.”. La motivazione contenuta nella sentenza impugnata per rispondere al VI, al X, al XIII, al XIV, al XV, al XVI e al XVIII motivo di appello, sarebbe una tipica motivazione per relationem. La Corte territoriale si sarebbe limitata a dichiarare la propria condivisione alle soluzioni delle questioni controverse fornite dalla sentenza di primo grado “nonostante le argomentazioni dell'appellante” che, però, non sono minimamente esaminate. Risulterebbero pertanto non individuabili né le ragioni per cui sono state condivise le decisioni del primo giudice né le ragioni per cui sono stati disattesi i motivi di impugnazione.

6.1. - La doglianza è meritevole di accoglimento.

Quanto ai motivi di appello sub VI, X, XIII, XIV, XV, XVI e XVIII, la Corte territoriale li ha respinti sulla base della seguente argomentazione: è condivisa, “nonostante le argomentazioni dell'appellante”, “la decisione adottata dal primo giudice sui rilievi mossi, con l'atto introduttivo del giudizio, in ordine alla delega rilasciata dal condomino Dante Castagnetta, alla valida partecipazione all'assemblea del 12 agosto 1995 della moglie di Lucio K., alla pretesa violazione dell'art. 10 del regolamento condominiale, alla validità del voto (unico) espresso dai coniugi C. - M., alla determinazione dei millesimi della condomina S., alla sufficiente individuazione del condomino attraverso la trascrizione nel verbale di assemblea del solo cognome, non essendovi casi di omonimia, alla declaratoria di inammissibilità dei rilievi inerenti scelte di merito dell'assemblea condominiale, non sindacabili - come tali - dall'autorità giudiziaria”.

La laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consente in alcun modo di ritenere che all'affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice d'appello sia pervenuto attraverso l'esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., Sez. III, 2 febbraio 2006, n. 2268; Cass., Sez. III, 11 giugno 2008, n. 15483).

7. - La sentenza è cassata in relazione alle censure accolte.

La causa deve essere rinviata ad una diversa Corte dr appello, che si designa nella Corte d'appello di Roma.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.


P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo ed il sesto motivo di ricorso, rigettati il primo, il secondo, il quarto ed il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Roma.

Se l'airbag non funziona la vittima in caso di sinistro soprattutto mortale deve essere risarcita dal costruttore.

Condivido pienamente quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 2010/09 la quale ha affermato che in caso di incidente, se l'airbag non funziona, chi lo ha prodotto deve risarcire il danno alla vittima o ai parenti della vittima.
Molti potrebbero pensare ad un caso raro ma cosi non è perchè proprio alcuni giorni fa un avvocato del posto è stato vittima di un brutto tamponamento e guarda anche in questa occasione gli airbag non si sono aperti. Ma non solo a detta dello stesso avvocato nella circostanza anche la cintura di sicurezza non ne voleva sapere di sganciarsi dalla sua sede con tutti i rischi possibili e immaginabili qualora l'autovettura avesse preso fuoco.
Ebbene ora finalmente la Corte di Cassazione ha stabilito che se il dispositivo di sicurezza è difettoso i danneggiati potranno ottenere il risarcimento semplicemente dimostrando "il collegamento causale tra le lesioni subite e l'omesso funzionamento dell'airbag".
La decisione è della III sezione civile che ha confermato la condanna nei confronti di Opel la nota casa automobilistica al risarcimento dei danni in favore dei prossimi congiunti di un uomo deceduto in un incidente stradale.
La morte era stata causata appunto dalla mancata apertura dell'airbag sull'autovettura in cui viaggiava. In precedenza i giudici di merito avevano riconosciuto il diritto al risaricmento ai familiari della vittima per la mancata apertura del dispositivo di sicurezza.
Ricorrendo in Cassazione la casa automobilistica ha contestato un presunto ''vizio di motivazione'' delle decisioni dei precedenti gradi di giudizio. Nel respingere il ricorso Piazza Cavour ha evidenziato che il giudice di merito ''ha spiegato con motivazione congrua e logica priva di vizi giuridici'' che giustamente la casa automobilistica era colpevole in quanto ''l'onere del danneggiato si esaurisce nella dimostrazione di aver subito un danno causalmente connesso con l'uso del prodotto''. In conclusione, hanno evidenziato i supremi giudici, è stato provato ''il collegamento causale tra le lesioni subite dalla vittima e l'omesso funzionamento dell'airbag''.
La Opel, oltre a risarcire i familiari dell'automobilista morto nell'incidente, è stata anche condannata a pagare ai familiari della vittima 5.200 euro di spese processuali.
A quando ora una sentenza che riguarda anche il non corretto funzionamento delle cinture di sicurezza? Ovvero una sentenza che riconosca la facoltà del loro uso?

sabato 2 gennaio 2010

La stangata agli Italiani. A qualcuno piace distrarre l'attenzione dei cittadini verso argomenti diversi.

Ci si lamentava delle troppi leggi ad personam finalmente siamo stati accontentati.
Ecco a Voi una legge che riguarda tutti. Ma proprio tutti anche se non tocca chi viene scarrozzato di qua e di là con l'auto blu.
Trovo davvero vergognosa la "stangata" di questo Governo che con continue richieste di fiducia e con una finanziaria ha stabilito che per fare ricorso al Giudice di Pace per una multa dal 1° Gennaio 2010 dovrà "nuovamente" pagare un contributo unificato anticipatamente. Ma questo Governo si è forse dimenticato che il contributo è stato ritenuto incostituzionale?
E per fortuna che il Governo ha sempre detto e dice che "non mette le mani nelle tasche degli italiani". Questa invece è una vera è propria rapina oltre che in-giustizia.
Ebbene d'ora in avanti in attesa di un sicuro ripensamento o abrogazione della norma (con perdita di tempo e caos) chi intende impugnare una multa ingiusta e vuole ricorrere al Giudice di pace dal 1° gennaio 2010 dovrà pagare un minimo di 38 euro.
In pratica si torna indietro di qualche anno.
A stabirlo è la Finanziaria. In sostanza il pagamento del contributo unificato introdotto dalla legge 115/2002 viene esteso alle cause in materia di lavoro, famiglia e sanzioni amministrative.
Il ricorrente deve versare il contributo unificato minimo di 30 e la marca da 8 per il rimborso forfettario dei diritti di cancelleria: in tutto 38 euro.
Con questa manovra si vorrebbe raggiungere lo scopo di diminuire i contenziosi invece secondo me aumenteranno. Basti pensare che ora aumenteranno i ricorsi dinanzi al Prefetto (art. 203 C.d.s.) con tutte le conseguenze immaginabili e il rischio che non si prenda un solo euro.
Addio allo stato di "diritto".
D'ora in avanti, se non si porrà rimedio, chi ricorrerà in prima persona (in base alla legge 689/81), contro i verbali senza l’ausilio di un avvocato, difficilmente si vedrà rimborsate le spese.
La decisione di questo Governa comporta per l'ennesima volta certamente ad una contrazione del diritto alla difesa (art. 24 cost.) senza contare le serie difficoltà di chi deve difendersi a distanza.
Un consiglio spassionato ai parlamentari: abbassare le multe come hanno fatto negli Stati Uniti d'America, far tornare tutti gli agenti al blocchetto e alla penna e soprattutto alla "contestazione immediata" di una multa pena la sua illegittimità.

venerdì 1 gennaio 2010

Sulle insidie stradali

In materia di insidie stradali la Corte di Cassazione ha ribadito che in linea generale non si può escludere l'applicabilità dell'art. 2051 c.c. nei confronti dell'ente proprietario della strada, se tali beni hanno una notevole estensione tale da non consentire una idonea vigilanza per evitare situazioni di pericolo.
La Corte con la sentenza n. 24529/09, richiamando un orientamento precedentemente espresso (Cass., n. 20427/08) ricorda di aver superato il precedente indirizzo, secondo cui l'art. 2051 c.c., sarebbe "applicabile nei confronti della P.A., per le categorie di beni demaniali quali le strade pubbliche, solamente quando, per le ridotte dimensioni, ne è possibile un efficace controllo ed una costante vigilanza da parte della P.A., tale da impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti".
Il nuovo orientamento è ora nel senso di dover affermare il diverso principio per cui "la responsabilità da cosa in custodia presuppone che il soggetto al quale la si imputa sia in grado di esplicare riguardo alla cosa stessa un potere di sorveglianza, di modificarne lo stato e di escludere che altri vi apporti modifiche". Nella motivazione la Corte chiarisce:
a) che per le strade aperte al traffico l'ente proprietario si trova in questa situazione una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato a causa di una anomalia della strada stessa (e l'onere probatorio di tale dimostrazione grava, palesemente, sul danneggiato);
b) che è comunque configurabile la responsabilità dell'ente pubblico custode, salvo che quest'ultimo non dimostri di non avere potuto far nulla per evitare il danno;
c) che l'ente proprietario non può far nulla quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada ma in maniera improvvisa, atteso che solo quest'ultima (al pari della eventuale colpa esclusiva dello stesso danneggiato in ordine al verificarsi del fatto) integra il caso fortuito previsto dall'art. 2051 c.c., quale scriminante della responsabilità del custode".
In sostanza, conclude la Corte, "agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito è in linea generale è applicabile l'art. 2051 c.c., in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione" Ribaltando la precedente decisione dei giudici di Merito la Corte spiega che l'errore della sentenza impugnata è stao quello appunto di aver escluso "l'applicabilità dell'art. 2051 c.c., in ragione della estensione del bene demaniale".
Per quanto riguarda poi "l'indagine sulla diligenza dell'ente proprietario e sull'adeguatezza del suo intervento" si tratta di profili che rilevano nell'ambito dell'accertamento della responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non in relazione all'art. 2051. "La P.A. per escludere la responsabilità che su di essa fa capo a norma dell'art. 2051 c.c., deve infatti provare che il danno si e verificato per caso fortuito, non ravvisabile come conseguenza della mancata prova da parte del danneggiato dell'esistenza dell'insidia". Chi è stato vittima dell'incidente, infatti, "non deve provare quest'ultima, così come non ha l'onere di provare la condotta commissiva od omissiva del custode, essendo sufficiente che provi l'evento danno ed il nesso di causalità con la cosa".