domenica 14 febbraio 2010

Non spetta al giudice disporre la rateizzazione delle multe

Condivido la decisione della Corte di cassazione secondo la quale il beneficio di rateizzare la multa può essere accordato solo a chi è povero.
La decisione è della II sez. civile (sent. n. 26932/09).
Con la stessa la Corte ha ricordato come il ricorso alle rateizzazioni deve essere limitato a chi si trova in "condizioni realmente disagiate". Nella parte motiva gli Ermellni ricordano peraltro che a decidere sulle rate è il Comune che ha inflitto la sanzione per violazione del codice della strada e queste non devono mai essere inferiori a 15 euro al mese per un totale massimo di trenta rate.
La Corte ha così accolto il ricorso contro una decisione del Giudice di Pace che aveva concesso ad un automobilista, in debito per diverse contravvenzioni, la possibilita' di rateizzarle, pagando 10 euro al mese. Piazza Cavour ha ricordato che non è certo il Giudice a poter stabilire le rate mettendo in chiaro peraltro che "il potere di suddivisione in rate è legato all'esistenza di condizioni economiche disagiate dell'obbligato e non può essere stabilito secondo equita'". L'automobilista aveva ricevuto diverse contravvenzioni per aver circolato in corsie riservate ad altri veicoli ed aveva collezionato multe per un totale di ben 2.777 euro. Il giudice di Pace aveva così deciso di autorizzare la rateizzazione in 278 rate da 10 euro al mese. Il Comune naturalmente si è rivolto alla Suprema Corte che accogliendo il ricorso ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la rateizzazione del pagamento ed ha ricordato che "la rateizzazione" è appannaggio esclusivo del Comune e che "non puo' essere inferiore a 15 euro" così come non puo' superare le trenta rate. Ora l'automobilista dovrà pagare oltre alle multe anche ulteriori 400 euro per rifondere il Comune delle spese processuali.

domenica 7 febbraio 2010

Sentenza o barzelletta?

Non lo so se definire quanto ho letto una sentenza o una barzelletta.
Secondo la Corte di cassazione il giornalista che sottrae temporanemente un fascicolo dal Tribunale per dimostrare l'inefficienza dei sistemi di sicurezza non commette reato.
Quello che normalmente dovrebbe considerarsi un comportamento sanzionabile a norma dell'art. 351 del codice penale (Violazione della pubblica custodia di cose), non è applicabile se il fatto è compiuto con estrema rapidità.
La decisione è della VI sezione penale della Corte (sentenza n. 4699/10) che nella motivazione chiarisce come non può configurare reato la condotta del giornalista che per scrivere un pezzo di cronaca, si introduca in un Tribunale e prelevi atti dagli armadietti per poi ricollocarli al loro posto dopo averli consultati.
Si tratta secondo la Corte di una condotta che data la sua "assoluta immediatezza" (apertura , asportazione, uscita e rientro nel palazzo) non può ricondursi alla nozione di sottrazione. Mancherebbe in sostanza l'elemento oggettivo del reato giacché, spiega la Corte, nella fattispecie non vi sarebbe stata neppure quella "temporanea rimozione" che richiede quanto meno un apprezzabile mantenimento del bene nell'esclusiva disponibilità di chi lo sottrae. Nel caso esaminato dalla Corte una giornalista aveva scritto un articolo su un quotidiano locale dando conto del suo gesto per denunciare i disservizi della giustizia. Un fotografo aveva anche documentato l'accaduto.
A Voi il giudizio.

sabato 6 febbraio 2010

In Italia bisogna affidarsi al Giudice di turno.

La II sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 4804/10 ha stabilito che il Giudice penale ha l'obbligo di esaminare l'istanza di rinvio eventualmente presentata dal difensore perchè impegnato in altri uffici giudiziari.
Se il magistrato omette di pronunciarsi su tale istanza limitandosi a nominare in sua vece un difensore d'ufficio e proseguendo il dibattimento, detemina un difetto di assistenza dell'imputato che comporta la nullità assoluta della sentenza. Nella parte motiva la Corte richiama anche alcuni precedenti decisioni come la n. 2875/04 e 2850/99.
Insomma in Italia bisogna affidarsi al Giudice di turno. La Cassazione con questa sentenza si contraddice sul punto con altre sentenze simili. Insomma è nullità assoluta o relativa?
La Giustizia non è uguale per tutti.

Senza parole.

Secondo la non condivisa sentenza della Corte di cassazione il portatore di handicap che sosta all’interno delle aree assoggettate a tariffa deve sostenere il costo del parcheggio, pur munito dello speciale contrassegno esposto sul parabrezza del veicolo: il principio (ma quale principio esistono ancora?) è stato affermato dalla Corte di Cassazione – Sezione 2^ Civile, che ha respinto il ricorso presentato dal disabile, già risultato soccombente nell’ambito della procedura di opposizione alla sanzione amministrativa promossa avanti al Giudice di Pace di Palermo.
I Giudici di Piazza Cavour evidenziano nella parte motiva che l’esonero dal pagamento del ticket non è previsto da alcuna norma, quantunque venga teorizzato all’interno di circolari della Pubblica Amministrazione, prive del rango di norme di diritto.
Oltretutto, aggiungono gli Ermellini, non ha fondamento invocare a sostegno di un’interpretazione ipoteticamente difforme l’esigenza di favorire la mobilità delle persone disabili; “dalla gratuità, anziché onerosità come per gli altri utenti, della sosta deriva, infatti, un vantaggio meramente economico, non un vantaggio in termini di mobilità”.
Talché, anche nell’indisponibilità degli apposti spazi riservati alla categoria dei disabili, mancanti o già occupati da altri portatori di handicap, costoro non possono fruire della sosta gratuita negli stalli a pagamento.
La pronuncia, recante il n° 21271 e depositata il 5 ottobre 2009, fa riflettere su come i Giudici di questo Stato giudicano i casi .... che riguardano le persone comuni... per non andare oltre.

giovedì 4 febbraio 2010

Tar Lazio: le amministrazioni pubbliche hanno l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la salute dei propri dipendenti.

Con la sentenza depositata il 29 gennaio 2010, il Tar Lazio ha condannato il Ministero della Giustizia al risarcimento del danno non patrimoniale (4.000,00 euro complessivi) per non aver adottato le misure di sicurezza idonee a preservare l’integrità fisica e la salute dei dipendenti.
Secondo la ricostruzione della vicenda, un agente scelto del Corpo della polizia penitenziaria aveva adito il Tar Lazio per l’accertamento della mancata adozione da parte del Ministero della Giustizia delle misure di sicurezza delle condizioni di lavoro presso la Casa Circondariale presso cui prestava servizio (il riferimento specifico era al fumo passivo derivante da tabacco).
L’agente chiedeva pertanto la condanna dell’amministrazione all’adozione delle misure specifiche per la tutela della salute e al risarcimento del danno non patrimoniale. Il tribunale amministrativo, in seguito ad un excursus relativo al quadro normativo vigente all’epoca dei fatti (legge n.584/1975 sul divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico), dopo aver citato la sentenza della Consulta n.399 del 20 dicembre 1996 e dopo le varie testimonianze (da cui emergeva che la prevenzione del divieto di fumo non era stata affiancata da altre attività se non dalla semplice apposizione di cartelli di divieto), ha accertato che gravava sul Ministero intimato l’obbligo di “adottare misure organizzative idonee a prevenire il rischio per i dipendenti derivante dall’esposizione a fumo passivo” e ha inoltre ritenuto fondata la domanda, (proposta sulla base dell’art.2087 sull’obbligo contrattuale di sicurezza sul lavoro) di risarcimento del danno non patrimoniale identificato dal ricorrente nella “violazione della propria serenità e tranquillità”.
A sostegno dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, il Tribunale ha infine citato l’ultimo orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione secondo cui il danno non patrimoniale si identifica con “il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica”. La tutela di tale danno è riconosciuta non solo nei casi espressamente previsti dalla legge ma anche “in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, (…) ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione”.

mercoledì 3 febbraio 2010

La Corte di Cassazione avverte tutti gli automobilisti sui rischi che si corrono ad ospitare a bordo della propria auto un passeggero che non vuole me

Secondo gli Ermellini, con la sentenza che non condivido, bisogna far scendere i passeggeri perchè in caso di incidente mortale scatta la condanna per omicidio colposo.
Come più volte ho sostenuto esistono anche situazioni in cui proprio le cinture di sicurezza hanno portato alla morte di un passeggero o di un conducente e allora come la mettiamo?
La cassazzione non si dovrebbe forse fermare al solo invito di allacciare le cinture di sicurezza e lasciare al conducente la eventuale responsabilità civile e penale per eventuali danni ai passeggeri?
Ora la Corte è invece categorica: bisogna pretendere che i trasportati indossino le cinture di sicurezza e a fronte di persone ostinate, bisogna farle scendere senza esitazione.
Ma insomma se uno si mette alla guida ed è consapevole che deve andare piano rispettare il codice della strada e la segnaletica stradale laddove esistente non basta? A maggior ragione se il conducente come si sostiene nella sentenza n. 3585/10 è "titolare di una posizione di garanzia" e deve quindi "prevedere e prevenire le altrui imprudenze e avventatezze".
Vi è mai capitato di vedere un conducente di una autovettura che dopo un incidente tentava invano di salvare i propri passeggeri rimasti intrappolati e schiacciati nell'auto?
Io sono del parere che bisogna lasciare la facoltà alle persone di allacciare o meno le cinture.
Salvo appunto ad assumersi le proprie responsabilità che non vuole dire che bisogna obbligarli a morire anche per aver tenuto allacciato le cinture.
A nulla rileva infatti che nel caso di specie a seguito di un incidente il trasportato perdeva la vita e ciò è costato all'automobilista una condanna per il resto previsto e punito dall'art. 589 del codice penale. Evidentemente non rispettava le altre norme del codice della strada.

Mantenimento dei figli: anche i nonni sono obbligati a concorrere.

La disposizione dell’art. 148 c.c., nel testo modificato dalla riforma del diritto di famiglia (L. 151/1975), sancisce l’obbligo primario di mantenimento dei figli minori da parte di entrambi i genitori e quello sussidiario degli ascendenti “quando i genitori non hanno mezzi sufficienti”.

Nel caso di specie, posto di recente all’attenzione del Tribunale civile di Genova, l’iniziativa giudiziaria era stata assunta dalla madre naturale di una minore in via diretta nei confronti del padre (in costante pregressa inadempienza) ed in via sussidiaria nei confronti degli ascendenti, cui era seguita emissione di decreto di ingiunzione di pagamento di somme di denaro a favore della minore stessa gravanti in parte sul padre (per ciò che si era dichiarato disponibile a pagare) ed in parte sugli avi paterni. L’avo paterno, lamentandosi della eccessività della quota di mantenimento posta a suo carico, promuoveva quindi giudizio di opposizione al decreto esecutivo emesso nei suoi confronti, il che ha fornito occasione al Tribunale, in tal sede, per chiarire che cosa debba intendersi per “sussidiarietà dell’obbligazione degli ascendenti” ai sensi dell’art. 148 c.c..

La Curia genovese (G.U. dott.ssa Monica Parentini, sentenza 28/10/2009), ha infatti precisato che il riferimento legislativo relativo al non avere i genitori mezzi sufficienti al mantenimento, non vada inteso “in maniera assoluta, perchè l’insufficienza dei mezzi ammette anche un’integrazione parziale e non la sostituzione di una categoria all’altra. Detta obbligazione non dipende dall’oggettiva insufficienza dei redditi effettivi dei genitori, ma dalla loro capacità di provvedere al mantenimento della minore; come è stato rilevato dalla giurisprudenza di merito (Trib. Napoli 15.02.1977) non vale ad esonerare gli ascendenti da tale obbligo il comportamento dei genitori che di fatto non provvedano in maniera adeguata al mantenimento dei figli, essendo appunto la norma in concreto finalizzata a garantire l’adeguato mantenimento della prole”.

L’obbligazione degli ascendenti può ben quindi concorrere con quella dei genitori ed essere con loro ripartita in base alle rispettive sostanze: non è necessario, in altri termini, che i genitori non provvedano affatto al mantenimento della prole per far maturare il loro obbligo ex art. 148 c.c., ma è sufficiente che consti un apporto contributivo insufficiente del nucleo genitoriale, perché gli ascendenti debbano essere chiamati al loro intervento economico in via quindi sussidiaria e complementare.

Inoltre il bene oggetto di tutela immediata è il minore, sicchè l’obbligazione ex art. 148 c.c. scatta in presenza di oggettiva inadeguatezza dell’apporto da parte dei genitori (quando non possano o non vogliano) indipendentemente in questa fase dalla accertamento di eventuali responsabilità degli stessi lasciato a diverso ambito di indagine, essendo in questa sede primario assicurare al minore il suo diritto al mantenimento, in modo celere, concreto e fattivo (per spunti in merito, anche Tribunale Taranto, 04/02/2005 in Foro It. 2005, I, 1599).

Si evince, inoltre, dalla partecipazione al giudizio dell’ascendente anche materna, che l’obbligazione ex art. 148 c.c. va letta in ampio raggio, potendosi estendere gli obblighi a tutti gli ascendenti del minore, così come già annotato da pregressa giurisprudenza di merito (Tribunale di Reggio Calabria, 11.05.2007) non avendo l’obbligazione in parola carattere fideiussoria ma ancorquì precipuo fine di tutela del minore.

Il tutto, va valutato, sancisce infine la sentenza genovese, alla luce della situazione economica singolarmente e complessivamente considerata al fine di assicurare ad ogni componente obbligato uno sforzo contributivo che assicuri, in situazioni di particolare disagio, il diritto di ciascuno di sopportare le primarie esigenze di vita.
Non condivido del tutto questa sentenza nella parte in cui stabilisce che debbano essere i nonni a mantenere i nipoti.

Il giudice dell’opposizione è quindi pervenuto, tramite analitica disamina e comparazione delle sostanze reddituali, a prospettare un riparto dell’obbligo di contribuzione che nel complesso soddisfa, previamente valutatane l’entità, il concreto diritto della minore ad un suo adeguato mantenimento.