giovedì 30 aprile 2009

Interessante sentenza sul Telelaser.

Interessante la sentenza del giudice di pace Avv. Antonio Sindaco di Galatina (Lecce) secondo il quale lo stato di necessità esclude la responsabilità ex articolo 4, Legge 689/81.
La sentenza è del 20 settembre 2008.
Il GdP di Galatina che affrontando anche le ulteriori censure ha enucleato importanti principi in materia di circolazione stradale e rilevazione delle infrazioni a mezzo di apparecchiature elettroniche (in particolare tramite telelaser).
Per il Giudice salentino, infatti, il verbale impugnato, elevato per eccesso di velocità, va annullato essendo stata prodotta in atti idonea documentazione medica rilasciata dall'Ospedale di Scorrano, in cui si legge che il giorno della contestazione di cui al verbale impugnato il ricorrente si recava presso il Pronto Soccorso in quanto affetto da un dolore toracico e da crisi ipertensiva.
Per il GdP il verbale impugnato è da considerarsi comunque nullo in quanto sulla strada percorsa dal ricorrente non vi era alcuna segnalazione preventiva del sistema di rilevamento della velocità utillizzato dagli Agenti accertatori. Secondo il Giudice, infatti, le caratteristiche e le specifiche capacità del telelaser richiedono che questo sia utilizzato solo in costanza di un idoneo segnale di avvertimento per gli utenti della strada.
Inoltre, per il GdP il verbale è da annullare per un ulteriore motivo: non vi è prova in atti che il Telelaser utilizzato sia stato regolarmente tarato secondo le normative europee e nazionali di riferimento, trattandosi di apparecchiatura rientrante nella categoria delle strumentazioni a "metrologia legale", dall'utilizzazione delle quali derivano concreti effetti giuridici.
Sempre per il giudicante non e stato provato e dimostrato quindi, che tale strumentazione sia stata sottoposta a periodiche tarature e controlli presso centri opportunamente predisposti e in linea con la normativa europea, i cosiddetti centri SIT (i quali sono depositari delle grandezze metrologiche).
Pertanto, ha concluso il GdP, la totale assenza di un certificato di taratura rilasciato da un apposito centro rende inidonea e assolutamente inattendibile la fondatezza del rilevamento effettuato con apparecchiatura utilizzata, che non può dipendere solo da un generico autocontrollo, contrario ad ogni principio di certezza del diritto.
(Altalx, 30 gennaio 2009. Nota di Alfredo Matranga).

Padre assente? Ai figli va comunque il suo cognome.

Con la sentenza 4819/09 la Corte di cassazione ha stabilito che anche se un padre è “assente” e non adempie ai suoi doveri naturali (anche dopo la sentenza di primo grado non aveva versato nessuna somma per il suo mantenimento) ai figli spetta sempre e in ogni caso il cognome paterno.

Io non condivido assolutamente questa sentenza.
Portare un cognome del proprio genitore oltre ad essere previsto dalla legge deve essere un onore.....
Pertanto è vero che ai figli spetta il cognome del padre ... ma quando questi non lo merita?
In una situazione del genere perchè non riconoscere anche al figlio il diritto (al contrario) di disconoscere il proprio padre e suo relativo cognome?

La Corte di Cassazione quindi ha convalidato la decisione dei giudici di merito e imposto alla minorenne di continuare a conservare il cognome del padre.
Fossi io il suo legale in considerazione che in alcuni paesi europei si prevede persino il doppio cognome proporrei ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo.

domenica 26 aprile 2009

Licenziata perchè in malattia navigava in facebook.

Mi sembra un pò bizzarra la decisione di una azienda nei confronti di una dipendente in malattia "beccata" mentre usa Facebook.
Infatti una 31enne di Basilea ha perso il posto perchè secondo l'azienda: «Chi è in grado di navigare in Rete, può anche lavorare»...
Vero ma una azienda può impedire al dipendente che sta nel proprio domicilio seppur in malattia di utilizzare il proprio pc anche solo per leggere alcuni messaggi su internet?
Io credo di no a prescindere da un emicrania che potrebbe anche essere momentanea.
Ebbene una dipendente di un nota compagnia di assicurazioni svizzera Nationale Suisse si è data malata per un giorno per una forte emicrania.
Tuttavia, non si comprende bene ma il datore di lavoro ha scoperto che la donna navigava su Facebook. Quindi, anche per la stupidità della donna, che ben poteva sostenere che a navigare era una altra persona , il licenziamento in tronco.
La motivazione dell'azienda: "Chi è in grado di navigare in Rete, può anche lavorare".
Certamente ma un conto stare cinque minuti sul pc un conto è stare 7 ore.
Fosse per me impugnerei questo licenziamento.
Non sarà certamente un datore di lavoro a dire cosa o non cosa deve fare un dipendente in malattia al proprio domicilio.
La decisione di questa azienda è sicuramente censurabile poichè non permetterebbe ad un dipendente in malattia di stare a letto con il proprio computer poggiato sulle ginocchia per cinque minuti. A rendere noto il fatto è un giornale elvetico online "20 Minuten".
E in Italia come sarebbe accolta una decisione del genere?

Attenzione a piantare in asso il coniuge senza preavviso.

Una sentenza questa che mi sento di condividere infatti c'è modo e modo di scaricare un partner. E questo a scanso di equivoci vale sia per la donna che per l'uomo.
Ed oggi si rischia di dover anche pagare i danni dell'abbandono. Parola di Cassazione. La Corte infatti ha riconosciuto legittima la condanna al risarcimento del danno inflitta ad una donna che aveva mollato improvvisamente il marito.
La donna, secondo la sentenza n. 14981/09 della VI sezione penale della Corte di cassazione, aveva preso carta e penna e aveva scritto al marito che partiva con la figlia e un amico per una breve vacanza.
Alla faccia...
Solo al ritorno, messa alle strette dal marito, aveva esplicitato la sua decisione di lasciarlo. Processata per violazione degli obblighi di assistenza familiare la moglie era stata condannata (in due gradi di giudizio) a risarcire il marito per i danni patiti con l'abbandono.
Contro la decisione la donna si è rivolta alla Cassazione, rappresentando che il marito era stato avvertito tramite lettera e che, solo successivamente, era maturata in lei la convinzione dell'abbandono dato il "regime di vita e di rapporto intollerabile imposto dal marito".
Nulla da fare però: gli Emellini, respingendo il ricorso hanno evidenziato che "alla stregua del tenore della lettera e del comportamento immediatamente susseguente di [...] non possono nutrirsi dubbi sulla sua volontà di abbandonare in modo improvviso e definitivo il domicilio domestico trattenendo per di più con sè la bambina, con evidente lesione dei doveri coniugali".
Sono state poi considerate ininfluenti le scuse addotte dalla donna in relazione al "limitato bagaglio che, alla luce della lettera, doveva servire solo a evitare probabili problemi nella realizzazione concreta dell'abbandono" e il "rientro successivo a casa, dovuto - scrive la Cassazione - essenzialmente alla reazione del marito per i problemi relativi alla figlia".
Ineccepibile... poteva trovare una altra scusa.

sabato 25 aprile 2009

In motorino senza casco? Paga sempre mamma e papà comunque.

La sentenza della Corte di cassazione n. 9556/09 sul mancato uso del casco da parte del minorenne non stupisce più di tanto. Secondo i giudici se i figli sono indisciplinati e non indossano il casco quando vanno con il motorino è tutta colpa della cattiva educazione che è stata loro impartita dai genitori e, in caso di incidente, mamma e papà dovranno pagare i danni.
Ma è sempre colpa dei genitori anche una educazione la danno regolarmente?
La Corte di Cassazione ha respinto infatti il ricorso di due genitori condannati a risarcire il danno prodotto da un ragazzo che aveva avuto un incidente con la sua vespa su cui trasportava un'altro ragazzo. I giudici di merito avevano già condannato i genitori del ragazzo (ancora minorenne) a risarcire i famigliari del trasportato per i danni morali patiti. La decisione è stata ora confermata da Piazza Cavour che ha sottolineato come "lo stato di immaturità, il temperamento e la cattiva educazione del minore possono desumersi anche dalle modalità del fatto ed è pacifico che il figlio non indossava il casco. Secondo la Corte in base all'articolo 2048 C.c. i genitori di un minorenne hanno "doveri di natura inderogabile finalizzati a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di costante opera educativa, onde realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento consapevolmente illecito". Secondo la Corte, data una certa dimestichezza con i veicoli" che il ragazzo aveva nonostante fosse minorenne, è evidente che il fatto che non indossasse il casco fosse da attribuirsi alla "cattiva educazione" impartita dai genitori. A nulla rileva, chiarisce ancora la Corte rispondendo ad uno dei rilievi avanzati dalla difesa, il fatto che il ragazzo abbia avuto due esperienze lavorative. Questo, scrive Piazza Cavour, "non è sufficiente a fornire la prova liberatoria della presunzione della culpa in educando". Insomma, il fatto che il ragazzo non avesse il casco dimostra che non "era stata impartita al figlio un'educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini, alla sua personalita'".
Mah... non condivido del tutto questa sentenza nella parte in cui la Corte di cassazione dà del maleducato ad un ragazzo per il semplice fatto di non indossare un casco. In quanto un conto è condannare al risarcimento di un danno un conto è dare del maleducato.
Ma poi una altra cosa che mi lascia perplesso in questa sentenza è: ma quei genitori che hanno chiesto il risarcimento per il mancato uso del casco del proprio figlio l'educazione .... loro gliel'hanno insegnata?

giovedì 23 aprile 2009

L'ignoranza non ha limiti. In malattia e un lavoratore va in moto.

Proprio senza limiti l'ignoranza e la strafottenza di certa gente...
Infatti un lavoratore rimasto a casa per malattia pretendeva di concedersi di fare un giro ... pure in motocicletta.... Ora la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9474/09 ha sancito un principio e cioè che l'utilizzo della propria moto denota (giustamente) scarsa attenzione alla propria salute e ai relativi doveri di cura ritardandone la guarigione.
Ed è sulla scorta di tale principio la Corte che ha accolto il ricorso di una clinica privata che si era opposta alla reintegrazione nel lavoro di un dipendente che era stato sorpreso, durante un'assenza per malattia, a recarsi al mare con la sua moto.
In quel giorno tra l'altro il lavoratore, dopo essersi fatto il bagno al mare, aveva raggiunto un'altra azienda in cui svolgeva una seconda attività in qualità di direttore sanitario.
I giudici della Corte non hanno contestato il fatto che il lavoratore svolgesse un secondo lavoro, avendo rilevato che il suo primo impiego era comunque in part-time piuttosto ha rilevato che il lavoratore nonostante la sua malattia (artrosi all'anca) si fosse messo alla guida di una moto di grossa cilindrata prima per andare in spiaggia e poi per recarsi alla seconda attività lavorativa.
Secondo la Cassazione il lavoratore ha mostrato scarsa attenzione alla propria salute e ciò è dimostrazione del fatto che lo stato di malattia non era assoluto e non impediva comunque l'espletamento di una attività ludica o lavorativa. In precedenza la corte d'appello aveva revocato il licenziamento del medico sostenendo che l'aver guidato una moto e l'essersi recato al mare per fare i bagni, non erano attività in contrasto con gli obblighi di cure e riposo in modo da compromettere ulteriormente la guarigione. Contro tale decisione è stata la Clinica a rivolgersi alla Suprema Corte evidenziando che l'uso della motocicletta durante la malattia per andare al mare non era certo atteggiamento propriamente tipico di un malato.
Accogliendo il ricorso la Corte ha ricordato che "l'espletamento di altra attività lavorativa ed extralavorativa da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buonafede nell'adempimento dell'obbligazione, posto che il fatto di guidare una moto di grossa cilindrata, di recarsi in spiaggia e di prestare una seconda attività lavorativa sono indici di una scarsa attenzione ai doveri di cura e ritardano la guarigione".
Sarà ora la Corte d'Appello di Napoli a dover riesaminare il caso.
Ringrazio l'autore Roberto Cataldi.

lunedì 20 aprile 2009

Una ragazza costretta a dimettersi dal datore di lavoro. Ma verrà risarcita.

Una ragazza, protagonista di un video a luci rosse è stata costretta alle dimissioni dai suoi datori di lavoro. lMa il giudice le ha dato ragione.
All'inzio la ragazza durante le ore di lavoro guardava film "hot" sul posto di lavoro e solo questo portava in effetti al licenziamento.
Ma tutto questo non è bastato alla ragazza che ha pensato al grande salto passando direttamente dalla scrivania al set a luci rosse.
Si tratta di una commessa di un negozio di Grosseto che ha girato un filmino porno ed è stata costretta alle dimissioni dai suoi datori di lavoro (i quali non si sa bene come abbiano scoperto il fatto...).
Bhè non è poi tanto difficile venire a conoscenze di queste cose da amici oparenti che conoscono la ragazza soprattutto se il filmino a luci rosse viene diffuso in loco.
Ebbene i datori di lavoro l'anno licenziato per questo motivo ed ora la dovranno risarcire.
La commessa, infatti, non si e' data per vinta e ha intentato una causa ai titolari dell'esercizio commerciale. Il giudice, alla fine, ha dato ragione alla donna, condannando gli ex datori di lavoro della commessa al pagamento di una multa, in attesa che venga quantificato il risarcimento danni, che sarà fissato attraverso un'altra causa (evvai... altro giro ... altra causa...).
I titolari del negozio, dopo aver 'riconosciuto' la ragazza, l'avrebbero costretta alle dimissioni per tutelare il buon nome dell'esercizio commerciale. Ma evidentemente non immaginavano di incontrare un giudice decisamente meno 'bacchettone' di loro.