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venerdì 6 novembre 2009

La sentenza sul crocifisso.

Mi ero ripromesso di non discutere la sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo sulla base di quanto riferito dai media. E cosi ho fatto. Oggi ho preso cognizione della sentenza grazie ad Alessandro Gilioli.
Ora che ho letto la sentenza bhè .... posso dare la mia opinione: e pur essendo cattolico non posso non condividerla.
Le radici cristiane di un popolo non hanno nulla a che vedere con la collocazione del crocifisso.
Io a volte osservo il crocifisso apposto nei Tribunali e mi chiedo se tutti quelli che si recano in quelle aule e sostengono di essere cattolici lo sono davvero.
Troppe menzogne si dicono anche davanti al crocifisso. E allora meglio applicare la sentenza dei giudici della Corte Europea.
L'Italia nel 1950 ha sottoscritto la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per cui non ha alcuna possibilità di farsi accogliere il proprio ricorso in appello. Non serve al Governo la pubblicità innanzi alla Chiesa cattolica.
Di seguito la sentenza integrale in italiano della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Qui l’originale in francese.
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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Nel procedimento Lautsi contro l’ Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Seconda Sezione) si riunisce in Camera di consiglio composta da: Françoise Tulkens, presidente, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danut Jocien, Dragoljub Popovic, András Sajó, Isıl Karakas, giudici, e di Sally Dole, cancelliera di sezione.
Dopo averne deliberato in Camera di consiglio il 13 ottobre 2009, rende nota questa sentenza.
PROCEDURA
All’origine del procedimento c’è una richiesta (n. 30814/06) diretta contro la Repubblica italiana da una cittadina di questo Stato, la Sig.ra Soile Lautsi (“la ricorrente”) che ha investito la Corte il 27 luglio 2006 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”). Agisce nel suo nome e in nome dei suoi due bambini, Dataico e Sami Albertin.
La ricorrente è rappresentata da N. Paoletti, avvocato a Roma. Il governo italiano (“il governo”) è rappresentato da E. Spatafora e dal suo assistente, il sig. N. Lettieri.
La ricorrente adduceva che l’esposizione del crocefisso nell’aula della scuola pubblica frequentata dai suoi bambini era un’ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e di religione e con il diritto a un’istruzione e a un insegnamento conformi alle sue convinzioni religiose e filosofici.
Il 1° luglio 2008 la Corte ha deciso di comunicare la richiesta al governo. Facendo valere le disposizioni dell’articolo 29 comma 3 della Convenzione, ha deciso che sarebbero esaminati allo stesso tempo ammissibilità e fondamento del procedimento.
Tanto la ricorrente quanto il governo hanno depositato osservazioni scritte sul procedimento (articolo 59 comma 1 del regolamento).
I FATTI.
La ricorrente risiede a Abano Terme e ha due bambini, Dataico e Sami Albertin. Questi ultimi, rispettivamente all’epoca di undici e tredici anni, frequentavano nel 2001-2002 la scuola pubblica “Istituto comprensivo Statale Vittorino da Feltre”, ad Abano Terme.
Le classi avevano tutti crocifissi esposti, ciò che la ricorrente riteneva contrario al principio di laicità secondo il quale desiderava istruire i suoi bambini. Sollevava quindi la questione nel corso di una riunione organizzata 22 aprile 2002 a scuola e faceva presente il principio (stabilito dalla Corte di Cassazione italiana, sentenza n. 4273 del 1° marzo 2000) per cui la presenza di un crocifisso nelle classi quando queste diventano urne per le elezioni politiche era stato già giudicato contrario al principio di laicità dello Stato.
Il 27 maggio 2002 la direzione della scuola decideva tuttavia di lasciare i crocifissi nelle classi.
Il 23 luglio 2002 la ricorrente impugnava questa decisione davanti al Tribunale amministrativo della regione Veneto. Basandosi sugli articoli 3 e 19 della Costituzione italiana e sull’articolo 9 della Convenzione, ella adduceva la violazione del principio di laicità. Inoltre, denunciava una violazione del principio d’imparzialità dell’amministrazione pubblica (articolo 97 della Costituzione).
Così chiedeva al tribunale di investire la Corte Costituzionale della questione di costituzionalità.
Il ministero della Pubblica istruzione italiano, che ha emanato la direttiva n. 2666 che raccomanda ai direttori delle scuole di esporre il crocifisso, si costituiva quindi parte nella procedura sostenendo che la decisione in questione si basava sull’articolo 118 del Decreto regio n. 965 del 30 aprile 1924 e sull’articolo 119 del Decreto regio n. 1297 del 26 aprile 1928 (disposizioni precedenti alla Costituzione italiana e agli accordi tra l’Italia e Santa Sede).
Il 14 gennaio 2004 il Tar del Veneto riteneva, tenuto conto del principio di laicità (articoli 2,3,7,8,9,19 e 20 della Costituzione) che la questione di costituzionalità non era palesemente infondata e di conseguenza investiva della questione la Corte costituzionale. Inoltre vista la libertà d’insegnamento e visto l’obbligo scolastico, la presenza del crocifisso era imposta agli allievi, ai genitori degli allievi e ai professori e favorivano la religione cristiana al detrimento di altre religioni.
La ricorrente si costituiva quindi parte nella procedura dinanzi alla Corte costituzionale.
Il governo sosteneva che la presenza del crocifisso nelle classi era «un fatto naturale» in quanto il crocifisso non era soltanto un simbolo religioso ma anche «il simbolo della Chiesa Cattolica», che è la sola Chiesa nominata nella Costituzione (articolo 7). Occorreva dunque dedurne che il crocifisso era indirettamente un simbolo dello Stato italiano.
Con un’ordinanza del 15 dicembre 2004 n. 389, la Corte Costituzionale si definiva incompetente, dato che le disposizioni nella controversia in essere non erano leggi dello Stato, ma regolamenti che non avevano forza di legge.
La procedura dinanzi al Tribunale amministrativo quindi riprendeva.
Con una sentenza del 17 marzo 2005 n. 1110, il Tribunale amministrativo respinse il ricorso della ricorrente. Riteneva che il crocifisso fosse allo stesso tempo il simbolo della storia e della cultura italiane, e quindi dell’ identità italiana, e il simbolo dei principi di uguaglianza, di libertà e di tolleranza come pure della laicità dello Stato.
La ricorrente faceva ricorso dinanzi al Consiglio di Stato.
Con una sentenza del 13 febbraio 2006, il Consiglio di Stato respingeva il ricorso, poiché ritebeva che il crocifisso era diventato uno dei valori laici della Costituzione italiana e rappresentava i valori della vita civile.
IL DIRITTO E LA PRATICA NAZIONALE PERTINENTE
L’ obbligo di esporre il crocifisso nelle aule risale a un’epoca precedente all’unità d’Italia.
Infatti, l’articolo 140 del Regio Decreto n. 4336 del 15 settembre 1860 del Regno di Piemonte e Sardegna stabiliva che «ogni scuola dovrà senza difetto essere fornita (…) di un crocifisso».
Nel 1861, anno di nascita dello Stato italiano, lo Statuto del Regno di Piemonte e Sardegna diventava lo Statuto italiano.
Enunciava tra l’altro che che «la religione cattolica apostolica e romana (era) la sola religione d Stato. Gli altri culti esistenti (erano) tollerati in conformità con la legge».
La presa di Roma da parte dell’esercito italiano, il 20 settembre 1870, a seguito del quale Roma fu proclamata capitale del nuovo Regno d’ Italia, causò una crisi delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica.
Con la legge n. 214 del 13 maggio 1871, lo Stato italiano regolamentò unilateralmente le relazioni con la Chiesa ed accordò al Papa un certo numero di privilegi per lo svolgimento regolare dell’attività religiosa.
All’avvento del fascismo lo Stato adottò una serie di circolari miranti a fare rispettare l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule.
La circolare del ministero della Pubblica istruzione n. 68 del 22 novembre il 1922 recitava: «In questi ultimi anni, in molte scuole primarie del Regno l’immagine di Cristo ed il ritratto del Re sono stati tolti. Ciò costituisce una violazione manifesta e non tollerabile e soprattutto un danno alla religione dominante dello Stato così come all’unità della nazione. Intimiamo allora a tutte le amministrazioni comunali del regno l’ordine di ristabilire nelle scuole che ne sono sprovviste i due simboli incoronati della fede e del sentimento patriottico».
La circolare del ministero della Pubblica Istruzione n. 2134-1867 del 26 maggio 1926 affermava: «Il simbolo della nostra religione, tanto per la fede quanto per il sentimento nazionale, esorta e ispira la gioventù che nelle università e negli altri istituti superiori affina il suo spirito e la sua intelligenza in previsione delle alte cariche alle quali è destinata».
L’articolo 118 del Regio Decreto n. 965 del 30 aprile 1924 (regolamento interno degli istituti d’istruzione secondari del Regno) recitava: «Ogni scuola deve avere la bandiera nazionale, ogni aula il crocifisso e il ritratto del Re».
L’articolo 119 del Regio Decreto n. 1297 del 26 aprile 1928 (Approvazione di regolamento generale dei servizi d’insegnamento elementare) stabiliva che il crocifisso era fra «le attrezzature e materiali necessari alle sale di classe di scuole».
Le successive leggi nazionali Italiane non hanno mai abolito queste due disposizioni rimaste dunque sempre in vigore e applicabili al caso di specie.
I Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio 1929, segnarono la Conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica.
Il cattolicesimo fu confermato come la religione ufficiale dello Stato italiano.
L’articolo 1 del Trattato era così formulato: «L’Italia riconosce e ribadisce il principio stabilito dall’articolo 1 dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848, secondo ol quale la religione cattolica, Apostolica e Romana è la sola religione di Stato.
Nel 1948 lo Stato italiano adottava la Costituzione repubblicana. L’articolo 7 di questa riconosceva esplicitamente che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel suo ordine, indipendenti e sovrani. Le relazioni tra lo Stato e lo Chiesa cattolica è regolata dai Patti Lateranensi e le modifiche di questi accettate dalle due parti non non esigono procedura di revisione costituzionale‚. L’articolo 8 enunciava che le confessioni religiose diverse da quella cattolica «hanno il diritto di organizzarsi secondo i loro statuti, fintanto che non si oppongono all’ordinamento giuridico italiano». Le relazioni tra lo Stato e queste altre confessioni «sono stabilite dalla legge sulla base di intese con il loro rappresentanti».
A seguito della ratifica, con la legge n. 121 del 25 marzo 1985, della prima disposizione del protocollo addizionale al nuovo Concordato con il Vaticano del 18 febbraio 1984, i Patti Lateranensi del 1929 sono stati modificati. Il principio, proclamato nei Patti Lateranensi secondo cui la religione cattolica era la sola religione dello Stato italiano è stato abolito.
La Corte costituzionale italiana nella sua sentenza n. 508 del 20 novembre 2000 ha riassunto la sua giurisprudenza affermando che principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (articolo 3 della Costituzione) e di eguale libertà di tutte le religioni dinanzi alla legge (articolo otto) stabilisce che l’atteggiamento dello Stato deve essere segnato da equidistanza e imparzialità, indipendentemente dal numero di membri di una religione o di un’altra (vedere sentenze n. 925/88; 440/95; 329/97) né dall’ampiezza delle reazioni sociali alla violazione di diritti dell’una o dell’ altra (vedere sentenza n. 329/97).
La protezione uguale della coscienza di ogni persona che aderisce a una religione è indipendente della religione scelta (vedere sentenza n. 440/95), cosa che non è in contraddizione con la possibilità di una diversa regolamentazione delle relazioni tra lo Stato e le varie religioni ai sensi degli articoli 7 e 8 della Costituzione.
Una tale posizione di equidistanza e di imparzialità è il riflesso del principio di laicità che per la Corte costituzionale ha natura «di principio supremo» (vedere sentenza n. 203/89; 259/90; 195/93; 329/97) e che caratterizza lo Stato in senso pluralista.
Le credenze, culture e tradizioni diverse devono vivere insieme nell’uguaglianza e nella libertà (vedere sentenza n. 440/95).
Nella sua sentenza n. 203 del 1989, la Corte costituzionale ha esaminato la questione del carattere non obbligatorio dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. In questa occasione, ha affermato che la Costituzione conteneva il principio di laicità (articoli 2,3,7,8,9,19 e 20) e che il carattere confessionale dello Stato era stato esplicitamente abbandonato nel 1985, ai sensi del protocollo addizionale ai nuovi accordi con la Santa Sede.
La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sull’obbligo di esporre il crocifisso nelle scuole pubbliche, ha risposto con l’’ordinanza del 15 dicembre 2004 n. 389 (vedi sopra). Senza deliberare sul merito, ha dichiarato palesemente inammissibile la questione sollevata poiché essa aveva per oggetto delle disposizioni regolamentari, sprovviste di forza di legge, che quindi sfuggivano alla sua giurisdizione.
LA RICORRENTELa ricorrente sostiene, nel suo nome e in nome dei suoi bambini, che l’esposizione del crocifisso nella scuola pubblica frequentata da questi ha costituito un’ingerenza incompatibile con il suo diritto di garantire loro un’istruzione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni religiose e filosofiche ai sensi dell’articolo 2 del protocollo n. 1, disposizione che è formulata come segue: «Nessuno può vedersi rifiutare il diritto all’istruzione. Lo Stato, nell’ esercizio delle funzioni nel settore dell’istruzione e dell’insegnamento, rispetterà il diritto dei genitori a veder garantiti l’istruzione e l’insegnamento conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche».
Inoltre la ricorrente adduce che l’esposizione del crocifisso va contro anche la sua libertà di pensiero e di religione stabilita dall’articolo 9 della Convenzione, che enuncia: «Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto implica la libertà di cambiare religione o di convinzione, come pure la libertà di manifestare la sua religione o la sua convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o privato, con il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’ compimento dei riti. La libertà di manifestare la sua religione o le sue convinzioni non può essere oggetto di altre restrizioni rispetto a quelle che, previste dalla legge, costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubbliche, o alla protezione dei diritti e libertà degli altri».
La Corte constata che le obiezioni formulate dalla ricorrente non sono palesemente infondate ai sensi dell’articolo 35 comma 3 della Convenzione. Nota inoltre che dette obiezioni non hanno alcun formale motivo di irrecevibilità. Occorre dunque dichiararli ammissibili.
La ricorrente ha fornito la cronistoria delle disposizioni pertinenti. Ella osserva che l’esposizione del crocifisso si fonda, secondo la giurisdizione nazionale italiana, su disposizioni del 1924 e del 1928 che sono sempre in vigore, benché precedenti sia la Costituzione italiana sia gli accordi del 1984 con la Santa Sede e il Protocollo addizionale a questi.
Ma le disposizioni controverse sono sfuggite al controllo di costituzionalità, poiché la Corte costituzionale non avrebbe potuto pronunciarsi sulla loro compatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano a causa della loro natura di regolamenti e non di leggi dello Stato.
Secondo la ricorrente, le disposizioni in causa sono l’eredità di una concezione confessionale dello Stato che si scontra oggi con il dovere di laicità di quest’ultimo e viola i diritti protetti dalla convenzione.
Secondo la ricorrente, esiste una “questione religiosa” in Italia, poiché, facendo obbligo di esporre il crocifisso nelle aule, lo Stato accorda alla religione cattolica una posizione privilegiata che si traduce in un’ingerenza dello Stato nel diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione della ricorrente eddei suoi bambini e nel diritto della ricorrente a istruire i suoi bambini conformemente alle sue convinzioni morali e religiose, come pure con una forma di discriminazione verso i non cattolici.
Secondo la ricorrente, il crocifisso ha in realtà soprattutto una connotazione religiosa. Il fatto che il crocifisso abbia altre “chiavi di lettura” non comporta la perdita della sua principale connotazione, che è religiosa.
Secondo la ricorrente, privilegiare una religione attraverso l’ esposizione di un simbolo dà la sensazione agli allievi delle scuole pubbliche – e in questo caso ai figli della ricorrente – che lo Stato aderisce a una specifica fede religiosa. Mentre in uno Stato di diritto nessuno dovrebbe percepire lo Stato come più vicino a una confessione religiosa che aun’altra, e soprattutto non le persone che sono più influenzabili a causa della loro giovane età.
Per la ricorrente, questa situazione ha tra l’altro alcune ripercussioni come una pressione incontestabile sui minori e dà la sensazione che lo Stato sia più lontano da quelli che non si riconoscono in questa confessione.
La nozione di laicità significa che lo Stato deve essere neutrale e dare prova di equidistanza rispetto a tutte le religioni, poiché non dovrebbe essere percepito come più vicino di alcuni cittadini che ad altri.
Secondo la ricorrente, lo Stato dovrebbe garantire a tutti i cittadini la libertà di coscienza, incominciando con un’istruzione pubblica atta a forgiare l’autonomia e libertà di pensiero della persona, nel rispetto dei diritti garantiti da Convenzione. Quanto al punto di sapere se un insegnante sarebbe libero di esporre altri simboli religiosi in una sala di classe, la risposta sarebbe negativa, visto l’assenza di disposizioni che lo permettono.
IL GOVERNO
Il governo sostiene che il problema sollevato dalla presente richiesta esce dal quadro propriamente giuridico per tracimare nel terreno della filosofia. Infatti si tratta di determinare se la presenza di un simbolo che ha un’origine e un significato religiosi è in sé una circostanza tale da influire sulle libertà individuali in modo incompatibile con la Convenzione.
Secondo il governo, se il crocifisso è certamente un simbolo religioso, riveste tuttavia anche altri significati. Avrebbe anche un significato etico, comprensibile ed apprezzabile indipendentemente dall’adesione alla tradizione religiosa o storica poiché evoca principi che possono essere condivisi anche da quanti non professano la fede cristiana (non violenza, uguale dignità di tutti gli esseri umani, giustizia, primato dell’individuo sul gruppo, amore per il prossimo e perdono dei nemici).
Secondo il governo, i valori chi fondano oggi le società democratiche hanno la loro origine anche nel pensiero di autori non credenti e lontani dal cristianesimo: tuttavia, secondo il governo, il pensiero di questi autori sarebbe intriso di filosofia cristiana, a causa della loro istruzione e dell’ambiente nel quale sono stati formati.
In conclusione, i valori democratici oggi affonderebbero le loro radici in un passato più lontano, quello del messaggio evangelico. Il messaggio del crocifisso sarebbe dunque secondo il governo un messaggio umanista, che può essere letto in modo indipendente della sua dimensione religiosa, costituito da un insieme di principi ed di valori che formano la base delle nostre democrazie. Il crocifisso, rinviando a questo messaggio, sarebbe perfettamente compatibile con la laicità e accettabile anche dai non cristiani e dai non credenti, che possono accettarlo nella misura in cui evoca l’origine di questi principi e di questi valori.
Secondo il governo, in conclusione, potendo il simbolo del crocifisso essere percepito come sprovvisto di significato religioso, la sua esposizione in un luogo pubblico non costituirebbe in sé un danno ai diritti e alla libertà garantiti dalla Convenzione.
Secondo il governo, questa conclusione sarebbe consolidata dall’analisi della giurisprudenza della Corte che esige un’ingerenza molto più attiva della semplice esposizione di un simbolo per constatare un limite ai diritti e alla libertà.
Così, secondo il governo, c’è ad esempio un’ingerenza attiva che ha comportato la violazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1 nel procedimento Folgerø (Folgerø ed altri c. Norvegia, (GC), n. 15472/02, CEDU 2007-VIII). In questo caso invece non è indiscussione la libertà di aderire o meno a una religione, poiché in Italia questa libertà è interamente garantita.
Non si tratta neppure, secondo il governo, della libertà di praticare una religione o di non praticarne nessuna: il crocifisso infatti è sì esposto nelle aule ma non viene in alcun modo chiesto agli insegnanti o agli allievi di fare il segno della croce, né di omaggiarlo in alcun modo, né tantomeno di recitare preghiere in classe.
In realtà, nota il governo, non è neppure richiesto loro di prestare alcuna attenzione al crocifisso.
Infine, la libertà di istruire i bambini conformemente alle convinzioni dei genitori secondo il governo non è in causa: l’insegnamento in Italia è completamente laico e pluralistico, i programmi scolastici non contengono alcuna vicinanza a una religione particolare e l’ istruzione religiosa è facoltativa.
Riferendosi alla sentenza Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen, (7 dicembre 1976, serie A n. 23), nella quale la Corte non ha constatato una violazione, il governo sostiene che, quale che sia la sua forza evocatrice, un’immagine non è paragonabile all’impatto di un comportamento attivo, quotidiano e prolungato nel tempo come l’insegnamento.
Inoltre, secondo il governo, chiunque ha la possibilità di fare istruire i suoi bambini in una scuola privata o in casa, da parte di precettori.
Secondo il governo, le autorità nazionali usufruiscono di un grande margine di valutazione per questioni così complesse e delicate, strettamente legate a cultura e alla storia. L’esposizione di un simbolo religioso in luoghi pubblici non eccederebbe questo margine di valutazione lasciato agli Stati.
Ciò sarebbe tanto vero, secondo il governo, in quanto in Europa esiste una varietà di atteggiamenti in materia. A titolo d’esempio, in Grecia tutte le cerimonie civili e militari prevedono la presenza e la partecipazione attiva di un ministro del culto ortodosso; inoltre, il Venerdì santo, il lutto nazionale sarebbe proclamato e tutti gli uffici e commerci sarebbero chiusi, come avviene in Alsazia.
Secondo il governo, l’esposizione del crocifisso non mette in causa la laicità dello Stato, principio che è iscritto nella Costituzione e negli accordi con la Santa Sede. Non sarebbe neppure, secondo il governo, il segno di una preferenza per una religione, perché ricorderebbe solo una tradizione culturale e dei valori umanisti condivisi da altre persone rispetto ai cristiani.
In conclusione, l’esposizione del crocifisso secondo il governo, non va contro il dovere di imparzialità e di neutralità dello Stato.
D’altra parte, nota il governo, non esistono criteri europei stabiliti sul modo d’interpretare concretamente la nozione di laicità, e quindi gli Stati hanno un ampio margine discrezionale in materia.
Più precisamente, se esiste un criterio europeo sul principio della laicità dello Stato, non ce ne sono invece sulle sue implicazioni concrete e sulla sua attuazione.
Il governo chiede alla Corte di dare prova di prudenza e di astenersi quindi dal dare un contenuto preciso che va a proibire la semplice esposizione di simboli. Altrimenti, darebbe un contenuto materiale predeterminato al principio di laicità, cosa che andrebbe contro la diversità legittima degli approcci nazionali e condurrebbe a conseguenze imprevedibili.
Il governo non sostiene quindi che sia necessario, opportuno o auspicabile mantenere il crocifisso nelle sale di classe, ma semplicemente sostiene che la scelta di mantenerlo o no dipende dalla politica e risponde dunque a criteri di opportunità, e non di legalità.
Nell’evoluzione storica del diritto nazionale descritta dalla ricorrente, che il governo non contesta, occorre tuttavia capire – secondo il governo – che la Repubblica italiana, benché laica, ha deciso liberamente di conservare il crocifisso nelle aule per varie ragioni, fra cui la necessità di trovare un compromesso con le componenti di ispirazione cristiana che rappresentano una parte essenziale della popolazione e con il sentimento religioso di queste componenti.
Quanto a sapere se un insegnante sarebbe libero di esporre altri simboli religiosi in un’aula, secondo il governo, nessuna disposizione la proibirebbe.
In conclusione, il governo chiede alla Corte di respingere la richiesta.
IL PARTECIPANTE TERZO
Il Greek Helsinki monitor (“GHM”) contesta le tesi del governo. La croce, e più ancora il crocifisso, secondo il GHM non può che essere percepito come simbolo religioso.
Il GHM contesta così la dichiarazione secondo la quale occorre vedere nel crocifisso un simbolo diverso da quello religioso e in particolare un emblema condiviso di valori umanisti; ritiene anzi che simile posizione sia offensiva per la Chiesa.
Inoltre, il governo italiano non ha indicato un solo non-cristiano che sarebbe d’ accordo con questa teoria.
Infine, tutte le altre religioni vedono nel crocifisso niente altro che un simbolo religioso.
Se si segue l’ argomentazione del governo secondo la quale l’esposizione del crocifisso non richiede né alcun omaggio né alcuna attenzione, sostiene il GHM, occorrerebbe chiedersi allora perché il crocifisso viene esposto.
L’esposizione di tale simbolo potrebbe essere percepito come una “venerazione istituzionale” di quest’ultimo.
A tale riguardo, il GHM osserva che, secondo i principi direttivi di Toledo sull’insegnamento relativo alle religioni e convinzioni nelle scuole pubbliche (Consiglio di esperti sulla libertà di religione e di pensiero dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa – “OSCE”), la presenza di tale simbolo in una scuola pubblica può costituire una forma d’insegnamento implicito di una religione, ad esempio dando l’impressione che questa religione particolare è favorita rispetto alle altre.
Se la Corte, nel procedimento Folgerø, ha affermato che la partecipazione ad attività religiose può esercitare un’influenza sui bambini, allora, secondo il GHM, l’ esposizione di simboli religiosi può anch’essa averne una.
Occorre anche pensare a situazioni dove i bambini o i loro genitori potrebbero avere timore di ritorsioni nel caso decidessero di protestare.
VALUTAZIONE DELLA CORTE
Per quanto riguarda l’interpretazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1, nell’esercizio delle funzioni che lo Stato assume nel settore dell’istruzione e dell’insegnamento, la Corte ha individuato nella sua giurisprudenza i principi ricordati sotto che sono pertinenti nel presente procedimento (vedere, in particolare, Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen c. Danimarca, sentenza del 7 dicembre 1976, serie A n. 23, pp 24-28, §§ 50-54, Campbell e Cosans c. Regno Unito, sentenza del 25 febbraio 1982, serie A n. 48, pp 16-18, §§ 36-37, Valsamis c. Grecia, sentenza del 18 dicembre 1996, raccolta delle sentenze e decisioni 1996-VI, pp 2323-2324, §§ 25-28, e Folgerø ed altri c. Norvegia [GC], 15472/02, CEDH 2007-VIII, § 84). (a)
Occorre leggere le due frasi dell’articolo 2 del protocollo n. 1 alla luce non soltanto l’una dell’altra, ma anche, in particolare, degli articoli 8, 9 e 10 della Convenzione.
Sul diritto fondamentale all’istruzione si innesta infatti il diritto dei genitori al rispetto delle loro convinzioni religiose e filosofiche e la prima frase non distingue più della seconda tra l’insegnamento pubblico e l’insegnamento privato. La seconda frase dell’articolo 2 del protocollo n. 1 mira a salvaguardare la possibilità di un pluralismo educativo, essenziale alla preservazione della società democratica così come la concepisce la Convenzione.
A causa dei poteri di uno Stato moderno, è soprattutto l’istruzione pubblica che deve realizzare quest’obiettivo.
Il rispetto delle convinzioni dei genitori deve essere reso possibile nel quadro di un’istruzione capace di garantire un ambiente scolastico aperto e favorendo l’inclusione piuttosto che l’esclusione, indipendentemente dall’origine sociale degli allievi, delle loro credenze religiose o dalla loro origine etnica.
La scuola non dovrebbe essere il teatro di attività di proselitismo o predicazione.
Dovrebbe essere un luogo di unione e confronto di varie religioni e convinzioni filosofici, dove gli allievi possono acquisire conoscenze sulle diverse tradizioni.
La seconda frase dell’articolo 2 del protocollo n. 1 implica che lo Stato, date le sue funzioni in materia d’ istruzione e d’ insegnamento, vigila affinché le informazioni o le conoscenze che appaiono nei programmi siano diffuse in modo oggettivo, critico e pluralistico.
L’articolo proibisce agli Stati di perseguire un obiettivo di indottrinamento, anche non rispettando le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori.
Questo è un limite da non superare.
Il rispetto delle convinzioni religiose dei genitori e dei bambini implicano il diritto di credere in una religione o di non credere in alcuna religione.
La libertà di credere e la libertà non di credere sono entrambe protette dall’articolo 9 della Convenzione.
Il dovere di neutralità e di imparzialità dello Stato è incompatibile con un potere qualunque di valutazione da parte di quest’ultimo sulla legittimità delle convinzioni religiose o delle modalità di espressione di queste. Nel contesto dell’insegnamento, la neutralità dovrebbe garantire il pluralismo (Folgero, cit., § 84).
Per la Corte, queste considerazioni conducono all’obbligo per lo Stato di astenersi dall’imporre, anche indirettamente, credenze nei luoghi dove le persone sono dipendenti dallo Stato o anche nei posti in cui le persone possono essere particolarmente infuenzabili.
L’istruzione dei bambini rappresenta un settore particolarmente sensibile poiché, in questo caso, il potere dello Stato è imposto verso coscienze che mancano ancora (secondo il livello di maturità del bambino) della capacità critica che permette di prendere distanza rispetto al messaggio che deriva da una scelta preferenziale manifestata dallo Stato in materia religiosa.
Applicando i principi qui sopra al presente procedimento, la Corte deve esaminare la questione intesa ad accertare se lo Stato, imponendo l’esposizione del crocifisso nelle aule, ha vegliato o meno nell’esercizio delle sue funzioni di istruzione e di insegnamento affinché le conoscenze siano diffuse in modo oggettivo, critico e pluralistico e quindi se ha o no rispettato le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori, secondo l’ articolo 2 del protocollo n. 1.
Per esaminare la questione, la Corte considererà in particolare la natura del simbolo religioso e il suo impatto su allievi di una giovane età, in questo caso i figli della ricorrente.
Infatti, nei paesi in cui la grande maggioranza della popolazione aderisce a una religione precisa, la manifestazione dei riti e dei simboli di questa religione, senza restrizione di luogo e di forma, può costituire una pressione sugli allievi che non praticano non la suddetta religione o su quelli che aderiscono a un’altra religione (Karaduman c. Turchia, decisione della Commissione del 3 maggio 1993).
Il governo giustifica l’obbligo (o il fatto) di esporre il crocifisso riferendosi al messaggio morale positivo della fede cristiana, che arriverebbe quindi a esprimere i valori costituzionali laici. Inoltre il crocifisso sarebbe una componente della storia italiana e della tradizione del paese. Attribuisce quindi al crocifisso un significato neutrale e laico in riferimento alla storia e alla tradizione italiane, strettamente legate al cristianesimo.
Il governo sostiene che il crocifisso è un simbolo religioso ma può anche rappresentare altri valori (vedere Tar del Veneto, n. 1110 del 17 marzo 2005, § 16, paragrafo 13 sopra).
Secondo questa Corte il simbolo del crocifisso ha una pluralità di significati, fra i quali il significato religioso è tuttavia predominante.
La Corte considera che la presenza del crocifisso nelle aule va al di là del semplice impiego di simboli in contesti storici specifici.
La Corte ha ritenuto in passato che il carattere tradizionale, nel senso sociale e storico, di un testo utilizzato dai parlamentari per prestare giuramento non privava il giuramento della sua natura religiosa (Buscarini ed altri c. San Marino (GC), n. 24645/94, CEDU 1999-I). 53.
La ricorrente adduce che il simbolo urta le sue convinzioni e viola il diritto dei suoi bambini di non professare la religione cattolica. Il suo convincimento ha un grado di serietà e di coerenza sufficiente perché la presenza obbligatoria del crocifisso possa essere ragionevolmente rienuta in conflitto con questo.
La ricorrente vede nell’esposizione del crocifisso il segno che lo Stato favorisce la religione cattolica.
Tale è anche il significato ufficialmente preso in considerazione nella Chiesa cattolica, che attribuisce al crocifisso un messaggio fondamentale.
Di conseguenza, l’apprensione della ricorrente non è arbitraria.
Le convinzioni della signora Lautsi riguardano così l’impatto dell’esposizione del crocifisso sui suoi bambini (paragrafo 32 sopra), all’epoca di undici e tredici anni.
La Corte riconosce che, per come viene esposto, è impossibile non osservare il crocifisso nelle aule.
Nel contesto dell’istruzione pubblica, questo è necessariamente percepito come parte integrante dell’ambiente scolastico e può di conseguenza essere considerato come “un segno esterno forte” (Dahlab c. Svizzera (dic.), n. 42393/98, CEDU 2001-V).
La presenza del crocifisso può facilmente essere considerata da allievi di qualsiasi età un segno religioso e questi si sentiranno quindi istruiti in un ambiente scolastico influenzato da una religione specifica.
Ciò che può essere gradito da alcuni allievi religiosi, può essere sconvolgente emotivamente per allievi di altre religioni o per coloro che professano nessuna religione.
Questo rischio è particolarmente presente negli allievi che appartengono a minoranze religiose.
La cosiddetta “libertà negativa” non è limitata all’assenza di servizi religiosi o di insegnamenti religiosi. Essa si estende alle pratiche e ai simboli che esprimono, in particolare o in generale, una credenza, una religione o lo stesso ateismo.
Questo diritto negativo merita una protezione particolare se è lo Stato che esprime una credenza e se la persona è messa in una situazione di cui non può liberarsi o soltanto con degli sforzi e con un sacrificio sproporzionati.
L’esposizione di uno o più simboli religiosi non possono giustificarsi né con la richiesta di altri genitori che desiderano un’istruzione religiosa conforme alle loro convinzioni, né – come il governo sostiene – con la necessità di un compromesso necessario con le componenti di ispirazione cristiana.
Il rispetto delle convinzioni di ogni genitore in materia di istruzione deve tenere conto del rispetto delle convinzioni degli altri genitori.
Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel quadro dell’istruzione pubblica obbligatoria dove la presenza ai corsi è richiesta senza considerazione di religione e che deve cercare di insegnare agli allievi un pensiero critico.
La Corte non vede come l’esposizione nelle aule di scuole pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) potrebbe servire al pluralismo educativo che è essenziale alla preservazione d’ una società democratica come la concepisce la Convenzione, e alla preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nel diritto nazionale.
La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico relativamente a situazioni specifiche che dipendono dal controllo governativo, in particolare nelle aule, viola il diritto dei genitori di istruire i loro bambini secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o non di credere.
La Corte considera che questa misura violi questi diritti poiché le restrizioni sono incompatibili con il dovere che spetta allo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del settore pubblico, in particolare nel settore dell’ istruzione.
Perciò la Corte stabilisce che in questo caso c’è stata violazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1 e dell’ articolo 9 della Convenzione.
La ricorrente sostiene inoltre che l’ingerenza viola anche il principio di non discriminazione, secondo l’ articolo 14 della convenzione.
Il governo contrasta questa tesi.
La Corte constata che quest’obiezione non è palesemente infondata ai sensi dell’articolo 35 comma 3 della Convenzione. Nota inoltre che non si presenta alcuna altra ragione d’irrecevibilità. Occorre dunque dichiararla ammissibile.
Tuttavia, in considerazione delle circostanze del presente procedimento e del ragionamento che l’ha condotta a constatare una violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 combinato con l’ articolo 9 della Convenzione, la Corte ritiene che non vi sia motivo di esaminare la questione anche per quanto riguarda l’articolo 14, preso isolatamente o combinato con le disposizioni sopra.
Alla fine dell’articolo 41 della Convenzione si dice che «se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli, e se il diritto nazionale dell’alta parte contraente non permette di cancellare le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte danneggiata una soddisfazione equa».
La ricorrente sollecita il pagamento di una somma di almeno 10.000 EUR per pregiudizio morale. Il governo ritiene che una constatazione di violazione sarebbe sufficiente. In secondo luogo il governo sostiene che la somma richiesta è eccessiva e ne richiede il rifiuto o la riduzione secondo equità.
Dato che il governo italiano non ha dichiarato di essere pronto a rivedere le disposizioni che disciplinano la presenza del crocifisso nelle aule, la Corte ritiene che a differenza di ciò che fu il caso e Folgerø ed altri (sentenza summenzionata, § 109), la constatazione di violazione non può bastare in questa fattispecie.
Di conseguenza, deliberando secondo equità, accorda 5.000 EUR a titolo del pregiudizio morale.
La ricorrente chiede inoltre 5.000 EUR per le spese e costi impegnati nella procedura a Strasburgo.
Il governo osserva che la ricorrente non ha sostenuto la sua domanda e suggerisce il rifiuto di questa.
Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente non può ottenere il rimborso delle sue spese e dei suoi costi se non nella misura in cui si trovano stabiliti la loro realtà, la loro necessità e il carattere ragionevole del loro tasso. Nella fattispecie, la ricorrente non ha prodotto nessun documento giustificativo in appoggio della sua domanda di rimborso.
La Corte decide quindi di respingere questa richiesta.
La Corte giudica adeguato calcolare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse sulla facilità di prestito marginale della Banca centrale europea aumentato di tre punti di percentuale.
PER QUESTE RAGIONI, LA CORTE ALL’ UNANIMITÀ:
1. Dichiara la richiesta ammissibile.
2. Stabilisce che c’è stata violazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1 esaminato con l’articolo 9 della Convenzione.
3. Stabilisce che non abbia luogo l’esame dell’obiezione riferita all’ articolo 14 preso isolatamente o combinato con l’articolo 9 della Convenzione e l’articolo 2 di Protocollo n. 1;
4. Stabilisce a) che lo Stato italiano deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a contare del giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva, in base all’articolo 44 comma 2 della Convenzione, 5.000 EUR (cinquemila euro), per danno morale, più ogni importo che può essere dovuto a titolo d’imposta; b) che a partire dalla scadenza del suddetto termine e fino al pagamento, questo importo sarà da aumentare in base a un interesse semplice pari a un tasso uguale a quello di facilità di prestito marginale della Banca centrale europea applicabile per questo periodo, aumentato di tre punti di percentuale.
La Corte respinge la domanda di soddisfazione equa per l’eccedenza.
Sentenza redatta in francese, quindi comunicata per iscritto il 3 novembre 2009, in applicazione dell’articolo 77 commi 2 e 3 del regolamento.