lunedì 23 febbraio 2009

Interessante sentenza sul tamponamento a catena.

Il tamponamento a catena non sempre è uguale. Infatti, bisogna distinguere quello con i veicoli in movimento da quello con i veicoli fermi in colonna.
Questa è una novità anche per me.
La corte di cassazione, sezione civile, con la sentenza del 3.7.08 n. 18234 resa pubblica di recente ha osservato che il principio di diritto che, nei casi di tamponamento a catena, addebita all'ultimo veicolo della colonna la responsabilità di tutti i tamponamenti dei veicoli precedenti è stato affermato (e può essere condiviso) solo nei casi di tamponamento di veicoli fermi incolonnati (sent. 13 febbraio 1974 n. 358).
Nel tamponamento a catena di veicoli in movimento trova, invece, applicazione, con riguardo ai veicoli intermedi, - e quindi con esclusione del primo e dell'ultima veicolo della colonna – il secondo comma dell'art. 2054 c.c., con conseguente presunzione iuris tantum della colpa in eguale misura a carico di entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicolo tamponato e tamponante, fondata sulla inosservanza della distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante, qualora non sia da loro fornita la prova liberatoria di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno ed ancorché uno solo dei conducenti e/o l'autoveicolo da questi condotto abbia riportato danni (sent. 29.5.03 n. 8646; sent. 10.5.88 n. 3415). Nessuna presunzione legale, dunque, può essere tratta dalla disposizione dell'art. 2054 c.c. per sostenere una responsabilità esclusiva o almeno concorrente del conducente dell'ultimo veicolo tamponante per i danni conseguenti al tamponamento dell'auto che precedeva il penultimo veicolo e che da tale veicolo, e non dall'ultimo veicolo, é stato perciò tamponato.
Sulla base di tali principi ha rigettato il ricorso di un tamponato conducente e del suo passeggero che avevano richiesto il risarcimento dei danni al tamponante in quanto tra l’altro nei giudizi promossi non erano riusciti a dimostrare e a risalire all’esatta modalità del tamponamento.

Testamento biologico: malati sla, ascoltateci prima di fare legge.

Prima di fare una legge su questi argomenti sarebbe più che opportuno ascoltare chi la nutrizione e l'idratazione artificiale le vive tutti i giorni sulla propria pelle”.
Così i malati di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) dell'associazione “Viva la vita”, sul ddl sul testamento biologico approvato come “testo base” in Commissione Sanità del Senato.
Il provvedimento, che approderà tra due settimane nell'Aula di Palazzo Madama, vieta la sospensione di alimentazione e idratazione artificiali.
Ma l'associazione guidata da Mauro Pichezzi sottolinea in una nota che "la nutrizione artificiale rientra a pieno titolo nei trattamenti sanitari che, secondo l'articolo 32 della Costituzione, possono essere scelti per sé, in piena libertà e autonomia di pensiero. La prassi della nutrizione artificiale, che riguarda una larga parte dei malati di Sla, implica necessariamente l'impiego di personale sanitario nella gestione quotidiana, in una funzione per legge non demandabile ai familiari, come ad esempio quella del posizionamento del sondino nasogastrico o addirittura del confezionamento o del cambio della Peg".
Per questo i malati di Sla chiedono di poter dire la loro sul provvedimento, anche se, con una stilettata, ricordano che pur se "perfettamente in grado di esprimere la loro opinione, a molti questa opportunità è negata dalle Regioni, che nonostante gli appositi fondi, tardano a erogare i comunicatori. E' necessario, prima ancora di fare la legge, garantire a tutti i malati il diritto di comunicazione - sottolineano - Come faranno altrimenti a esprimere le loro volontà riguardo ai trattamenti?". "Se comunque, anche contro ogni evidenza, dovesse essere sancita per legge la natura non sanitaria della nutrizione artificiale", secondo quanto previsto dal ddl Calabrò, "ciò avrebbe ulteriori gravi conseguenze che, probabilmente, in pochi hanno preso in considerazione, ma che appaiono evidenti a chi vive quotidianamente con la malattia", fa notare l'associazione. Ad esempio, "come si potranno autorizzare le Asl - chiede Pichezzi - a erogare un trattamento non sanitario? Dovremo dunque pagare la nutrizione artificiale con la quale siamo nutriti ogni giorno allo stesso modo di chi, potendo assaporare e deglutire gli alimenti che sceglie, va al mercato a far la spesa? Non sarà più prescritta da un medico la nutrizione artificiale e nessun camice bianco ne garantirà l'appropriatezza e l'efficacia? Rimaniamo perplessi di fronte a una così grave ed evidente contraddizione. Ancora più perplessi dalla miopia o addirittura dalla cecità con cui gran parte della nostra politica e persino l'opinione pubblica sta affrontando una così complessa questione, per noi vitale. E' davvero sorprendente in questi giorni confusi - conclude il presidente di “Viva la vita” - l'atteggiamento di molte persone di fede cattolica, poco inclini all'umana pietà e alla misericordia. Mentre sull'altro versante accogliamo riflessioni di persone che, più ispirate da valori laici o addirittura atei ma usando il buon senso, considerano l'umanità con la più grande misericordia, al di sopra dell'ideologia e delle sue cieche restrizioni".

domenica 22 febbraio 2009

Il disegno di legge sul caso Eluana Englaro.

Ecco qui il testo del disegno di legge governativo n. 1369 AS in materia di alimentazione e idratazione presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi e dal Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali Sacconi, il 6 febbraio 2009.

Disegno di legge

Art. 1.
1. In attesa dell’approvazione di una completa e organica disciplina legislativa in materia di fine vita, l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi.
2. La presente legge entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

No comment.

venerdì 20 febbraio 2009

La Polizia Municipale è titolare di funzioni di polizia stradale nell’ambito territoriale del proprio Ente.

Interessante la sentenza del giudice di pace di Caserta sullo svolgimento delle funzioni di polizia stradale della Polizia Municipale su strade non comunali.
Un ricorrente si opponeva avverso un verbale di accertamento redatto dalla Polizia Municipale con il quale si contestava la violazione dell'art. 142, comma 8, C.d.S. per aver il conducente del veicolo superato su una strada provinciale (SP 336 km. 23+830) il limite di velocità di 70 km/h. La rilevazione era avvenuta con apparecchio Traffiphot III SR. La violazione non era stata immediatamente contestata.
Il Giudice decideva la causa e indipendentemente dai motivi di opposizione, ritenuti palesemente inconsistenti e pretestuosi, stabiliva che l'opposizione era fondata e quindi andava accolta.
Il giudice di pace in sostanza ha rilevato che “l’art. 12, c. 3, lett. c), C.d.S., sancisce che l’attribuzione ai corpi di Polizia Municipale resta circoscritta nell’ambito del territorio di competenza. Inoltre che “anche l’art. 5, commi 1 e 2, della legge 7.3.1986 n. 65, stabilisce che la Polizia Municipale è titolare di funzioni di polizia stradale nell’ambito territoriale dell’Ente (Comune) di appartenenza”.
E nel caso di specie, l’accertamento della Polizia Municipale è stato effettuato sulla S.P. 336 (Strada Provinciale di proprietà dell’Amministrazione Provinciale di Caserta), quindi il Comune (a cui fa capo la detta Polizia Municipale) non è proprietario, né gestore.
Lo stesso Giudice di pace ha ricordato che è ampiamente noto che la giurisprudenza di merito ha ripetutamente affermato che: “I corpi di Polizia Municipale non possono effettuare accertamenti di violazioni delle norme del C.d.S. su tracciati che non siano di proprietà degli Enti Locali di cui essi siano organi e ciò anche nel caso in cui i tracciati in questione attraversino i territori degli Enti interessati”.
Da ciò l’illegittimità dell’accertamento compiuto dalla Polizia Municipale e l’accoglimento del ricorso.

giovedì 19 febbraio 2009

In Italia il potere economico fa la differenza anche in Tribunale.

La nuova sentenza della Corte di Cassazione che cambia completamente quanto stabilito sinora riguardo le spese di spedizione delle bollette telefoniche proprio non mi va giù.
Potrei fregarmene della questione in quanto la bolletta telefonica non mi riguarda più da un bel pezzo (2000). Però ritengo utile diffondere la notizia.
Infatti, la Corte di cassazione dopo una lunga querelle tra consumatori e Telecom circa l’addebito delle spese di spedizione delle bollette dopo varie sentenze dei giudici di merito a favore del cittadino è giunta ad una interpretazione diversa della legge. E cioè a favore di Telecom.
All'origine dei contrasti vi era l'interpretazione di una norma secondo me molto chiara secondo la quale "le spese di emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità non possono formare oggetto di addebito a qualsiasi titolo".
Sulla base di tale norma i consumatori avevano sempre contestato l'addebito in fattura delle spese di spedizione.
Ebbene la Corte dopo varie sentenze positive ora ha stabilito che deve essere l'utente a pagare.
Invero i Giudici hanno stabilito che "le spese postali di spedizione delle fatture sono da addebitare agli utenti del servizio telefonico" e ciò perché una cosa sono le “spese di emissione” e le “formalità” altra cosa sono i “costi di spedizione postale” del documento.
Io da ignorante in materia mi chiedo: ma nelle “formalità” non rientra logicamente anche la spedizione della fattura? Come al solito si trova sempre il modo quando si vuole di aggirare le leggi.
Secondo la Corte "non rientrano nelle spese di emissione o nelle spese relative ad adempimenti e formalità conseguenti all'emissione della fattura stessa". Ed ancora, quando si parla di spese di emissione si devono intendere "gli oneri relativi all'elaborazione e alla stampa del documento".
Sentenza questa che non condivido assolutamente perché va a discapito degli utenti.
Siamo proprio in Italia. Si non ho dubbi.
Forse la Corte di cassazione non è al corrente che alcune aziende che offrono simili servizi non consentono all’utente di ricevere la fattura on line se non previo accredito della bolletta in banca!
A nulla rileva secondo me la precisazione della Corte di cassazione che le spese pagate dal cliente sono esattamente pari al costo sostenuto da Telecom Italia e pagato a Poste Italiane per inviare la bolletta al domicilio del cliente.
Ma se io cittadino le voglio evitare queste spese?
Se chiedo l’invio della bolletta on line senza obbligo di accredito in banca perché ciò non deve essere consentito?

mercoledì 18 febbraio 2009

Anche un matrimonio di soli sette giorni fa sorgere il diritto all’assegno di mantenimento.

Secondo la Corte di cassazione, sentenza 2721/09, le nozze lampo non cancellano il diritto all’assegno di mantenimento anche se il matrimonio non è stato consumato.
È la prima sezione civile che ha stabilito che ciò che conta non è la durata delle nozze nel caso di specie di soli sette giorni e dell'intimità ma la differenza di reddito tra i due partner. Per tale motivo se dopo la separazione il tenore di vita di lei (ma anche di lui) risulta deteriorato lui (o lei) dovrà comunque mettere mano al portafoglio.
Con questa sentenza ora qualche furba o furbo dopo qualche giorno dal SI può tranquillamente andarsene da casa negando qualsiasi rapporto intimo.
A nulla sono servite le lamentele dell’uomo (povero sciocco) in Cassazione alla quale faceva notare che si trattava di un matrimonio in bianco durato appena una settimana.
La Corte di cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado che aveva disposto per l’erogazione dell'assegno in misura molto inferiore a quanto richiesto dalla moglie equivalente quindi a 250 euro al mese.


Violenza sessuale: secondo l’A.n.m., la scarcerazione del tunisino non è correlata al grave episodio di Bologna.

Intervenendo sulla vicenda del tunisino clandestino 33enne, che ha violentato una ragazza di 15 anni in un parco di Bologna, il presidente dell'associazione nazionale magistrati (A.n.m.) dell’ Emilia-Romagna, Rossella Poggioli, avrebbe dichiarato che “La scarcerazione, disposta dopo l'espiazione in via cautelare di due terzi della pena, non può essere messa in alcun modo in correlazione con il grave, diverso e imprevedibile episodio delittuoso di violenza sessuale, accaduto un mese dopo”.
Secondo il magistrato sarebbe invece necessario prendere atto che “l'attuale assetto normativo non assicura l'effettivo allontanamento dal territorio dello Stato degli stranieri clandestini, in particolare di quelli che vengono denunciati o addirittura condannati per reati, adempimento la cui materiale esecuzione esula dalle competenze della magistratura”. L'A.n.m. chiarisce che il magrebino è stato scarcerato dal Tribunale della Libertà di Bologna sulla base della considerazione che “l'ulteriore protrarsi della custodia, a fronte della sanzione comminata di otto mesi di reclusione, avrebbe di fatto comportato l'espiazione dell'intera pena in fase cautelare in violazione del canone di proporzione indicato dal codice di procedura penale e di generale applicazione”.