mercoledì 3 febbraio 2010

La Corte di Cassazione avverte tutti gli automobilisti sui rischi che si corrono ad ospitare a bordo della propria auto un passeggero che non vuole me

Secondo gli Ermellini, con la sentenza che non condivido, bisogna far scendere i passeggeri perchè in caso di incidente mortale scatta la condanna per omicidio colposo.
Come più volte ho sostenuto esistono anche situazioni in cui proprio le cinture di sicurezza hanno portato alla morte di un passeggero o di un conducente e allora come la mettiamo?
La cassazzione non si dovrebbe forse fermare al solo invito di allacciare le cinture di sicurezza e lasciare al conducente la eventuale responsabilità civile e penale per eventuali danni ai passeggeri?
Ora la Corte è invece categorica: bisogna pretendere che i trasportati indossino le cinture di sicurezza e a fronte di persone ostinate, bisogna farle scendere senza esitazione.
Ma insomma se uno si mette alla guida ed è consapevole che deve andare piano rispettare il codice della strada e la segnaletica stradale laddove esistente non basta? A maggior ragione se il conducente come si sostiene nella sentenza n. 3585/10 è "titolare di una posizione di garanzia" e deve quindi "prevedere e prevenire le altrui imprudenze e avventatezze".
Vi è mai capitato di vedere un conducente di una autovettura che dopo un incidente tentava invano di salvare i propri passeggeri rimasti intrappolati e schiacciati nell'auto?
Io sono del parere che bisogna lasciare la facoltà alle persone di allacciare o meno le cinture.
Salvo appunto ad assumersi le proprie responsabilità che non vuole dire che bisogna obbligarli a morire anche per aver tenuto allacciato le cinture.
A nulla rileva infatti che nel caso di specie a seguito di un incidente il trasportato perdeva la vita e ciò è costato all'automobilista una condanna per il resto previsto e punito dall'art. 589 del codice penale. Evidentemente non rispettava le altre norme del codice della strada.

Mantenimento dei figli: anche i nonni sono obbligati a concorrere.

La disposizione dell’art. 148 c.c., nel testo modificato dalla riforma del diritto di famiglia (L. 151/1975), sancisce l’obbligo primario di mantenimento dei figli minori da parte di entrambi i genitori e quello sussidiario degli ascendenti “quando i genitori non hanno mezzi sufficienti”.

Nel caso di specie, posto di recente all’attenzione del Tribunale civile di Genova, l’iniziativa giudiziaria era stata assunta dalla madre naturale di una minore in via diretta nei confronti del padre (in costante pregressa inadempienza) ed in via sussidiaria nei confronti degli ascendenti, cui era seguita emissione di decreto di ingiunzione di pagamento di somme di denaro a favore della minore stessa gravanti in parte sul padre (per ciò che si era dichiarato disponibile a pagare) ed in parte sugli avi paterni. L’avo paterno, lamentandosi della eccessività della quota di mantenimento posta a suo carico, promuoveva quindi giudizio di opposizione al decreto esecutivo emesso nei suoi confronti, il che ha fornito occasione al Tribunale, in tal sede, per chiarire che cosa debba intendersi per “sussidiarietà dell’obbligazione degli ascendenti” ai sensi dell’art. 148 c.c..

La Curia genovese (G.U. dott.ssa Monica Parentini, sentenza 28/10/2009), ha infatti precisato che il riferimento legislativo relativo al non avere i genitori mezzi sufficienti al mantenimento, non vada inteso “in maniera assoluta, perchè l’insufficienza dei mezzi ammette anche un’integrazione parziale e non la sostituzione di una categoria all’altra. Detta obbligazione non dipende dall’oggettiva insufficienza dei redditi effettivi dei genitori, ma dalla loro capacità di provvedere al mantenimento della minore; come è stato rilevato dalla giurisprudenza di merito (Trib. Napoli 15.02.1977) non vale ad esonerare gli ascendenti da tale obbligo il comportamento dei genitori che di fatto non provvedano in maniera adeguata al mantenimento dei figli, essendo appunto la norma in concreto finalizzata a garantire l’adeguato mantenimento della prole”.

L’obbligazione degli ascendenti può ben quindi concorrere con quella dei genitori ed essere con loro ripartita in base alle rispettive sostanze: non è necessario, in altri termini, che i genitori non provvedano affatto al mantenimento della prole per far maturare il loro obbligo ex art. 148 c.c., ma è sufficiente che consti un apporto contributivo insufficiente del nucleo genitoriale, perché gli ascendenti debbano essere chiamati al loro intervento economico in via quindi sussidiaria e complementare.

Inoltre il bene oggetto di tutela immediata è il minore, sicchè l’obbligazione ex art. 148 c.c. scatta in presenza di oggettiva inadeguatezza dell’apporto da parte dei genitori (quando non possano o non vogliano) indipendentemente in questa fase dalla accertamento di eventuali responsabilità degli stessi lasciato a diverso ambito di indagine, essendo in questa sede primario assicurare al minore il suo diritto al mantenimento, in modo celere, concreto e fattivo (per spunti in merito, anche Tribunale Taranto, 04/02/2005 in Foro It. 2005, I, 1599).

Si evince, inoltre, dalla partecipazione al giudizio dell’ascendente anche materna, che l’obbligazione ex art. 148 c.c. va letta in ampio raggio, potendosi estendere gli obblighi a tutti gli ascendenti del minore, così come già annotato da pregressa giurisprudenza di merito (Tribunale di Reggio Calabria, 11.05.2007) non avendo l’obbligazione in parola carattere fideiussoria ma ancorquì precipuo fine di tutela del minore.

Il tutto, va valutato, sancisce infine la sentenza genovese, alla luce della situazione economica singolarmente e complessivamente considerata al fine di assicurare ad ogni componente obbligato uno sforzo contributivo che assicuri, in situazioni di particolare disagio, il diritto di ciascuno di sopportare le primarie esigenze di vita.
Non condivido del tutto questa sentenza nella parte in cui stabilisce che debbano essere i nonni a mantenere i nipoti.

Il giudice dell’opposizione è quindi pervenuto, tramite analitica disamina e comparazione delle sostanze reddituali, a prospettare un riparto dell’obbligo di contribuzione che nel complesso soddisfa, previamente valutatane l’entità, il concreto diritto della minore ad un suo adeguato mantenimento.

domenica 24 gennaio 2010

Un condomino vittima di soprusi da parte del vicino può anche improvvisarsi sceriffo e risolversi il caso da solo.

Sono pienamente d'accordo con quanto stabilito con la sentenza depositata in questi giorni, dalla VI sezione penale della Corte (sentenza 2548/10) la quale occupandosi di una lite condominiale nata per questioni di parcheggio ha affermato che "la difesa privata di un proprio diritto di possesso, anche con il ricorso all'uso di una violenza reale, è consentito a chi subisca un fatto vanificante tale diritto (spoglio), allorchè l'autodifesa segua senza soluzione temporale nell'attualità e nell'immediatezza l'azione lesiva" subita.
Insomma ci si può difendere ma occorre farlo subito. Sulla scorta di tale principio la Corte ha annullato una condanna per esercizio arbitrario delle proprie ragioni che i giudici di merito avevano inflitto ad un condomino che trovandosi nell'impossibilità di accedere al parcheggio condominiale per via di un lucchetto (apposto sul cancello d'ingresso) e di un paletto (che il suo rivale aveva apposto per delimitare il suo posto), aveva deciso di risolvere la cosa a modo suo rimuovendo il paletto con le sue mani e senza interessare il Tribunale. Inizialmente il condomino che si era fatto giustizia da solo era stato condannato in primo e in secondo grado per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni punito dall'art. 392 c.p. La Cassazione al contrario ha ribaltato il verdetto riconoscendo che l'imputato rimuovendo paletti e lucchetto aveva esercitato una "legittima difesa" a fronte "a una ingiusta aggressione al libero esercizio del proprio diritto di transito in uno spazio condominiale comune".

Lecito viaggiare di notte con l'uso contemporaneo di anabbaglianti e fendinebbia anche se non ne ricorrono i presupposti.

Ha stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n.534/10 con la quale chiarisce che nessuna norma di legge stabilisce quali debbano essere le condizioni a rendere necessario questo tipo di utilizzo.
Ne consegue secondo la Corte che una sanzione eventualmente irrogata deve ritenersi illegittima.
In precedenza il Giudice di pace aveva ritenuto che l'uso dei fendinebnbia fosse consentito solo di giorno e in presenza di determinate condizioni metereologiche. La suprema Corte richiamando alla lettura dell'art. 153 del codice della strada fa notare che la norma non stabilisce uno specifico divieto di utilizzo contemporaneo di fendinebbia e fari anabbaglianti in orario notturno.

sabato 23 gennaio 2010

Dico no a questo tipo di "Processo breve".

Il processo breve? Un delitto pro delinquenti danarosi.
Per essere una Giusta Legge ... si doveva prevedere la sua applicazione ai reati commessi successivamente alla sua approvazione e pubblicazione ...
Ma si sa che in Italia ci sono solo Cattive Leggi... e i poveracci pagano... sempre e comunque...

martedì 19 gennaio 2010

Niente decurtazione dei punti se quando si parla al cellulare non vi è la contestazione immediata.

Chi viene sorpreso a parlare con il cellulare mentre è al volante, senza fare uso dell'auricolare, non può subire la decurtazione di punti dalla patente se non c'è stata la contestazione immediata.
Lo ha stabilito la sentenza n. 232/10 della Corte di Cassazione.
In sostanza per applicare la sanzione accessoria della decurtazione dei punti al proprietario dell'auto occorre avere certezza sul fatto che fosse proprio lui alla guida del mezzo.
Del resto - ricorda la Corte - la Corte Costituzionale (sent. n. 27/05) aveva dichiarato l'illegittimità dell'articolo 126 bis del codice della strada nella parte in cui assoggettava a tale sanzione il proprietario dell'auto in caso di mancata identificazione del conducente o di omessa indicazione dello stesso da parte del proprietario.
Finalmente un pò di giustizia.

giovedì 7 gennaio 2010

Interessante sentenza relativa alle spese da attribuire al nuovo condomino che acquista l'appartamento.

Con sentenza n. 23686 del 9 novembre 2009, la Corte di Cassazione torna a occuparsi di una problematica nota e piuttosto frequente in materia condominiale, inerente alla ripartizione delle spese condominiali fra il condomino che ha venduto il proprio immobile e il soggetto che ha acquistato il detto immobile, divenendo così condomino.
Come noto infatti, ai sensi dell'art. 1123 del Codice Civile, i condomini sono tenuti a sostenere le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, così come per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Trattasi di obbligazioni propter rem (costante la giurisprudenza in tal senso) posto che l'obbligo deriva dalla titolarità del diritto reale sull'immobile (ex multis, Cass. Civ. 6323/2003).
E' altresì noto che l'articolo 63 delle disposizioni di attuazione al Codice Civile prevede (al secondo comma) una solidarietà tra il venditore e l'acquirente, nei confronti del condominio, per il pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente, il tutto nell'ottica di agevolare l'amministrazione condominiale al recupero delle spese condominiali.
Senonchè il legislatore nulla dice in ordine al momento del sorgere del contributo condominiale, ossia se quest'ultimo sorga nel momento dell'autorizzazione accordata all'amministratore a compiere la spesa nell'interesse del condominio, ossia al momento della delibera, o al momento in cui sia sorta effettivamente la necessità della spesa ovvero ne sia seguita la concreta attuazione. Il problema è di non poco rilievo, anche in punto di fatto, se si pone attenzione alla circostanza che è assai frequente, nella gestione condominiale, che intercorra un considerevole lasso di tempo tra il sorgere della necessità della spesa o la concreta esecuzione dei lavori di manutenzione e il momento della delibera di approvazione della spesa medesima.
L'orientamento giurisprudenziale prevalente (cfr. Cass. 23345/08, 12013/04, 6323/03) ritiene che l'obbligo del condomino al pagamento dei contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell'edificio debba ancorarsi al momento in cui sia sorta la necessità della spesa ovvero si sia data concreta attuazione ai lavori di manutenzione, posto che la relativa delibera assembleare di approvazione della spesa ha la funzione di rendere liquido il debito determinando, in sede di ripartizione, la quota a carico di ciascun condomino, ma non costituisce quindi il presupposto dell'esistenza stessa del debito, legata invece, come detto, alla titolarità del diritto reale sul bene. E' agevole altresì osservare che tale prospettazione risponde alla logica di accollare le spese a chi veda effettivamente accresciuto il valore del proprio immobile, circostanza che si verifica evidentemente al momento dell'effettiva esecuzione dei lavori di manutenzione.
Ebbene, i Giudici di legittimità specificano altresì che nel momento in cui il condomino vende il proprio immobile, e rende noto tale trasferimento al condominio, perde il proprio status di condomino, tant'è che non è più legittimato a partecipare direttamente alle assemblee condominiali e può far valere le proprie ragioni in ordine al pagamento dei contributi dovuti (nei limiti di cui al richiamato art. 63 disp. att. c.c., II comma) solo tramite l'acquirente che è subentrato nella posizione di condomino. Ne consegue quindi che se il condomino alienante non è legittimato a partecipare alle assemblee e ad impugnare le delibere condominiali, nei suoi confronti non può essere chiesto ed emesso il decreto ingiuntivo per la riscossione dei contributi, atteso che solanto nei confronti di colui che rivesta la qualità di condomino può trovare applicazione l'art. 63 primo comma (così Cass. Civ., Sez. II, sentenza 9 settembre 2008, n. 23345).
Il caso che ci occupa nasce dall'opposizione di un condomino innanzi al Giudice di Pace avverso un decreto ingiuntivo emesso per contributi dovuti ex art. 63 disp. att. c.c.; a fondamento dell'opposizione il condomino pone appunto la circostanza di aver venduto l'immobile prima della delibera delle spese oggetto del provvedimento d'ingiunzione; il Giudice di Pace rigetta l'opposizione rilevando in particolare che la trascrizione (e quindi la conoscenza nei terzi) della vendita dell'appartamento de quo era avvenuta successivamente alla delibera di approvazione della spesa di cui al decreto e che l'amministratore non è onerato a verificare i registri immobiliari per accertare la titolarità della proprietà. I Giudici di legittimità, nella sentenza esaminata, cassano però la sentenza del Giudice di Pace (con rinvio ad altro G.d.P.), evidenziando ancora una volta come, stante il rapporto di natura reale che lega il condomino alla proprietà dell'immobile, la vendita del bene comporta la perdita della qualità di condomino dell'ex proprietario (non rilevando la trascrizione del relativo atto, avente solo fini di pubblicità dichiarativa) e l'impossibilità di chiedere nei confronti di quest'ultimo il decreto ingiuntivo di cui al richiamato art. 63 disp. att. c.c., non essendo possibile peraltro configurare, per le medesime ragioni, la figura del condomino “apparente” (ossia di un soggetto che, con comportamenti anche univoci, possa ingenerare nell'amministratore il ragionevole convincimento di essere l'effettivo condomino, cfr. Trib. Bari, Sez. III, 25.7.08; Trib. Napoli, 13.3.06).
(Altalex, 3 dicembre 2009. Nota di Claudio Vantaggiato)