venerdì 20 marzo 2009

La cassazione chiede la massima attenzione alle confidenze dei bambini.

Interessante questa sentenza della Corte di cassazione, III Sez., la n. 8809/09), che invita i giudici di merito alla massima attenzione nella valutazione delle accuse dei bambini verso gli adulti in quanto altamente malleabili. I giudici invitano dunque i giudici a prestare attenzione nel valutare soprattutto quei fatti che “che narrano fatti dei quali non dovrebbero avere esperienza e che non possono essere il risultato di una loro fantasia”.
Ma chi è il più adatto a valutare o considerare attendibili le accuse e le dichiarazioni dei bambini ?
Secondo i giudici di piazza Cavour i bambini “non mentono consapevolmente ma diventano altamente malleabili in presenza di suggestioni etero indotte e se interrogati con domande inducenti tendono a conformarsi alle aspettative del loro interlocutore”.
Ma questo non vale anche per gli adulti? Certo forse questa conferma la potrebbero dare quanti in vita loro hanno affrontato almeno un vero e proprio interrogatorio.
La Corte, nel caso specifico ha accolto il ricorso di un padre separato che nei precedenti gradi di giudizio era stato condannato a tre anni di reclusione per una presunta violenza sessuale nei confronti della figlia di 7 anni.
La Corte ha annotato nella sentenza che il vissuto emotivo della bambina non aveva dato “segnali della violenza subita” né dimostrato “trauma da abuso”.
Bhà sarà certamente vero quello che sostiene la Corte di cassazione che “la conclusione dei giudici – di merito - non si sostanzia in un argomento logico inattaccabile ma lascia spazio a perplessità restando fermi dati incontrastati quali l'assenza di segni riconducibili ad un evento traumatico o il fatto che i racconti della bambina fossero espressivi di un disagio da essa elaborato, più, per i ripetuti litigi dei genitori e per l'abbandono del padre, che, non per gli abusi sessuali da lei descritti" ma io non condivido ugualmente questa sentenza nella parte in cui stabilisce che la bimba non aveva dato “segnali della violenza subita” né dimostrato “trauma da abuso”.


mercoledì 18 marzo 2009

Avvocato dice il falso per difendere cliente? Per lui scattano le manette se rende "testimonianza" falsa.

La sesta sezione penale della Corte di cassazione ha stabilito nella sentenza del 4.3.09 n. 9866, che è falsa testimonianza la deposizione menzognera dell’avvocato resa per difendere il suo cliente su questioni apprese per ragione della propria professione, anche se non è stato preventivamente avvisato dal giudice che si sarebbe potuto astenere.

La Corte ha precisato, infatti, che ai sensi dell’art. 199, co.2, mentre la testimonianza resa dal prossimo congiunto dell’imputato è nulla se il giudice non avverte il teste che si potrebbe astenere, perché “i prossimi congiunti dell’imputato possono ignorare l’esistenza della possibilità di astenersi e trovarsi così in conflitto con i sentimenti di solidarietà familiare che potrebbero indurli a dichiarazioni menzognere”, al contrario, il professionista, e cioè “i professionisti elencati dall’art.200 c.p.p. sono, invece, caratterizzati da competenza tecnica professionale, che implica la conoscenza dei doveri deontologici e giuridici connessi all’abilitazione e all’esercizio della professione”.

Quindi, continua la sentenza, “è rimessa alla loro esclusiva la scelta, ovviamente da comunicare al giudice, di deporre o meno su quanto hanno conosciuto per ragioni del ministero, ufficio o professione (…) fermo rimanendo l’obbligo di dire la verità in caso di deposizione”. Secondo quanto si apprende dalla vicenda, il Gup di Milano aveva adottato, alla fine dell’udienza preliminare, una sentenza di non luogo a procedere, nei confronti di un avvocato per il reato di falsa testimonianza (art. 372 c.p.) perché commesso in circostanza della causa di non punibilità di cui all’art. 384 del codice penale. (“…Nei casi previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi … avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione”).

Ma la Cassazione ha accolto il ricorso del Pubblico Ministero che denunciava violazione di legge in base all’art.606, non sussistendo alcun obbligo del giudice di preavvisare il teste di cui all’art. 200 c.p.p. che ha facoltà di astenersi, opponendo il segreto professionale: infatti l’obbligo per il giudice di avvisare i testi della facoltà di astenersi, previsto dall’art. 199 c.p.p, co.2, (prossimi congiunti dell'imputato) non si applica ai soggetti elencati dall’art. 200 c.p.p. (i professionisti, come ad esempio, avvocati, ministri di culti religiosi, medici, ecc…), come si apprende dai motivi che hanno portato alla decisione.

martedì 17 marzo 2009

Cessione di appartamento nel condominio? No al decreto ingiuntivo nei confronti del venditore.

Interessante la sentenza della Corte di Cassazione II sez. civile n. 23345/08 che ha stabilito che “in tema di condominio di edificio, in caso di alienazione di un piano o di porzione di un piano, dal momento in cui il trasferimento venga reso noto al condominio, lo status di condomino appartiene all'acquirente, e pertanto soltanto quest'ultimo è legittimato a partecipare alle assemblee e ad impugnarne le deliberazioni, mentre il venditore, che non è più legittimato a partecipare direttamente alle assemblee condominiali, può far valere le sue ragioni connesse al pagamento dei contributi (relativi all'anno in corso e a quello precedente, ai sensi dell'art. 63 disp. att. cod. civ.) attraverso l'acquirente che gli è subentrato, e per il quale, anche in relazione al vincolo di solidarietà, si configura una gestione di affari non rappresentativa che importa obbligazioni analoghe a quelle derivanti da un mandato, e fra queste quella di partecipare alle assemblee condominiali e far valere in merito anche le ragioni del suo dante causa (Cass. n. 9/1990)”.
La Corte ha poi aggiunto che “ne consegue che se il condomino alienante non è legittimato a partecipare alle assemblee e ad impugnare le delibere condominiali, nei suoi confronti non può essere chiesto ed emesso il decreto ingiuntivo per la riscossione dei contributi, atteso che soltanto nei confronti di colui che rivesta la qualità di condomino può trovare applicazione l'art. 63 primo comma (“per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea l'amministratore può ottenere decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione”).

venerdì 13 marzo 2009

Autovelox autovelox autovelox. Non se ne può più.

Questo deve aver pensato anche la Corte di cassazione che con la sentenza 11131/09 ha stabilito, una volta per tutte, nella manchevolezza della legge (io ritengo da sempre emanata appositamente per quei pochi imprenditori da strapazzo anzi su loro richiesta ed i furbi), che l’autovelox deve essere segnalato almeno 400 metri prima della sua collocazione. Gli stessi autovelox pertanto su segnalazione di chiunque possono sequestrati dall'autorità giudiziaria e i titolari della società di rilevamento rischiano l'incriminazione per truffa.
È evidente che molte amministrazioni sulla spinta degli imprenditori non rispettano nemmeno le disposizioni in tal senso del Ministero dell’interno nel caso di specie quella del 3.8.07 che prescrive “la segnalazione almeno 400 metri prima del punto di collocamento” dell'autovelox.
Con il procedimento in questione la corte di cassazione ha confermato il sequestro di alcuni veicoli e autovelox della società Speed Control attiva nei comuni calabresi di Fiumefreddo Bruzio, Belmonte Calabro e Longobardi (Cosenza).
Gli apparecchi erano stati messi in funzione a bordo di macchine di proprietà di aziende private e senza essere segnalati con chiarezza e in anticipo. Ad avviso della cassazione, è corretta la tesi accusatoria della Procura di Cosenza in base alla quale l'attività di rilevamento così svolta “era intenzionalmente preordinata a trarre in inganno gli automobilisti, in contrasto con lo spirito della normativa in materia diretta a reprimere incidenti più che a reprimere”.
Io direi di eliminare del tutto queste odiate e costose macchinette.


mercoledì 11 marzo 2009

Privacy: test paternità? No senza il consenso del figlio.

Il Garante per la protezione dei dati personali (comunicato del 24.2.09) ha reso noto di aver stabilito che non è possibile effettuare il test sulla paternità e maternità senza il preventivo consenso del figlio se tale esame non sia indispensabile in sede giudiziaria.
L’Autorità ha quindi precisato che la raccolta e il trattamento dei dati genetici può avvenire solo con il consenso informato, manifestato dall’interessato in via preventiva e per iscritto.
Tale principio può essere derogato solo per far valere o difendere un proprio diritto in sede giudiziaria e solo nel caso in cui l'accertamento sia assolutamente indispensabile e venga svolto nel pieno rispetto delle regole fissate dal Garante (obbligo di sottoporre all'interessato una specifica informativa nel caso in cui l'analisi dei suoi dati genetici sia volta ad accertare la maternità o paternità). Il principio è stato ribadito dall'Autorità che ha affrontato il caso di un genitore che aveva avviato delle indagini personali (analisi genetica) del figlio al fine di verificare l'effettiva consanguineità. Aveva infatti raccolto dei mozziconi di sigaretta del figlio maggiorenne e, senza informare l'interessato, aveva fatto effettuare dei test al fine di appurare la loro compatibilità genetica. Il Garante ha quindi chiarito che effettuare tali test senza il consenso del figlio viola i suoi diritti. Ha quindi reso noto di aver vietato al genitore l'ulteriore trattamento dei dati genetici illecitamente raccolti.

domenica 8 marzo 2009

Una interessante sentenza contro Telecom ritrovata nel mio cassetto.

Una signora americana, proprietaria di una un’abitazione nelle campagne di Arezzo, nel marzo del 2008 si rivolse alla Telecom per ottenere l’allacciamento alla rete telefonica fissa. La compagnia telefonica, però, nonostante l’invio di tutta la documentazione richiesta e nonostante i vari solleciti formulati, non ha mai provveduto né ad effettuare i lavori, né a giustificare la motivazione del ritardo. I legali cui si è rivolta la signora hanno richiesto alla Telecom di eseguire immediatamente i lavori. Rispondeva la compagnia telefonica sostenendo che lo spostamento della data di attivazione era da ascriversi non a Telecom, bensì alla mancanza di permessi necessari alla realizzazione dell’impianto.
A questo punto i legali provvedevano ad accertarsi presso il Comune, primo se non unico organo amministrativo al quale dovevano essere richiesti i necessari permessi, se effettivamente Telecom si fosse attivata in tal senso, sentendosi rispondere che, al contrario, nessuna richiesta risultava essere pervenuta.
Pertanto, i legali hanno richiesto un provvedimento urgente ex art. 700 c.p.c. presso il Tribunale di Arezzo per avere l’immediata esecuzione dei lavori necessari per ottenere l’agognato allacciamento alla rete telefonica.
I legali, tra l’altro, hanno sottolineato che, pur non sussistendo più un monopolio di diritto in capo alla Telecom, quest’ultima agisce sempre in posizione di “monopolio di fatto”, per cui tale Società, essendo la reale proprietaria del c.d. “ultimo miglio”, cioè di quel tratto di linea telefonica che unisce materialmente le centrali telefoniche alle abitazioni, è la sola che può e deve provvedere all’allaccio.
Senza contare che l’art. 52 del D. LGS. 259/2003 (Codice per le Comunicazioni Elettroniche) impone che i servizi di comunicazione elettronica debbono essere messi a disposizione di tutti gli utenti finali ad un livello qualitativo stabilito, a prescindere dall’ubicazione geografica dei medesimi.
Il giudice del Tribunale di Arezzo ha pienamente accolto le istanze della ricorrente.
La dottoressa Labella, ha riscontrato i due elementi caratterizzanti il procedimento di urgenza:
- il fumus, in quanto Telecom non ha provato che i ritardi non fossero imputabili a sé stessa;
- il periculum, in quanto la donna, abitando da sola in un luogo isolato e malservito anche con la telefonia mobile, e non potendo usufruire di un servizio essenziale come quello telefonico fisso, non avrebbe potuto, in caso di incidente o di pericolo, aiuto ad alcuno.
Per tali motivi il Giudice ha ordinato alla Telecom di provvedere, immediatamente, o nel più breve tempo possibile, allo svolgimento dei lavori necessari per l’allacciamento presso l’abitazione della ricorrente della linea telefonica, con la condanna della stessa società resistente al rimborso delle spese legali.
Questa la sentenza:

Tribunale di Arezzo
Sentenza 19 novembre 2008
Udienza del 19/11/08 nella causa n.1017 /2008

Avanti al G.I. dott sono comparsi
L’Avv. xxxx e yyyy per la ricorrente. L’Avv. kkk per la Telecom SpA il quale si costituisce con deposito di comparsa alla quale si riporta
I procuratori della ricorrente insistono per la concessione del provvedimento d’urgenza sussistendone i presupposti
Il Giudice
Rilevato che nel caso di specie sussiste il fumus attesa l’evidente disagio dell’utente ed allo stato la controparte non ha provato che i ritardi sono dovuti a cause non imputabili a Telecom;
che inoltre sussiste il periculum del grave ed irreparabile danno atteso che la resistente non ha specificamente contestato (e dunque le circostanze devono ritenersi come pacificamente ammesse) che nel luogo per cui è causa non vi è copertura con il cellulare: trattasi di luogo isolato e vi è copertura solo da parte della Telecom ed infine la ricorrente vive da sola;
che dette circostanze costituiscono pericolo di grave ed irreparabile danno per la persona della ricorrente se solo si pensi ad un eventuale incidente domestico o altro che rendesse indispensabile l’utilizzo del telefono per la richiesta di aiuto
P.Q.M.
ordina alla Telecom Italia S.p.A. di provvedere immediatamente e comunque nel più breve tempo possibile allo svolgimento dei lavori necessari per l’attivazione presso l’abitazione della ricorrente sita in **** (AR) località ***** della linea telefonica relativa al n. ******* assegnato alla ricorrente e non ancora attivato.
Visto l’art.669 octies VI comma cpc condanna la Telecom a rimborsare alla ricorrente le spese del presente procedimento che liquida in complessivi €. 943,00 di cui €. 93,00 per spese €. 400,00 per diritti ed €. 450,00 per onorari oltre Iva e cap come per legge, ed il 12,5 % per rimborso delle spese in generale.
Dott. ssa Carmela Labella

martedì 3 marzo 2009

Giro di vite contro gli episodi di violenza in famiglia.

La Corte di Cassazione, V sez. penale, con la sentenza 7775/09 ha infatti stabilito che se un marito violento non è in grado di controllarsi e, nonostante una precedente condanna continua a maltrattare la consorte, l'unica misura adeguata per scongiurare il pericolo di una recidiva è l'arresto.
La Corte ha convalidato quindi la misura della custodia cautelare nei confronti di un uomo indagato per i reati di violenza privata, minaccia grave e lesioni aggravate in danno della moglie.
Secondo Piazza Cavour l'arresto del marito violento si rende necessario "proprio per l'incapacità di autocontrollo" che rende concreto il "pericolo di recidiva". Nel ricostruire la vicenda i supremi giudici evidenziano che l'uomo nonostante una precedente condanna, a soli tre mesi di distanza aveva ripreso a maltrattare la moglie.
Segno, spiega la Suprema Corte, del fatto che l'uomo non ha "alcuna capacità di autocontrollo" e che la vicenda non è da considerarsi come una semplice lite tra coniugi passionali ma in una vera e propria aggressione unilaterale, nel corso della quale la donna ha riportato lesioni gravi.
Dunque "è proprio dall'incapacità di autocontrollo riscontrata nella personalità di [...] che il tribunale correttamente trae la giustificazione dell'esclusiva adeguatezza della massima misura restrittiva".