giovedì 7 gennaio 2010

Interessante sentenza relativa alle spese da attribuire al nuovo condomino che acquista l'appartamento.

Con sentenza n. 23686 del 9 novembre 2009, la Corte di Cassazione torna a occuparsi di una problematica nota e piuttosto frequente in materia condominiale, inerente alla ripartizione delle spese condominiali fra il condomino che ha venduto il proprio immobile e il soggetto che ha acquistato il detto immobile, divenendo così condomino.
Come noto infatti, ai sensi dell'art. 1123 del Codice Civile, i condomini sono tenuti a sostenere le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, così come per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Trattasi di obbligazioni propter rem (costante la giurisprudenza in tal senso) posto che l'obbligo deriva dalla titolarità del diritto reale sull'immobile (ex multis, Cass. Civ. 6323/2003).
E' altresì noto che l'articolo 63 delle disposizioni di attuazione al Codice Civile prevede (al secondo comma) una solidarietà tra il venditore e l'acquirente, nei confronti del condominio, per il pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente, il tutto nell'ottica di agevolare l'amministrazione condominiale al recupero delle spese condominiali.
Senonchè il legislatore nulla dice in ordine al momento del sorgere del contributo condominiale, ossia se quest'ultimo sorga nel momento dell'autorizzazione accordata all'amministratore a compiere la spesa nell'interesse del condominio, ossia al momento della delibera, o al momento in cui sia sorta effettivamente la necessità della spesa ovvero ne sia seguita la concreta attuazione. Il problema è di non poco rilievo, anche in punto di fatto, se si pone attenzione alla circostanza che è assai frequente, nella gestione condominiale, che intercorra un considerevole lasso di tempo tra il sorgere della necessità della spesa o la concreta esecuzione dei lavori di manutenzione e il momento della delibera di approvazione della spesa medesima.
L'orientamento giurisprudenziale prevalente (cfr. Cass. 23345/08, 12013/04, 6323/03) ritiene che l'obbligo del condomino al pagamento dei contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell'edificio debba ancorarsi al momento in cui sia sorta la necessità della spesa ovvero si sia data concreta attuazione ai lavori di manutenzione, posto che la relativa delibera assembleare di approvazione della spesa ha la funzione di rendere liquido il debito determinando, in sede di ripartizione, la quota a carico di ciascun condomino, ma non costituisce quindi il presupposto dell'esistenza stessa del debito, legata invece, come detto, alla titolarità del diritto reale sul bene. E' agevole altresì osservare che tale prospettazione risponde alla logica di accollare le spese a chi veda effettivamente accresciuto il valore del proprio immobile, circostanza che si verifica evidentemente al momento dell'effettiva esecuzione dei lavori di manutenzione.
Ebbene, i Giudici di legittimità specificano altresì che nel momento in cui il condomino vende il proprio immobile, e rende noto tale trasferimento al condominio, perde il proprio status di condomino, tant'è che non è più legittimato a partecipare direttamente alle assemblee condominiali e può far valere le proprie ragioni in ordine al pagamento dei contributi dovuti (nei limiti di cui al richiamato art. 63 disp. att. c.c., II comma) solo tramite l'acquirente che è subentrato nella posizione di condomino. Ne consegue quindi che se il condomino alienante non è legittimato a partecipare alle assemblee e ad impugnare le delibere condominiali, nei suoi confronti non può essere chiesto ed emesso il decreto ingiuntivo per la riscossione dei contributi, atteso che solanto nei confronti di colui che rivesta la qualità di condomino può trovare applicazione l'art. 63 primo comma (così Cass. Civ., Sez. II, sentenza 9 settembre 2008, n. 23345).
Il caso che ci occupa nasce dall'opposizione di un condomino innanzi al Giudice di Pace avverso un decreto ingiuntivo emesso per contributi dovuti ex art. 63 disp. att. c.c.; a fondamento dell'opposizione il condomino pone appunto la circostanza di aver venduto l'immobile prima della delibera delle spese oggetto del provvedimento d'ingiunzione; il Giudice di Pace rigetta l'opposizione rilevando in particolare che la trascrizione (e quindi la conoscenza nei terzi) della vendita dell'appartamento de quo era avvenuta successivamente alla delibera di approvazione della spesa di cui al decreto e che l'amministratore non è onerato a verificare i registri immobiliari per accertare la titolarità della proprietà. I Giudici di legittimità, nella sentenza esaminata, cassano però la sentenza del Giudice di Pace (con rinvio ad altro G.d.P.), evidenziando ancora una volta come, stante il rapporto di natura reale che lega il condomino alla proprietà dell'immobile, la vendita del bene comporta la perdita della qualità di condomino dell'ex proprietario (non rilevando la trascrizione del relativo atto, avente solo fini di pubblicità dichiarativa) e l'impossibilità di chiedere nei confronti di quest'ultimo il decreto ingiuntivo di cui al richiamato art. 63 disp. att. c.c., non essendo possibile peraltro configurare, per le medesime ragioni, la figura del condomino “apparente” (ossia di un soggetto che, con comportamenti anche univoci, possa ingenerare nell'amministratore il ragionevole convincimento di essere l'effettivo condomino, cfr. Trib. Bari, Sez. III, 25.7.08; Trib. Napoli, 13.3.06).
(Altalex, 3 dicembre 2009. Nota di Claudio Vantaggiato)

Sul condominio.

Assemblea condominiale, presidente, compiti, precisazioni
Cassazione civile , sez. II, sentenza 13.11.2009 n° 24132
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Durante lo svolgimento dell’assemblea condominiale, il presidente, nell’esercizio delle proprie funzioni, può limitare i tempi di intervento dei partecipanti,considerato che lo stesso ha il compito di garantire la verifica della corretta costituzione dell’assemblea, nonchè l’ordinato svolgimento della stessa. (1-3)

(*) Riferimenti normativi: artt. 1129-1135 c.c. e 66 disp. att. c.c..
(1) In tema di assemblea e verifica del quorum, si veda Cassazione civile, sez. II, sentenza 10.08.2009 n° 18192.
(2) In materia di condominio e mancata convocazione, si veda Cassazione civile, sez. II, sentenza 03.11.2008 n° 26408.
(3) Sul condominio si veda il Focus, VIOLA, Il condominio: i recenti orientamenti giurisprudenziali.
Si veda l’ebook (collana Altalex Massimario diretta da Luigi Viola) MOMMO, Le problematiche condominiali alla luce della recente giurisprudenza.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 29 ottobre - 13 novembre 2009, n. 24132

(Presidente Triola - Relatore Giusti)

Svolgimento del processo

1. - Con atto di citazione notificato il 26 ottobre 1995, il condomino T.E. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Teramo il Condominio Abruzzo I di Pineto, in persona dell'amministratore pro tempore, per sentire dichiarare l'illegittimità, la nullità o l'annullabilità dei verbali delle assemblee tenute in seduta straordinaria, ed in seconda convocazione, il 6 agosto 1994 ed il 12 agosto 1995, esponendo un dettagliato elenco di molteplici vizi delle deliberazioni adottate e dei comportamenti tenuti dal presidente delle assemblee o dall'amministratore del condominio.

Il Tribunale adito, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 28 novembre 2000, rigettò integralmente le domande dell'attore, avendo rilevato l'intervenuta decadenza dall'impugnativa dell'assemblea condominiale del 6 agosto 1994 ed avendo peraltro ritenuto che i vizi fatti valere tardivamente erano sostanzialmente coincidenti con quelli, rigettati nel merito, propri della delibera assembleare del 12 agosto 1995.
2. - La Corte d'appello dell'Aquila, con sentenza depositata il 2 novembre 2004, ritenutane l'ammissibilità (atteso che la comunicazione del verbale al condomino E., che non aveva partecipato all'assemblea, era avvenuta irritualmente), ha tuttavia respinto l'impugnazione avverso le deliberazioni dell'assemblea condominiale del 6 agosto 1994, rigettando per il resto l'appello e confermando quindi la pronuncia del Tribunale.

2.1. - Secondo la Corte territoriale, la circostanza che nel verbale dell'assemblea del 6 agosto 1994 sia stato riportato che i condomini erano 47 anziché 45 è del tutto ininfluente ai fini della regolare costituzione della detta assemblea, sia perché il regolamento non esclude che il numero dei partecipanti al condominio possa variare nel tempo, in aumento o in diminuzione, per qualsiasi causa legittima, sia perché nella specie l'aumento dei condomini è derivato dal fatto che gli alloggi n. 11 e n. 12 del fabbricato “D”, insistenti su due piani diversi, ciascuno con doppio ingresso, sono stati trasformati in due mini appartamenti autonomi e sono stati ceduti dall'unico proprietario ad altri acquirenti, con conseguente aumento di due unità del numero dei condomini (da 45 a 47), senza alcuna incidenza significativa sui millesimi di proprietà, semplicemente ripartiti tra le unità ricavate da quella originaria.

In ordine alla eccepita invalidità dell'assemblea del 12 agosto 1995, derivante dalla mancata indicazione nel verbale del numero totale dei partecipanti al condominio, la Corte d'appello ha rilevato che nessuna prescrizione - a pena di nullità o di annullabilità - è posta dal legislatore in ordine alla necessità dell'attestazione nel verbale di assemblea del raggiungimento, per ogni singola riunione, del quorum per numero dei condomini presenti e per valore, espresso in millesimi, dell'edificio, rimanendo peraltro la sussistenza, in concreto, del quorum costitutivo presupposto di validità dell'assemblea e delle deliberazioni in essa adottate. Il dato formale della mancata trascrizione nel verbale dell'assemblea del numero totale dei condomini - ha proseguito la Corte territoriale - di per sé non integra motivo di invalidità dell'assemblea, mentre dell'effettiva sussistenza del vizio avrebbe dovuto fornire la prova l'attore. E siccome dal contenuto del verbale impugnato risulta che alla verifica preliminare erano intervenuti all'assemblea del 12 agosto 1995 21 condomini per complessivi 462,70 millesimi, l'E., presente all'assemblea, a conoscenza del fatto che il numero dei condomini era di 47 componenti, ben avrebbe potuto contestare, già in quella sede, la validità dell'assemblea, oltre che, successivamente, provare i presupposti della contestazione medesima.

Quanto alla denunciata irregolare ed illegittima costituzione delle due assemblee, per non essere stato consentito all'E. di controllare le relative modalità di convocazione, la Corte d'appello ha rilevato, per un verso, che deve presumersi che tutti i condomini abbiano ricevuto comunicazione della convocazione dell'assemblea (sia in prima che in seconda seduta), non essendovi stato reclamo da parte di alcuno degli stessi, consapevoli tutti che il numero totale dei condomini era di 47; e, per l'altro verso, che la mancanza delle sottoscrizioni da parte dei condomini delle tavole annesse al regolamento condominiale non ha alcun riflesso sulla validità del procedimento di costituzione dell'assemblea e neppure sul quorum deliberativo.

In ordine al prospettato vizio di illegittima costituzione dell'assemblea del 12 agosto 1995 per mancanza del quorum costitutivo (che si sarebbe svolta in prima, non già in seconda convocazione, giacché all'assemblea convocata alle otto del mattino dell'11 agosto 1995 era presente soltanto l'E. e neppure l'amministratore), la Corte dell'Aquila, nel confermare il rigetto della doglianza pronunciato dal Tribunale, ha rilevato che, in tema di assemblea condominiale, la sua seconda convocazione è condizionata dall'inutile e negativo esperimento della prima, sia per completa assenza dei condomini, sia per insufficiente partecipazione degli stessi in relazione al numero e al valore delle quote, ed ha quindi ritenuto che l'assemblea del 12 agosto 1995 fu tenuta in seconda convocazione.

Ad avviso della Corte d'appello, la limitazione a 10 minuti, da parte del presidente, della durata di ogni singolo intervento non ha compresso in alcun modo il diritto dell'E. di esprimere il proprio pensiero su ogni punto all'ordine del giorno delle assemblee del 6 agosto 1994 e del 12 agosto 1995.

Quanto, infine, ai motivi di appello sub VI, X, XIII, XIV, XV, XVI e XVIII, la Corte territoriale li ha respinti, condividendo la decisione adottata dal primo giudice.

3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello ha proposto ricorso l'E., con atto notificato il 14 dicembre 2005, sulla base di sei motivi.

Il Condominio intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

1. - Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione all'art. 8 del regolamento condominiale, nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.
Dalla lettura del regolamento condominiale si ricaverebbe che l'interno 11 e l'interno 12 non sono insistenti su piani diversi - come afferma l'impugnata sentenza - ma sono posti entrambi al secondo piano e corrispondono non già ad un'unica unità immobiliare di poi trasformata in due appartamenti autonomi, ma a due unità immobiliari originariamente distinte ed autonome ed aventi eguale consistenza. Il rogito per notaio C. del 7 febbraio 1997, prodotto dal Condominio, dimostrerebbe come in epoca successiva alla approvazione del regolamento condominiale il sottotetto indicato come “appartamento sito al terzo piano”, non considerato ai fini del regolamento stesso per determinazione delle tabelle millesimali, ha acquisito la consistenza di un appartamento. Tale documento smentirebbe l'assunto secondo cui l'aumento del numero dei condomini non comporterebbe alcuna incidenza significativa dei millesimi di proprietà.

1.1. - Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente si duole che il verbale dell'assemblea del 6 agosto 1994 non abbia considerato che l'aumento a 47 del numero dei condomini corrisponde, in realtà, ad un mutamento, in senso ampliativo, dell'edificio “D” e che l'inserimento di essi nell'elenco dei condomini avrebbe dovuto essere preceduto da una modifica del regolamento e delle pertinenti tabelle millesimali, modifica da praticarsi con il consenso unanime dei condomini o con una azione giudiziaria da proporsi in contraddittorio con tutti i condomini.

È esatta la premessa in diritto da cui muove il ricorrente: che cioè, per un verso, in base all'art. 69 disp. att. cod. civ., i valori proporzionali dei vari piani o porzioni di piano possono essere riveduti o modificati, anche nell'interesse di un solo condomino, quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano; e, per l'altro verso, che le tabelle millesimali allegate ad un regolamento condominiale contrattuale non possono essere modificate se non con il consenso di tutti i condomini (che, sotto il profilo dell'impegno e del vincolo, equivale all'accordo iniziale) ovvero per atto dell'autorità giudiziaria ex art. 69 cit., il quale contempla i presupposti, e non già il quorum di validità, della relativa deliberazione.

Sennonché, nella specie non si censura che l'assemblea abbia proceduto, a maggioranza, ad adottare nuove tabelle millesimali a modifica di quelle allegate al regolamento contrattuale, ma semplicemente ci si duole che il relativo verbale abbia erroneamente attestato in 47, anziché in 45, il numero totale dei partecipanti al condominio.

Sotto questo profilo, il ricorrente non solo non precisa come tale (pur in ipotesi erronea) attestazione del verbale abbia influito sulla validità della costituzione dell'assemblea e delle deliberazioni in essa assunte, ma neppure indica se il proprietario dell'unità immobiliare non ancora contemplato nelle tabelle in questione abbia partecipato all'assemblea e (in ipotesi affermativa) se abbia inciso sulla formazione della maggioranza.

2. - Con il secondo mezzo, il ricorrente censura violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione all'art. 8 del regolamento condominiale, nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Erroneamente non sarebbe stata dichiarata l'invalidità del verbale dell'assemblea del 12 agosto 1995, nonostante in esso manchi l'indicazione del numero totale dei condomini.

2.1. - Il motivo è infondato.

Il verbale dell'assemblea condominiale rappresenta la descrizione di quanto è avvenuto in una determinata riunione e da esso devono risultare tutte le condizioni di validità della deliberazione, senza incertezze o dubbi, non essendo consentito fare ricorso a presunzioni per colmarne le lacune.

Il verbale deve pertanto contenere l'elenco nominativo dei partecipanti intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, perché tale individuazione è indispensabile per la verifica della esistenza dei quorum prescritti dall'art. 1136 cod. civ.
In questo senso è orientata la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato: (a) che non è conforme alla disciplina indicata omettere di riprodurre nel verbale l'indicazione nominativa dei singoli condomini favorevoli e contrari e le loro quote di partecipazione al condominio, limitandosi a prendere atto del risultato della votazione, in concreto espresso con la locuzione “l'assemblea, a maggioranza, ha deliberato” (Sez. II, 19 ottobre 1998, n. 10329; Sez. II, 29 gennaio 1999, n. 810); (b) che la mancata verbalizzazione del numero dei condomini votanti a favore o contro la delibera approvata, oltre che dei millesimi da ciascuno di essi rappresentati, invalida la delibera stessa, impedendo il controllo sulla sussistenza di una delle maggioranze richieste dall'art. 1136 cod. civ., né potendo essere attribuita efficacia sanante alla mancata contestazione, in sede di assemblea, della inesistenza di tale quorum da parte del condomino dissenziente, a carico del quale non è stabilito, al riguardo, alcun onere a pena di decadenza (Sez. II, 22 gennaio 2000, n. 697); (c) che è annullabile la delibera il cui verbale contenga omissioni relative alla individuazione dei singoli condomini assenzienti o dissenzienti o al valore delle rispettive quote (Sez. Un., 7 marzo 2005, n. 4806).

Ma poiché il verbale è narrazione dei fatti nei quali si concreta la storicità di un'azione, esso deve attestare o “fotografare” quanto avviene in assemblea; pertanto, non incide sulla validità del verbale la mancata indicazione, in esso, del totale dei partecipanti al condominio, se a tale ricognizione e rilevazione non ha proceduto l'assemblea stessa, nel corso dei suoi lavori, giacché questa incompletezza non diminuisce la possibilità di controllo aliunde della regolarità del procedimento e delle deliberazioni assunte.

3. - Il terzo motivo è rubricato “violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione agli artt. 10 e 11 del regolamento condominiale”, nonché “omessa o insufficiente motivazione su più punti decisivi della controversia”.

Ad avviso del ricorrente, dal fatto che da parte dei condomini presenti all'assemblea non siano stati sollevati reclami in ordine alla convocazione di tutti i condomini non può inferirsi, alla stregua dei canoni della normalità causale e della ragionevole probabilità, che tutti i condomini fossero stati regolarmente convocati. La sentenza impugnata non avrebbe considerato che, nell'atto di appello, era stato lamentato non solo che non erano state poste a disposizione dell'attore le convocazioni dei condomini, ma anche che il presidente aveva omesso di dare atto a verbale della regolarità della convocazione dell'assemblea, in violazione, oltre che dell'art. 1136 cod. civ., dell'art. 10 del regolamento condominiale. Nel verbale il presidente ha dichiarato validamente costituita l'assemblea: ma un conto sarebbe la dichiarazione di validità dell'assemblea, altro la regolarità della sua convocazione, il cui accertamento manca del tutto.

3.1. - Il motivo è fondato, nei termini di seguito precisati.

L'onere di provare che tutti i condomini sono stati tempestivamente convocati incombe al condominio, non potendosi addossare al condomino che deduca l'invalidità dell'assemblea la prova negativa dell'inosservanza di tale obbligo (Cass., Sez. II, 25 marzo 1999, n. 2837). E sebbene tale prova possa essere desunta anche da presunzioni, non si può attribuire al comportamento dei condomini partecipanti ad un'assemblea non totalitaria, i quali nulla abbiano eccepito al riguardo, valore di prova presuntiva univoca della ricezione dell'avviso di convocazione anche da parte di quei condomini che a tale seduta non abbiano preso parte.

4. - Con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ.) il ricorrente sostiene che l'assemblea del 12 agosto 1995, sebbene tenutasi in seconda convocazione, doveva considerarsi tenuta in prima convocazione, con la necessità del quorum deliberativo di cui al secondo comma dell'art. 1136, dato che l'assemblea di prima convocazione era andata completamente deserta. Il caso di completa diserzione dell'assemblea - si afferma - non può essere equiparato a quello di assemblea che non si è potuta tenere per insufficiente partecipazione dei condomini. Quando, invece, non si verifichi il fenomeno fattuale della riunione di due o più condomini nel giorno, luogo ed ora della convocazione, l'assemblea tenuta alla data successiva indicata nell'avviso come di seconda convocazione è, in realtà, di prima convocazione e soggiace alle condizioni di validità di costituzione e di deliberazione previste nell'art. 1136, primo comma, cod. civ..

4.1. - La doglianza è priva di fondamento.

In tema di assemblea condominiale, la sua seconda convocazione è condizionata dall'inutile e negativo esperimento della prima, sia per completa assenza dei condomini, sia per insufficiente partecipazione degli stessi in relazione al numero ed al valore delle quote. La verifica di tale condizione va espletata nella seconda convocazione, sulla base delle informazioni orali rese dall'amministratore, il cui controllo può essere svolto dagli stessi condomini, che o sono stati assenti alla prima convocazione, o, essendo stati presenti, sono in grado di contestare tali informazioni (Cass., Sez. II, 24 aprile 1996, n. 3862).

5. - Il quinto mezzo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1136 e 1137 cod. civ., in relazione all'art. 67 disp. att.) lamenta che la Corte d'appello abbia respinto la censura di invalidità delle deliberazioni, nonostante il presidente dell'assemblea abbia - in mancanza di ogni e qualsiasi norma attributiva del relativo potere - limitato la durata degli interventi dei condomini a dieci minuti. Il punto non è quello di stabilire se la limitazione degli interventi a 10 minuti sia tale da comprimere, in concreto, il diritto di ciascun condomino ad intervenire in assemblea, ma se il potere di introdurre limiti temporali agli interventi dei condomini sia nella disponibilità del presidente ovvero se esso debba trovare la propria fonte in una disposizione regolamentare (che nel caso manca) ovvero in una deliberazione della stessa assemblea.

5.1. - Il motivo non è fondato.

Il presidente dell'assemblea condominiale - tenuto conto del fatto che la sua funzione consiste nel garantire l'ordinato svolgimento della riunione - ha il potere di dirigere la discussione, assicurando, da un lato, la possibilità a tutti i partecipanti di esprimere, nel corso del dibattito, la loro opinione su argomenti indicati nell'avviso di convocazione e curando, dall'altro, che gli interventi siano contenuti entro limiti ragionevoli. Ne consegue che il presidente, pur in mancanza di una espressa disposizione del regolamento condominiale che lo abiliti in tal senso, può stabilire la durata di ciascun intervento, purché la relativa misura sia tale da assicurare ad ogni condomino la possibilità di esprimere le proprie ragioni su tutti i punti in discussione.

6. - L'ultimo motivo prospetta “nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ.”. La motivazione contenuta nella sentenza impugnata per rispondere al VI, al X, al XIII, al XIV, al XV, al XVI e al XVIII motivo di appello, sarebbe una tipica motivazione per relationem. La Corte territoriale si sarebbe limitata a dichiarare la propria condivisione alle soluzioni delle questioni controverse fornite dalla sentenza di primo grado “nonostante le argomentazioni dell'appellante” che, però, non sono minimamente esaminate. Risulterebbero pertanto non individuabili né le ragioni per cui sono state condivise le decisioni del primo giudice né le ragioni per cui sono stati disattesi i motivi di impugnazione.

6.1. - La doglianza è meritevole di accoglimento.

Quanto ai motivi di appello sub VI, X, XIII, XIV, XV, XVI e XVIII, la Corte territoriale li ha respinti sulla base della seguente argomentazione: è condivisa, “nonostante le argomentazioni dell'appellante”, “la decisione adottata dal primo giudice sui rilievi mossi, con l'atto introduttivo del giudizio, in ordine alla delega rilasciata dal condomino Dante Castagnetta, alla valida partecipazione all'assemblea del 12 agosto 1995 della moglie di Lucio K., alla pretesa violazione dell'art. 10 del regolamento condominiale, alla validità del voto (unico) espresso dai coniugi C. - M., alla determinazione dei millesimi della condomina S., alla sufficiente individuazione del condomino attraverso la trascrizione nel verbale di assemblea del solo cognome, non essendovi casi di omonimia, alla declaratoria di inammissibilità dei rilievi inerenti scelte di merito dell'assemblea condominiale, non sindacabili - come tali - dall'autorità giudiziaria”.

La laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consente in alcun modo di ritenere che all'affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice d'appello sia pervenuto attraverso l'esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., Sez. III, 2 febbraio 2006, n. 2268; Cass., Sez. III, 11 giugno 2008, n. 15483).

7. - La sentenza è cassata in relazione alle censure accolte.

La causa deve essere rinviata ad una diversa Corte dr appello, che si designa nella Corte d'appello di Roma.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.


P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo ed il sesto motivo di ricorso, rigettati il primo, il secondo, il quarto ed il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Roma.

Se l'airbag non funziona la vittima in caso di sinistro soprattutto mortale deve essere risarcita dal costruttore.

Condivido pienamente quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 2010/09 la quale ha affermato che in caso di incidente, se l'airbag non funziona, chi lo ha prodotto deve risarcire il danno alla vittima o ai parenti della vittima.
Molti potrebbero pensare ad un caso raro ma cosi non è perchè proprio alcuni giorni fa un avvocato del posto è stato vittima di un brutto tamponamento e guarda anche in questa occasione gli airbag non si sono aperti. Ma non solo a detta dello stesso avvocato nella circostanza anche la cintura di sicurezza non ne voleva sapere di sganciarsi dalla sua sede con tutti i rischi possibili e immaginabili qualora l'autovettura avesse preso fuoco.
Ebbene ora finalmente la Corte di Cassazione ha stabilito che se il dispositivo di sicurezza è difettoso i danneggiati potranno ottenere il risarcimento semplicemente dimostrando "il collegamento causale tra le lesioni subite e l'omesso funzionamento dell'airbag".
La decisione è della III sezione civile che ha confermato la condanna nei confronti di Opel la nota casa automobilistica al risarcimento dei danni in favore dei prossimi congiunti di un uomo deceduto in un incidente stradale.
La morte era stata causata appunto dalla mancata apertura dell'airbag sull'autovettura in cui viaggiava. In precedenza i giudici di merito avevano riconosciuto il diritto al risaricmento ai familiari della vittima per la mancata apertura del dispositivo di sicurezza.
Ricorrendo in Cassazione la casa automobilistica ha contestato un presunto ''vizio di motivazione'' delle decisioni dei precedenti gradi di giudizio. Nel respingere il ricorso Piazza Cavour ha evidenziato che il giudice di merito ''ha spiegato con motivazione congrua e logica priva di vizi giuridici'' che giustamente la casa automobilistica era colpevole in quanto ''l'onere del danneggiato si esaurisce nella dimostrazione di aver subito un danno causalmente connesso con l'uso del prodotto''. In conclusione, hanno evidenziato i supremi giudici, è stato provato ''il collegamento causale tra le lesioni subite dalla vittima e l'omesso funzionamento dell'airbag''.
La Opel, oltre a risarcire i familiari dell'automobilista morto nell'incidente, è stata anche condannata a pagare ai familiari della vittima 5.200 euro di spese processuali.
A quando ora una sentenza che riguarda anche il non corretto funzionamento delle cinture di sicurezza? Ovvero una sentenza che riconosca la facoltà del loro uso?

sabato 2 gennaio 2010

La stangata agli Italiani. A qualcuno piace distrarre l'attenzione dei cittadini verso argomenti diversi.

Ci si lamentava delle troppi leggi ad personam finalmente siamo stati accontentati.
Ecco a Voi una legge che riguarda tutti. Ma proprio tutti anche se non tocca chi viene scarrozzato di qua e di là con l'auto blu.
Trovo davvero vergognosa la "stangata" di questo Governo che con continue richieste di fiducia e con una finanziaria ha stabilito che per fare ricorso al Giudice di Pace per una multa dal 1° Gennaio 2010 dovrà "nuovamente" pagare un contributo unificato anticipatamente. Ma questo Governo si è forse dimenticato che il contributo è stato ritenuto incostituzionale?
E per fortuna che il Governo ha sempre detto e dice che "non mette le mani nelle tasche degli italiani". Questa invece è una vera è propria rapina oltre che in-giustizia.
Ebbene d'ora in avanti in attesa di un sicuro ripensamento o abrogazione della norma (con perdita di tempo e caos) chi intende impugnare una multa ingiusta e vuole ricorrere al Giudice di pace dal 1° gennaio 2010 dovrà pagare un minimo di 38 euro.
In pratica si torna indietro di qualche anno.
A stabirlo è la Finanziaria. In sostanza il pagamento del contributo unificato introdotto dalla legge 115/2002 viene esteso alle cause in materia di lavoro, famiglia e sanzioni amministrative.
Il ricorrente deve versare il contributo unificato minimo di 30 e la marca da 8 per il rimborso forfettario dei diritti di cancelleria: in tutto 38 euro.
Con questa manovra si vorrebbe raggiungere lo scopo di diminuire i contenziosi invece secondo me aumenteranno. Basti pensare che ora aumenteranno i ricorsi dinanzi al Prefetto (art. 203 C.d.s.) con tutte le conseguenze immaginabili e il rischio che non si prenda un solo euro.
Addio allo stato di "diritto".
D'ora in avanti, se non si porrà rimedio, chi ricorrerà in prima persona (in base alla legge 689/81), contro i verbali senza l’ausilio di un avvocato, difficilmente si vedrà rimborsate le spese.
La decisione di questo Governa comporta per l'ennesima volta certamente ad una contrazione del diritto alla difesa (art. 24 cost.) senza contare le serie difficoltà di chi deve difendersi a distanza.
Un consiglio spassionato ai parlamentari: abbassare le multe come hanno fatto negli Stati Uniti d'America, far tornare tutti gli agenti al blocchetto e alla penna e soprattutto alla "contestazione immediata" di una multa pena la sua illegittimità.

venerdì 1 gennaio 2010

Sulle insidie stradali

In materia di insidie stradali la Corte di Cassazione ha ribadito che in linea generale non si può escludere l'applicabilità dell'art. 2051 c.c. nei confronti dell'ente proprietario della strada, se tali beni hanno una notevole estensione tale da non consentire una idonea vigilanza per evitare situazioni di pericolo.
La Corte con la sentenza n. 24529/09, richiamando un orientamento precedentemente espresso (Cass., n. 20427/08) ricorda di aver superato il precedente indirizzo, secondo cui l'art. 2051 c.c., sarebbe "applicabile nei confronti della P.A., per le categorie di beni demaniali quali le strade pubbliche, solamente quando, per le ridotte dimensioni, ne è possibile un efficace controllo ed una costante vigilanza da parte della P.A., tale da impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti".
Il nuovo orientamento è ora nel senso di dover affermare il diverso principio per cui "la responsabilità da cosa in custodia presuppone che il soggetto al quale la si imputa sia in grado di esplicare riguardo alla cosa stessa un potere di sorveglianza, di modificarne lo stato e di escludere che altri vi apporti modifiche". Nella motivazione la Corte chiarisce:
a) che per le strade aperte al traffico l'ente proprietario si trova in questa situazione una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato a causa di una anomalia della strada stessa (e l'onere probatorio di tale dimostrazione grava, palesemente, sul danneggiato);
b) che è comunque configurabile la responsabilità dell'ente pubblico custode, salvo che quest'ultimo non dimostri di non avere potuto far nulla per evitare il danno;
c) che l'ente proprietario non può far nulla quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada ma in maniera improvvisa, atteso che solo quest'ultima (al pari della eventuale colpa esclusiva dello stesso danneggiato in ordine al verificarsi del fatto) integra il caso fortuito previsto dall'art. 2051 c.c., quale scriminante della responsabilità del custode".
In sostanza, conclude la Corte, "agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito è in linea generale è applicabile l'art. 2051 c.c., in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione" Ribaltando la precedente decisione dei giudici di Merito la Corte spiega che l'errore della sentenza impugnata è stao quello appunto di aver escluso "l'applicabilità dell'art. 2051 c.c., in ragione della estensione del bene demaniale".
Per quanto riguarda poi "l'indagine sulla diligenza dell'ente proprietario e sull'adeguatezza del suo intervento" si tratta di profili che rilevano nell'ambito dell'accertamento della responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non in relazione all'art. 2051. "La P.A. per escludere la responsabilità che su di essa fa capo a norma dell'art. 2051 c.c., deve infatti provare che il danno si e verificato per caso fortuito, non ravvisabile come conseguenza della mancata prova da parte del danneggiato dell'esistenza dell'insidia". Chi è stato vittima dell'incidente, infatti, "non deve provare quest'ultima, così come non ha l'onere di provare la condotta commissiva od omissiva del custode, essendo sufficiente che provi l'evento danno ed il nesso di causalità con la cosa".

giovedì 31 dicembre 2009

Basta con le sentenze scritte a mano.

Sono pienamente d'accordo con la bacchettata che i Giudici della Corte di Cassazione hanno rivolto ad alcuni dei loro colleghi che ancora oggi scrivono le sentenze a mano e che risultano ostilli all'utilizzo delle nuove tecnologie.
La decisione la condivido in quanto alcune volte le sentenze scritte a mano risultano incomprensibili. Decisione che io estenderei anche ai verbali di udienza.
La Corte di Cassazione ha chiarito che non è vietato scrivere a mano una sentenza ma tuttavia la scelta di redigere le sentenze dimostra "attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale" e mette "in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportata condanna, pretende di conoscere agilmente le ragioni''.
Gli ermellini considerano insomma "obsoleto" il giudice che continua a scrivere di suo pugno.
L'invito della Corte a "modernizzarsi" è nato in relazione all'esame di una sentenza relativa a due persone condannate per concorso in tentata rapina impropria. Ricorrendo in Cassazione i due imputati hanno cercato di annullare la sentenza che i Giudici della Corte di Appello avevano scritto a mano e con una grafia poco leggibile.
Esaminando il caso la Suprema Corte ha rilevato che "la lettura del testo non era impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione al di là di ogni ragionevole dubbio".
Ma dopo questa considerazione hanno dato una tirata di orecchie ai colleghi della Corte territoriale che continuano a scrivere le sentenze con la penna. Si tratta di una modalità obsoleta - rimarca la Cassazione - segno, appunto, "di attenzione ridotta'' anche nei confronti degli imputati.

sabato 26 dicembre 2009

Avvertimento a tutti gli amanti.

L'avvertimento arriva dalla Corte di Cassazione secondo la quale una relazione clandestina deve restare tale perchè se si minaccia di rivelarla si rischia una condanna per il reato di estorsione.
D'accordissimo con questa decisione.
Una simile minaccia, infatti, spiegano gli Ermellini, determina quella condizione di assoggettamento della volontà che costituisce il presupposto di tale reato.
E a nulla rileva che "il fatto minacciato possa assumere, in sè, risalto soltanto sul piano dei costumi e delle regole sociali".
La vicenda presa in esame dal Palazzaccio riguarda il caso di un uomo di 33 anni che aveva minacciato di rivelare alla madre della sua amante la loro relazione. Dopo la minaccia il caso finiva nelle aule di giustizia e ne scaturiva una doppia codanna in primo e in secondo grado per tentata violenza privata e per estorsione a due anni, 4 mesi e 20 giorni di reclusione con l'aggiunta di una multa di 320 euro.
In Cassazione l'uomo si è difeso sostenendo che il fatto di minacciare di togliere dalla clandestinità una relazione segreta poteva solo incidere sul "piano morale" ma non certo avere rilevanza sotto il profilo penale. Il ricorso è stato respinto dalla suprema Corte che nella parte motiva della sentenza sottolinea come "in tema di estorsione, la minaccia diviene 'contra ius' quando, pur non essendo antigiuridico il male prospettato, si faccia uso di mezzi giuridici legittimi per ottenere scopi non consentiti o risultati non dovuti, come quando la minaccia sia fatta con il proposito di coartare la volontà di altri per soddisfare scopi non consentiti o risultati non dovuti, per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia".