mercoledì 7 dicembre 2011

Notizie interessanti

Nasce avvocati-domiciliatari.it una directory di servizi di domiciliazione

Come suggerito dal sottotitolo in home page, avvocati-domiciliatari.it è una directory che indicizza servizi di domiciliazione legale e consente di trovare facilmente un collega presso cui domiciliarsi per azioni legali fuori sede. Esisto ...

Fonte: Studiocataldi.it

Url: http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_11161.asp

giovedì 10 novembre 2011

Valide le multe con il telelaser anche se non c'è la stampa dei dati sulla velocità.

A prescindere dalla legittimità o meno nell'utilizzo del telelaser senza un minimo di scontrino
io mi chiedo ma se l'agente viene costretto a svolgere servizio anche con problemi alla vista?
se l'agente viene costretto a svolgere servizio anche con problemi psicologici?
Ma come si può ledere il principio del giusto contraddittorio?


Multa inflitta con telelaser? sono valide anche se non c'è lo scontrino con la stampa dei dati sulla velocità e la targa del veicolo.
Non condivido assolutamente per mancanza del giusto contraddittorio quanto affermato dalla Corte di Cassazione che con la sentenza 23212/2011 ha dato ragione al Comune di Massa ribaltando il doppio verdetto con cui il Giudice di Pace prima e il Tribunale in sede di appello avevano accolto il ricorso di un automobilista sorpreso in eccesso di velocità dal telelaser.
La Cassazione ha accolto infatt la tesi difensiva del Comune sottolinendo che "è legittima la rilevazione della velocità di un autoveicolo effettuata tramite telelaser che non rilascia documentazione fotografica dell'avvenuta rilevazione nei confronti di un determinato veicolo, ma che consente unicamente l'accertamento della velocità in un determinato momento, restando affidata alla attestazione dell'organo di polizia stradale la riferibilità della velocità in quanto l'attestazione ben può integrare, con quanto accertato direttamente, la rilevazione elettronica attribuendo la stessa ad uno specifico veicolo".
Si tratta di un'attestazione, conclude la Corte, "assistita da efficacia probatoria fino a querela di falso".
I diritti del cittadino cosi vengono calpestati del tutto.
(Fonte: studiocataldi.it)

venerdì 16 settembre 2011

La morte della Giustizia in Italia.

La Giustizia in Italia?
Morta!
Fatta a pezzi da un singolo uomo...
fuori di testa...
che per salvare se stesso
ha distrutto un'Istituzione
di questo Stato.

venerdì 20 maggio 2011

Che bello ecco in arrivo un nuovo autovelox: il Sistema Prolaser Video.


Controllo Velocita' Mobile. I vantaggi del Sistema Prolaser Video
Ideale per il controllo moto, sicuro per gli operatori, inattaccabile dai Giudici di pace
Tra gli svantaggi delle postazioni fisse per il rilevamento delle infrazioni di velocità degli autoveicoli uno dei più gravi, anche se spesso non tenuto nella giusta considerazione, è la perdita del “valore educativo” del controllo sulle strade da parte degli operatori della sicurezza urbana ed extra urbana.
La consapevolezza,da parte degli automobilisti e dei motociclisti più imprudenti, che il territorio è monitorato da pattuglie dotate di sistemi di rilevamento mobile, crea una sorta di dubbio che li porterà ad analizzare i propri comportamenti e a rallentare.
A questo scopo la Detas di Brescia propone ai Comandi di Polizia ProLaser Video, un sistema di controllo della velocità mobile. Il dispositivo può iniziare a misurare la velocità e quindi a memorizzare su file l’eventuale trasgressione (superamento dei limiti di velocità, sorpasso vietato, ecc.) a partire da 800 metri, garantendo quindi l’incolumità dell’operatore.
Semplice da usare, l’apparecchio è ideale per il controllo delle moto e consente per ogni ripresa effettuata di rivedere la violazione in loco e di estrapolare molteplici immagini. Queste caratteristiche rendono le violazioni individuate da ProLaser Video inattaccabili dai Giudici di pace.
Caratteristiche tecniche
Alimentazione
Batteria piombo ermetica 12Vdc
7Ah ricaricabile (agm, gel)-
Presa accendisigari 12Vdc
Range di velocità da 8 a 320 km/h ± 2
Distanza di rilevazione (laser) da 3 a 1000 metri ± 0,1
Fascio laser
1 metro di diametro a 300 metri
3 metri di diametro a 1000 metri
Tempo di acquisizione 0,3 secondi a 95 km/h
Modello videocamera Panasonic HDC-SD60
Ingombro (laser e videocamera)
Altezza: 250 mm - Larghezza: 350 mm- Profondità: 105 mm
Durata con batteria 12V 7Ah a 25 °C 5 ore continue
Peso (laser e videocamera) 2,3 Kg.

mercoledì 18 maggio 2011

Roba da matti.

Questo Governo (Decreto del Ministero dell’Interno del 30 marzo 2011, pubblicato in G.U. il 16 maggio) per far confluire parte delle somme delle multe notturne (il 33% in più se commesse dalle 22 alle 7) ha previsto un "Fondo contro l'incidentalità notturna" con il fine di migliorare la sicurezza stradale. Ma per fare ciò si deve complicare la vita ai cittadini? Infatti il trasferimento sarebbe previsto però con un sistema balordo che creerà ancor più problemi e disagi ai cittadini italiani multati e non solo. Cioè la parte della sanzione in questione dovrebbe essere pagata utilizzando il modello F23 .....
Ma questi sono proprio impazziti ...... ma non hanno altro a cui pensare questi oltre a complicare la vita ancora di più ai cittadini?









lunedì 9 maggio 2011

Torna alla ribalta il "Celeritas" di Runzi (Rovigo).

Si era affrontato tempo fa su queste pagine l'argomento "Celeritas" il nuovo tipo di autovelox simile al più famoso "Tutor" collocato sulla S.P. 12 di Rovigo sul tratto Occhiobello - Bagnolo di Po. Chi scrive ha constatato di persona la situazione e ha difeso una ricorrente alla quale nel giro di pochi giorni (circa due mesi) sono stati notificati ben 17 verbali alcuni per aver superato anche di un solo km/h il limite di velocità stabilito.
Ebbene per quanti fossero interessati si assicura che è stata presentata una denuncia-querela alle autorità competenti. La denuncia segue quindi i ricorsi amministrativi e giurisdizionali ma soprattutto segue il procedimento penale che riguarda - come riportato dal "Fatto quotidiano" - addirittura la procedura di "omologazione".
Rimaniamo in attesa di sviluppi.

sabato 26 marzo 2011

Nessun addebito disciplinare può essere contestato al lavoratore che, a casa per malattia, si adegua alle prescrizioni del suo medico curante

Interessante la sentenza qui di seguito della Corte di cassazione che condivido per aver stabilito che nessun addebito disciplinare può essere contestato al lavoratore che, a casa per malattia, si adegua alle prescrizioni del suo medico curante. Nel caso di specie non é emerso lo svolgimento di alcuna attività lavorativa da parte del lavoratore ma solo l'attività quotidiana della vita .


Cassazione Lavoro, Sentenza n. 6375 del 21/03/2011
(Presidente, Vidiri – Relatore, Toffoli)
Svolgimento del processo
[OMISSIS] agiva con ricorso davanti al Tribunale di Alba nei confronti della sua datrice di lavoro s.p.a. [OMISSIS] impugnando il licenziamento intimatogli con lettera del 29.12.2004 che faceva seguito ad una contestazione disciplinare. Con la relativa lettera gli era stato addebitato di avere tenuto almeno nei giorni dal 29 novembre al 12 dicembre un comportamento incompatibile con la verosimile sussistenza dello stato patologico (distorsione della caviglia destra) denunciato come conseguente all’infortunio del 6.7.2004, chiuso il 12.8.2004 e riaperto il successivo 4 novembre, con prognosi di 20 giorni ripetutamente prorogata fino al 21 dicembre, oppure e comunque di avere tenuto un comportamento pregiudizievole per un buono e rapido recupero della integrità ed efficienza fisica.
La domanda era accolta dal Tribunale, che dichiarava l’illegittimità del licenziamento e condannava il datore di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento del danno.
A seguito di appello della soc. [OMISSIS], la Corte d’appello di Torino confermava la sentenza di primo grado.
La Corte di merito affermava l’inammissibilità, per la sua tardività, della produzione in appello da parte della [OMISSIS] di una perizia di parte, peraltro redatta da medico che non aveva mai visitato il G. Riteneva infondate le critiche mosse alle certificazioni mediche con cui era stato accertato in più occasioni e sedi lo stato di invalidità del lavoratore, le quali rappresentavano una serie coerente di documenti medici e attestavano anche il diligente sottoporsi del paziente a terapie orientate a favorirne la guarigione. Vi erano anche riscontri delle diagnosi nei rilievi strumentali eseguiti: radiografia del 27.7.2004, attestante flogosi estesa a carico del tendine flessore lungo il livello del cavo plantare, con versamento peritendineo; radiografia effettuata tre mesi dopo, pochi giorni prima della riapertura dell’infortunio, evidenziante notevole infiltrazione edematoso – flogistica a livello della sinoviale nei recesso peroneo – astragalico e con diagnosi attestante una discreta flogosi articolare tendinea in remota lesione legamentosa al momento da ritenere non risolta dei tutto, almeno dal punto di vista funzionale; risonanza magnetica del 16.11.2004, confermativa delle diagnosi precedenti, evidenziante la presenza di raccolta all’interno della guaina del tendine del flessore lungo dell’alluce e di os trigonum posteriormente all’astragalo, circondato da una modesta raccolta endoarticolare.
La Corte inoltre escludeva i dubbi sull’attendibilità del medico curante del G. sentito come teste e autore del certificato datato 22.12.2004, e quindi successivo alla contestazione disciplinare, con il quale egli aveva ricostruito la vicenda medica del lavoratore nei suoi vari passaggi, vicenda peraltro caratterizzata anche dall’attestazione dell’Inail. La Corte ricordava che tale medico aveva confermato di avere prescritto al G. , in particolare nell’ultimo periodo della sua astensione lavorativa, di compiere del movimento e, in particolare, di camminare. Secondo la Corte non doveva tanto discutersi circa l’appropriatezza o meno di detta prescrizione terapeutica, quanto rilevarsi, rispetto al fatto pacifico che il G. era stato visto mentre compiva delle uscite dalla propria abitazione pur essendo in infortunio, che tali uscite erano state ispirate da un parere del medico curante.
In definitiva, la Soc. [OMISSIS], che non aveva richiesto una visita di controllo ex art. 5 L. n. 300/1970 – come avrebbe potuto e dovuto al fine di contestare lo stato di inabilità lavorativa – avanzava ingiustificati dubbi riguardo alla vicenda, senza avere assolto l’onere della prova gravante sul datore di lavoro in materia di giustificazione del licenziamento; e insisteva per l’ammissione di una consulenza tecnica, (implicitamente) ritenuta dalla Corte non giustificata dal quadro probatorio. Quanto ai rilievi dell’appellante riguardo alle mansioni del G. indicate dal giudice di primo grado (addetto al reparto scelte speciali e ad attività da svolgersi costantemente in piedi, con continuo movimento dei corpo, sollevamento e spostamento dei carichi), osservava che, a parte che l’insieme dei compiti lavorativi indicati nel ricorso introduttivo non risultava essere mai stato contestato fino al giudizio di appello, sarebbe stato onere della Soc. [OMISSIS] fornire la prova della compatibilità delle mansioni con le condizioni di salute del ricorrente.
La s.p.a. [OMISSIS] ricorre per cassazione con tre articolati motivi. Il G. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato una memoria.
Motivi della decisione
Il primo motivo del ricorso denuncia violazione degli artt. 116, 421 e 61 c.p.c. e insufficiente e contraddittoria motivazione, con riferimento alla rilevanza e alla attendibilità attribuita alla deposizione del medico curante del lavoratore. Si sostiene la dimostrazione della compatibilità di attività extra lavorative svolte dal lavoratore durante la malattia con le esigenze terapeutiche non può essere basata su una deposizione testimoniale, anche se di un medico, invece che su una c.t.u..
Si lamenta anche che non si sia dato rilievo alla prova, quanto meno indiziaria, dello svolgimento di attività incompatibile, fornita dalla SIRE, e che si sia affermata l’imprescindibilità della richiesta di una visita di controllo.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 300/1970, dell’art. 5. l. n. 604/1966 e dell’art. 2697 c.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione.
Si ribadisce sotto il profilo della violazione dell’art. 5 legge n. 300/1970 la tesi della non necessità per il datore di lavoro del ricorso alle visite di controllo ivi previste per la dimostrazione di circostanze di fatto evidenzianti l’inesistenza della malattia, l’insussistenza di un’incapacità lavorativa o l’adozione di comportamenti comportanti la violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare o rallentare la guarigione. Al riguardo si ricorda l’esito delle constatazioni compiute dal personale investigativo incaricato dalla azienda. Si sostiene anche che una volta provata da parte del datore di lavoro l’attività svolta durante il periodo di malattia dai lavoratore, spetti a quest’ultimo provarne la compatibilità con la malattia impeditiva dell’attività lavorativa, risultandone altrimenti l’assenza ingiustificata.
Il terzo motivo denuncia omessa o insufficiente motivazione su un atto controverso e decisivo per il giudizio e violazione degli artt. 1175, 1375, 2104, 2105 c.c., nonché dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 3 della l. n. 604/1966.
Si sostiene che il lavoratore, una volta verificato, anche a seguito delle direttive, terapeutiche del suo medico curante, di poter svolgere una vita normale, avrebbe dovuto evitare di sollecitare ulteriori certificazioni di inabilità al lavoro e quanto meno rendere nota tale situazione all’ente previdenziale e al datore di lavoro.
Il ricorso, i cui tre motivi sono esaminati congiuntamente per la loro connessione, non è fondato.
In effetti la sentenza impugnata è sorretta da una motivazione adeguata e logica, oltre che immune da errori di diritto, circa la mancanza di prova di una violazione disciplinare a fondamento del licenziamento intimato. In particolare è stato bene evidenziato come la malattia posta a giustificazione dell’assenza del lavoratore abbia trovato ampio riscontro non solo nelle certificazioni mediche relative, provenienti anche dall’Inail, ente previdenziale pubblico, ma anche in puntuali esami strumentali corredati da analitiche diagnosi. In questo quadro, il rilievo del giudice di merito riguardo al fatto che il datore di lavoro avrebbe potuto e anche “dovuto” ricorrere alla procedura di controllo della malattia prevista dall’art. 5 legge n. 300/1970, oltre a non avere evidentemente un ruolo essenziale nella complessiva motivazione, è interpretabile nel senso non di una affermazione di principio di carattere generale – che come tale sarebbe inesatto, in quanto come è pacifico in giurisprudenza l’effettiva insussistenza della malattia certificata è dimostrabile anche al di fuori del ricorso a detta procedura – ma nel senso che, in relazione ai margini di opinabilità sul piano medico legale eventualmente sussistenti, come spesso accade, riguardo alla più congrua misura della prognosi di inabilità temporanea, in pratica solo il ricorso alla visita di controllo avrebbe potuto offrire ulteriori rilevanti elementi di valutazione, tanto più essendo in questione un’ipotesi di illecito disciplinare, rispetto al quale rileva anche l’elemento soggettivo.
Riguardo all’addebito al lavoratore di avere tenuto una condotta contrastante con le esigenze terapeutiche e di un rapido recupero, la motivazione è in via assorbente basata sui rilievo che nessun addebito al riguardo poteva essere mosso al lavoratore che si era adeguato alle prescrizioni del suo medico curante. Rispetto a tale motivazione, e tenuto anche presente che dalle indagini investigative richieste dall’attuale ricorrente non era emerso lo svolgimento di attività lavorative ma la ripresa di alcune attività della vita privata (spostamenti in città a piedi e in auto per acquisti e altro), cioè di attività di una gravosità di cui non è evidente la comparabilità a quella di un’attività lavorativa a tempo pieno, non può ritenersi che, neanche su un piano logico e di fatto (aspetto rilevante ai fini della logicità della motivazione), sussistesse l’onere per il lavoratore di provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all’attività lavorativa. Né, alla stregua della sentenza e del ricorso per cassazione, la società datrice di lavoro risulta avere fornito, come in linea di principio sarebbe stato suo onere, la prova di una natura degli impegni lavorativi dell’attuale resistente idonea ad evidenziare aspetti di illogicità e malafede nel comportamento del lavoratore.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio vengono regolate facendo applicazione del criterio legale della soccombenza (art. 91 c.p.c.).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la s.p.a. [OMISSIS] a rimborsare a [OMISSIS] le spese del giudizio determinate in Euro trentacinque oltre Euro tremila per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA secondo legge.
Depositata in cancelleia il 21 Marzo 2011

martedì 22 marzo 2011

La mediazione civile è una mezza sconfitta per gli avvocati?


Il 21 marzo u.s. con il decreto milleproroghe è diventata obbligatoria la mediazione per le controversie relative a diverse materie (diritti reali; divisione; successioni ereditarie; patti di famiglia; locazione; comodato; affitto di aziende; risarcimento del danno derivante da responsabilità medica; responsabilità da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità; contratti assicurativi, bancari e finanziari).
Per quanto riguarda invece il condominio e il risarcimento dei danni derivanti dalla cirolazione dei veicoli e dei natanti è tutto rinviato al 21 marzo 2012.
Invero d'ora in avanti la parte che intende agire in giudizio prima di adire il Tribunale ha l’onere di tentare la mediazione e deve essere informata dal proprio avvocato con un documento sottoscritto dall’assistito.
Il giudice, qualora rilevi la mancata allegazione del documento all’atto introduttivo del giudizio, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione. La durata di questo nuovo procedimento di mediazione dovrebbe avere (meglio essere prudenti) la durata massima di 4 mesi.

La mediazione civile mi dà lo spunto per dire la mia su questa materia.
Invero io credo che tutto ciò sia una mezza sconfitta per l'ordine professionale come quello degli avvocati soprattutto per quelli che nella loro carriera hanno sottovalutato quanto previsto dal codice deontologico soprattutto l'art. 40 che cosi recita: "L'avvocato è tenuto ad informare chiaramente il proprio assistito all'atto dell'incarico delle caratteristiche e dell'importanza della controversia o delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione possibili. L'avvocato è tenuto altresì ad informare il proprio assistito sullo svolgimento del mandato affidatogli, quando lo reputi opportuno e ogni qualvolta l'assistito ne faccia richiesta. Se richiesto, è obbligo dell'avvocato informare la parte assistita sulle previsioni di massima inerenti alla durata e ai costi presumibili del processoE' obbligo dell'avvocato comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di determinanti atti al fine di evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso di trattazione. Il difensore ha l'obbligo di riferire al proprio assistito il contenuto di quanto appreso nell'esercizio del mandato se utile all'interesse di questi".
Ma in particolare la sconfitta susssite, a parere di chi scrive, in quanto alcuni professionisti del settore nello svolgere la propria professione pare abbiano dimenticato del tutto il contenuto del regolamento deontologico e cioè: dell'art. 6. - Doveri di lealtà e correttezza; dell'art. 7. - Dovere di fedeltà; dell'art. 8. - Dovere di diligenza; dell'art. 12. - Dovere di competenza;  dell'art. 19. - Divieto di accaparramento della clientela; dell'art. 23. - Rapporto di colleganza e dovere di difesa nel processo; dell'art. 35. - Rapporto di fiducia; dell'art. 38. - Inadempimento al mandato; dell'art. 40. - Obbligo di informazione.

venerdì 18 marzo 2011

Autovelox taroccati, 558 denunce: via tutti gli autovelox dalle strade senza la contestazione immediata!

Scandaloso Scandaloso e Scandaloso!!!
Si continua ancora a commercialiazzare autovelox di tutti i tipi e basta!!
Questi imprenditori e amministratori si stanno arricchendo alle nostre spalle !!!!!!!!!!!

venerdì 18 marzo 2011
(red.) Una ditta bresciana è coinvolta in una maxi inchiesta sugli apparecchi autovelox manomessi e illegalmente installati sulle strade dei comuni italiani.
La Guardia di Finanza di Brescia ha dato notizia dei dati relativi all' operazione "512" su un giro di autovelox taroccati e utilizzati in molte regioni italiane.
Le indagini, condotte dalla tenenza di Desenzano del Garda sono state svolte parallelamente a un'altra inchiesta, della Guardia di Finanza di Sala Consilina (Salerno), anch'essa riguardante un uomo di 60 anni, originario del mantovano, ma residente a Desenzano del Garda.
Entrambe le indagini hanno consentito di appurare, secondo quanto emerso, che Diego Barosi, attraverso una cinquantina di autovelox, dei quali solo due omologati, sarebbe riuscito ad ottenere appalti con le amministrazioni comunali, attraverso finte gare a cui partecipavano solo ditte a lui riconducibili.
In altri casi l'indagato bresciano offriva servizi aggiuntivi, quali il videoterminalista incaricato d'occuparsi dell'autovelox. Secondo le indagini, Barosi prendeva una percentuale sulle multe. In alcuni casi l' autovelox è risultato taroccato in modo da registrare una velocità superiore del 15% rispetto a quella reale.
L’inchiesta della Guardia di Finanza di Brescia ha riguardato la Garda Segnale di Desenzano, produttrice dei dispositivi di controllo stradale.
Secondo l’accusa gli apparecchi sono stati clonati, manomessi ed installati illegalmente su centinaia di strade italiane tra il 2007 e il 2009.
558 le persone denunciate, 146 le amministrazioni comunali coinvolte di cui due bresciane, quelle di Urago d’Oglio e di Toscolano Maderno, 367 funzionari pubblici controllati, per una frode fiscale che ammonterebbe a oltre venti milioni di euro.
L’inchiesta dei finanzieri è stata condotta in un arco di tempo di cinque anni.
Diego Barosi sarebbe riuscito a stabilire con i 146 comuni finiti nel mirino della Guardia di Finanza un accordo per la cessione a costo pari quasi zero degli apparecchi autovelox, alcuni dei quali irregolari, perché privi della matricola di omologazione.
Sessantasei le procure della Repubblica che hanno indagato sulla vicenda. A vario titolo sono contestati: associazione a delinquere, frode fiscale e falsa fatturazione, bancarotta fraudolenta.
L’uomo, grazie a verbali emessi da compiacenti funzionari amministrativi, guadagnava il 40% su ogni contravvenzione comminata.
Se si pensa che le multe irregolari rilevate in tutta Italia attraverso i dispositivi della Garda Segnale sono state 82mila per un valore di 11,5 milioni di euro, si comprende bene quale giro di affari si muovesse dietro al business degli autovelox taroccati.
Infatti, grazie alla maxi frode, Barosi avrebbe evaso, nel corso degli anni, in 27 società a lui riconducibili, quasi cinque milioni di euro, mentre sarebbero 18 i milioni di euro sottratti a tassazione. Nelle fasi dell'inchiesta, la vicenda venne portata alla ribalta nazionale da un servizio televisivo delle 'Iene'.
L’uomo è indagato in stato di libertà.
Fonte: qui.

mercoledì 2 febbraio 2011

Ernesto Lupo: il numero degli avvocati e` eccessivo

Condivido in pieno l'assunto del primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, nel suo discorso inaugurale al nuovo anno giudiziario, del 28 gennaio, ha sottolineato la presenza, in Italia, di un numero di legali “enormemente superiore ai bisogni sociali”;
per ogni giudice, ci sarebbero ben 32 avvocati quando in Francia sono solo 8 ed in Inghilterra 5.
Non solo. Anche il rapporto avvocati/abitanti sarebbe sproporzionato con 332 legali per 100 mila cittadini contro i 75 della Francia. L'eccessivo numero degli avvocati - spiega Lupo – condizionerebbe anche il carico di processi pendenti per l'insufficiente attività di filtro posta in essere da parte della classe forense.
Io aggiungo che un numero cosi alto di professionisti può indurre qualcuno ad esagerare.... pur di lavorare...
Quindi condivido in pieno.
All'allarme lanciato dal Presidente Lupo, risponde il Cnf a mezzo del suo rappresentante, Guido Alpa, sottolineando come la soluzione per sfoltire l'eccessivo numero dei professionisti legali starebbe nel testo di riforma dell'ordinamento forense e, quindi, nelle mani del Governo e del Parlamento.
Ivi, sono previsti, infatti, sia dei più stretti limiti all'accesso alla professione sia un rafforzamento dei controlli sui professionisti iscritti all'albo che non esercitano in modo continuativo.

martedì 25 gennaio 2011

Il testo della sentenza della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento.

SENTENZA N. 23



ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA



IN NOME DEL POPOLO ITALIANO



LA CORTE COSTITUZIONALE



composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,



ha pronunciato la seguente



SENTENZA



nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza) promossi dal Tribunale di Milano, sezione I penale e sezione X penale, con ordinanze del 19 e del 16 aprile 2010 e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano con ordinanza del 24 giugno 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 173, 180 e 304 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 24 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2010.



Visti gli atti di costituzione di S.B. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;



udito nell’udienza pubblica dell’11 gennaio 2011 il Giudice relatore Sabino Cassese;



uditi gli avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo per S.B. e gli avvocati dello Stato Michele Dipace e Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri.



Ritenuto in fatto



1. – Il Tribunale di Milano, sezione I penale, con ordinanza del 19 aprile 2010 (reg. ord. n. 173 del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 1, 3 e 4, della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza), per violazione dell’art. 138 della Costituzione.



1.1. – Il collegio rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha dedotto e documentato, per l’udienza del 12 aprile 2010, un legittimo impedimento a comparire, consistente nell’impegno dell’imputato stesso a svolgere, nella sua qualità di Presidente del Consiglio dei ministri, un viaggio di Stato. Il Tribunale riporta inoltre che, a fronte della richiesta di ulteriori date utili per la prosecuzione del giudizio, la difesa dell’imputato, ai sensi della disciplina censurata, ha formulato richiesta di rinvio al 21 luglio 2010, producendo attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri di impedimento continuativo dell’imputato motivato mediante riferimento esemplificativo a plurime attività governative da svolgere nel periodo intercorrente fra il 9 aprile e il 21 luglio 2010.



Il giudice a quo espone che il pubblico ministero si è opposto alla richiesta di rinvio, sulla base di una interpretazione logica e sistematica della disciplina censurata, tale da consentire al giudice di valutare l’assolutezza dell’impedimento a comparire dedotto dal Presidente del Consiglio dei ministri. In particolare, secondo l’interpretazione proposta dal pubblico ministero, «la mera attestazione di un impegno continuativo e correlato all’esercizio delle funzioni» indicate dalla disciplina censurata «non precluderebbe al giudice l’accertamento della sussistenza in concreto dell’assoluto impedimento a comparire dell’imputato per il periodo indicato nell’attestazione» stessa. In subordine, secondo quanto riferisce il Tribunale rimettente, il pubblico ministero ha dedotto l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nell’ipotesi in cui essa dovesse intendersi come preclusiva di un sindacato del giudice in ordine alla sussistenza in concreto del legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri.



Ad avviso del giudice a quo, l’interpretazione del pubblico ministero non può essere condivisa, in quanto la disciplina censurata qualifica come legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420-ter del codice di procedura penale, «non solo le varie attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti con riguardo alla funzione ministeriale», ma anche le relative «attività preparatorie e consequenziali», nonché ogni «attività comunque coessenziale alle funzioni di governo», imponendo, inoltre, il rinvio del processo ove la Presidenza del Consiglio dei ministri «attesti che l’impedimento è continuativo e correlato» allo svolgimento delle suddette funzioni.



Alla luce di tali circostanze, il Tribunale rimettente ritiene che la disciplina censurata non si limiti «ad integrare la previsione di cui all’art. 420-ter del c.p.p.», introducendo «casi ulteriori di legittimo impedimento legati a situazioni specificamente individuate» e tipizzando «taluni atti o attività di governo come integranti la fattispecie legale di impedimento», ma sostanzialmente identifichi l’intera attività di governo «(peraltro mediante un meccanismo di autocertificazione) con l’assoluta impossibilità a comparire». Ciò si traduce, ad avviso del giudice a quo, nella privazione del potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza dell’impedimento con riferimento ad uno specifico impegno correlato alla singola udienza. In altri termini – osserva ancora il collegio rimettente – la definizione di legittimo impedimento di cui alla disciplina censurata è talmente ampia e generica da risolversi in una «presunzione assoluta di impedimento», considerata quale situazione legata non già ad un «fatto contingente», ma ad uno «status permanente», con conseguente venir meno della possibilità del giudice di accertare la «sussistenza in concreto» dell’impedimento stesso.



L’impossibilità di seguire l’interpretazione proposta dal pubblico ministero rende rilevante, ad avviso del Tribunale rimettente, la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata. Secondo il giudice a quo, tale questione sarebbe non manifestamente infondata, dal momento che «le disposizioni in esame, introducendo una presunzione iuris et de iure di impedimento continuativo per un lungo periodo di tempo connessa alle funzioni di governo si sostanziano in una norma di status derogatoria dell’ordinaria giurisdizione e dunque in una prerogativa che richiede una copertura costituzionale».



Ad avviso del Tribunale rimettente, infatti, la disciplina censurata, stabilendo a priori e in modo vincolante che la titolarità e l’esercizio di funzioni pubbliche costituiscono sempre legittimo impedimento per rilevanti periodi di tempo, prescindendo da qualsiasi valutazione del caso concreto, si tradurrebbe nella «statuizione di una vera e propria prerogativa dei titolari delle cariche pubbliche diretta a tutelarne non già il diritto di difesa nel processo bensì lo status o la funzione», realizzandosi, in tal modo, «la medesima situazione già analizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 262 del 2009». Inoltre, secondo il giudice a quo, la circostanza che la stessa legge censurata indichi espressamente la propria «funzione di legge ponte», in vista della successiva entrata in vigore di una organica disciplina costituzionale delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, ne renderebbe esplicita «la ratio di anticipazione di una disciplina innovativa in una materia che deve essere necessariamente introdotta con procedimento costituzionale» e confermerebbe, quindi, la violazione dell’art. 138 Cost.



1.2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata non fondata.



1.2.1. – Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il giudice a quo deduce l’illegittimità costituzionale della disciplina censurata erroneamente presupponendo che essa introduca una prerogativa o immunità in favore del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, ciò che, per pacifica giurisprudenza costituzionale, potrebbe avvenire solo mediante legge costituzionale. In realtà, ad avviso della difesa dello Stato, la finalità delle disposizioni oggetto di censura, come emergerebbe anche dai lavori preparatori, sarebbe quella di «identificare normativamente le attività, esercitate da soggetti che rivestono cariche pubbliche di rilievo costituzionale, che costituiscono impedimento a comparire nelle udienze del procedimento penale nel quale risultano imputati». Tali disposizioni – osserva l’Avvocatura generale dello Stato – sono quindi dirette ad integrare la disciplina generale contenuta nell’art. 420-ter cod. proc. pen. e a «tipizzare gli atti, o meglio le attività di governo, che si traducono in altrettante fattispecie di legittimo impedimento». Simile tipizzazione legislativa si rivelerebbe necessaria, secondo il punto di vista della difesa dello Stato, allo scopo di adattare le soluzioni indicate da questa Corte con riferimento all’impedimento a comparire dei membri del Parlamento (sentenza n. 225 del 2001, secondo cui in particolare il giudice «ha l’onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari») alla diversa fattispecie del legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, le cui attività, rispetto a quelle dei parlamentari, «si svolgono con modalità e cadenze temporali […] più eterogenee e non facilmente preventivabili» e sono «più soggett[e] a variazioni, atteso che l[e] stess[e] dev[ono] tenere conto di svariate evenienze». L’intervento legislativo della cui legittimità si dubita, secondo la difesa dello Stato, sarebbe dunque rivolto a tipizzare, anche a fini di certezza del diritto e allo scopo di evitare divergenti interpretazioni giurisprudenziali, «le ipotesi in cui lo svolgimento dell’attività governativa rende assolutamente impossibile, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri», la comparizione in giudizio, in quanto essa precluderebbe «lo svolgimento di attività istituzionali non delegabili».



L’Avvocatura generale dello Stato ritiene, inoltre, che la disciplina censurata, a differenza della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato), non determini «in via automatica» la sospensione del processo. In primo luogo, essa si limiterebbe a consentire all’imputato di ottenere, «volta per volta», il rinvio dell’udienza. In secondo luogo, le funzioni di governo in grado di giustificare la richiesta di rinvio troverebbero un «esplicito fondamento normativo in fonti di rango primario o secondario» espressamente richiamate, o sarebbero comunque «adeguatamente determinate e agevolmente individuabili atteso il loro carattere strettamente strumentale rispetto a quelle specificamente indicate con il richiamo delle rispettive fonti normative» (attività preparatorie, consequenziali o comunque coessenziali alle funzioni di governo). Infine, il giudice non sarebbe privato del potere di accertare «la sussistenza in concreto» del legittimo impedimento, perché egli potrebbe comunque valutare «se l’attività governativa dedotta quale legittimo impedimento rientri fra le ipotesi previste dalle disposizioni» censurate. Al giudice, pertanto, resterebbe solo precluso il potere di «sindacare se le attività istituzionali indicate» da tali disposizioni siano, «una volta provatane in fatto l’esistenza, causa di legittimo impedimento»: se così non fosse, si avrebbe, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, un inammissibile sindacato del giudice penale sulle ragioni politiche sottese all’esercizio delle attività istituzionali degli organi costituzionali.



La difesa dello Stato esclude, quindi, che la disciplina censurata costituisca, come invece affermato dal giudice a quo, una prerogativa o immunità tale da richiedere copertura costituzionale. Si tratterebbe, invece, di un intervento legislativo di «modulazione» dell’istituto generale del legittimo impedimento, che, in definitiva: «non comporta esenzione dalla giurisdizione penale»; «non prevede una sospensione generale e automatica del procedimento penale»; «ha, quale unico effetto processuale, quello del rinvio del processo ad altra udienza su richiesta di parte»; prevede un rinvio che «non ha una durata indeterminata» e, nell’ipotesi di impedimento continuativo, comunque «non può essere superiore a sei mesi»; «non comporta una presunzione assoluta di legittimo impedimento, ma soltanto l’indicazione di categorie di attività istituzionali che possono comportare la richiesta del rinvio dell’udienza a tutela del diritto di difesa dell’imputato in coerenza con l’esercizio dei propri doveri costituzionali»; «contiene un ragionevole bilanciamento dei due valori costituzionali, quello dell’esercizio della giurisdizione e quello dell’esercizio delle attività politico-istituzionali dei membri del Governo, senza far prevalere l’uno sull’altro e soprattutto senza sacrificarne nessuno».



Né può sostenersi, secondo la difesa dello Stato, che il rinvio effettuato dall’art. 2 della legge n. 51 del 2010 ad una successiva organica disciplina costituzionale delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri dimostri il carattere di prerogativa di quanto disposto dalla disciplina censurata. Tale richiamo, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, «vuol significare soltanto che – correttamente – sarà una legge costituzionale a disciplinare le vere prerogative dei membri del Governo», mentre, fino a quel momento, «rimarranno in vigore specifiche previsioni di legge ordinaria (come quella in esame) inerenti a specifici aspetti della materia che al concetto di prerogativa non sono certo riconducibili». Del resto, il disegno di legge costituzionale effettivamente presentato (A.S. n. 2180, recante «Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato»), costituisce, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, un intervento legislativo che ha un contenuto ben diverso rispetto a quello della disciplina censurata. Il disegno di legge, infatti, disporrebbe «la sospensione della giurisdizione nei confronti delle alte cariche dello Stato al fine di fornire una obiettiva protezione del regolare svolgimento delle attività connesse alla carica stessa». La legge n. 51 del 2010, invece, prevederebbe un impedimento a comparire «in caso di concomitante esercizio di una o più attribuzioni previste dalle leggi e dai regolamenti» per le alte cariche, senza «sospende[re] l’esercizio della giurisdizione», né «crea[re] un particolare status giuridico per tale carica», ma limitandosi a disporre un «rinvio dell’udienza con conseguente sospensione della prescrizione per l’intera durata del rinvio».



Infine, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la scelta normativa, «particolarmente stigmatizzata dal giudice a quo», di attribuire alla Presidenza del Consiglio dei ministri il compito di attestare la continuatività e la correlazione con lo svolgimento delle funzioni governative dell’impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, troverebbe invece giustificazione «nella necessità ed opportunità di attribuire tale delicato compito ad un soggetto […] distinto rispetto al Presidente del Consiglio dei Ministri coinvolto nel processo penale come imputato», mentre sarebbe stato «irragionevole» lasciare a quest’ultimo «il compito di autocertificare che l’impedimento presenta carattere continuativo».



1.2.2. – In data 23 novembre 2010, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, memoria illustrativa, ribadendo le ragioni dedotte con l’atto di intervento e insistendo per l’inammissibilità e l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata.



La difesa dello Stato deduce l’inammissibilità della questione sostenendo, in primo luogo, che l’ordinanza di rimessione non preciserebbe i fatti del processo a quo, né indicherebbe i reati per i quali esso viene celebrato, in tal modo non permettendo a questa Corte di valutare la rilevanza della questione, se non violando il principio di autosufficienza dell’atto di rimessione. Il giudice rimettente, in secondo luogo, ad avviso della difesa statale, non avrebbe «spiegato perché non potesse decidere sulla richiesta di rinvio dell’udienza, formulata dalla difesa dell’imputato […] in quanto quest’ultimo era assolutamente impossibilitato a presenziare alla medesima udienza per legittimo impedimento concretatesi in impegni istituzionali specificamente indicati dall’attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri e facilmente accertabili da parte del Tribunale indipendentemente dalla risoluzione della pregiudiziale costituzionale avente ad oggetto l’art. 1, commi 1, 3 e 4, della legge n. 51 del 2010». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, quindi, il giudice a quo non avrebbe fornito alcuna giustificazione in relazione al fatto che l’istanza difensiva non potesse essere valutata e decisa alla stregua della disciplina di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. La questione, pertanto, sarebbe stata proposta non all’esito della necessaria verifica della sua rilevanza, bensì «per sindacare la legittimità costituzionale di una norma di legge senza fornire la prova della incidenza della stessa in concreto sul processo in corso».



Nel merito, la difesa dello Stato ribadisce quanto dedotto nell’atto di intervento, rimarcando che le disposizioni della legge n. 51 del 2010 non si discosterebbero dalla logica dell’art. 420-ter cod. proc. pen., «di cui precisano soltanto alcune fattispecie di impedimento e pertanto non hanno la finalità di proteggere la funzione pubblica, in sé e per sé considerata, creando una prerogativa ovvero un’immunità per specifici imputati, ma sono volte a tutelare il diritto di difesa dell’imputato che in un determinato periodo di tempo (es. giorno dell’udienza) è impedito a partecipare al processo per un proprio impegno istituzionale non prorogabile». La normativa censurata, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, non introduce alcuna forma di immunità, ma «specifica, tipizzandola (e, peraltro, riducendola significativamente)» la portata dell’istituto dell’impedimento a comparire già previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen. Né potrebbe dirsi, sostiene la difesa dello Stato, che si sia dinanzi a una presunzione iuris et de iure, in base alla quale la legge n. 51 del 2010 avrebbe privato il giudice del potere di qualsiasi valutazione con riferimento al caso concreto, dal momento che «il giudice è tenuto ad accertare quando ricorrono le ipotesi previste dall’art. 1, comma 1, della legge e rinviare il processo solo accertata la sussistenza di tali casi».



1.3. – Si è costituito in giudizio, con atto depositato in data 5 luglio 2010, l’imputato nel giudizio principale, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.



1.3.1. – L’imputato nel giudizio principale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità della questione sollevata, in ragione della omessa descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, tale da non permettere alla Corte di valutarne compiutamente la rilevanza. Egli nega che, in relazione alle norme processuali, risulti attenuato l’obbligo del giudice a quo di descrivere puntualmente la fattispecie sottoposta al suo esame e comunque ritiene che, ove pure si volesse aderire a tale tesi, la mancata descrizione della fattispecie sarebbe, nel caso in esame, così «drastica» da determinare comunque l’inammissibilità della questione. Sostiene la parte privata, infatti, che l’ordinanza di rimessione: non chiarisce a quali reati si riferisce l’imputazione, né dove e quando gli stessi sarebbero stati commessi, né se siano contestate ipotesi di concorso con altre persone; non fornisce una puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione » della norma censurata; non indica lo stato in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi al giudice a quo. Ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui la Corte «deve avere necessariamente contezza […] per comprendere l’impatto che l’applicazione» della disciplina censurata potrebbe avere sul giudizio principale, neppure potrebbero essere ricavati «ricorrendo alle deduzioni delle altre parti intervenute, o alla visione diretta del fascicolo, o, addirittura, a fatti ritenuti notori».



L’imputato nel giudizio principale, inoltre, deduce, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto della rilevanza in concreto della questione sollevata dal giudice rimettente, per aversi la quale sarebbe «necessario che l’interpretazione non costituzionale della legge, oltre ad essere l’unica possibile, supporti ed orienti l’applicazione che nel medesimo contesto il giudice si accingerebbe a farne». Ciò non accadrebbe nel caso in esame, nel quale la difesa dell’imputato, all’udienza del 12 aprile 2010, da un lato, ha prospettato un legittimo impedimento per il giorno stesso, rappresentato da un viaggio di Stato a Washington D.C., negli Stati Uniti d’America, e, dall’altro lato, ha prodotto attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri di legittimo impedimento continuativo fino al successivo 21 luglio.



Alla luce di tali circostanze, secondo l’imputato nel giudizio principale, la rilevanza in concreto difetterebbe per due ragioni.



In primo luogo, la questione sarebbe stata sollevata «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza dell’impedimento puntuale, valevole hic et nunc per l’udienza del 12 aprile 2010, dato dal viaggio di Stato a Washington». L’imputato nel giudizio principale chiarisce che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri è stata prodotta al solo fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i giorni del 21 e del 28 luglio, date che però il Tribunale rimettente non avrebbe neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata.



In secondo luogo, l’imputato nel giudizio principale rileva che, ove pure «si ritenesse che la mera esibizione dell’attestazione […] equivalga a una richiesta di applicazione della stessa, pur in presenza di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno dell’udienza in cui avviene detta esibizione», tale attestazione si è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più di tre mesi, inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe avuto quindi, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè di una disciplina che produce una sospensione del dibattimento per tre mesi, mentre il giudice a quo – rileva la parte privata - «discetta in astratto di “rilevanti periodo di tempo” in cui potrebbe essere fatto valere il legittimo impedimento».



Nel merito, l’imputato nel giudizio principale ritiene che il Tribunale rimettente abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata sulla base dell’erroneo presupposto che essa abbia introdotto un meccanismo che, «al di là dell’evocazione del nomen di legittimo impedimento, costituirebbe in realtà una prerogativa connessa alla carica costituzionale di Presidente del Consiglio dei ministri e richiederebbe pertanto una fonte di rango costituzionale».



Innanzitutto, la circostanza su cui il Tribunale rimettente fonderebbe questo assunto, cioè l’asseritamente prevista sottrazione del potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza dell’impedimento, è negata dall’imputato nel giudizio principale. Questi infatti osserva come «nulla viet[i] al giudice, al quale venga esibita l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri» di cui alla disciplina censurata, «sia di controllare l’autenticità della stessa, sia di chiedere […] ulteriori precisazioni in merito all’attività di governo che deve essere compiuta», restandogli soltanto preclusa la possibilità «di sindacare il merito dell’attività di governo, giudicandola più o meno importante e necessaria», ciò che peraltro contrasterebbe anche con il principio di separazione dei poteri.



Inoltre, la «facoltà del giudice di entrare nel merito della fondatezza del legittimo impedimento», ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, non sarebbe «così coessenziale alla natura stessa dell’istituto» da far escludere che possa rientrare nella categoria del legittimo impedimento (e non in quella della prerogativa costituzionale) anche «un’ipotesi di impedimento qualificato a monte come legittimo da una fonte di rango ordinario, rispetto al quale il giudice possa solo verificare se si versi o meno nei casi previsti dalla legge». Ragionando in via analogica, l’imputato nel giudizio principale ritiene che non potrebbe ritenersi preclusa al legislatore ordinario «la compilazione di un elenco di patologie invalidanti in presenza delle quali il giudice fosse costretto a riconoscere il legittimo impedimento dell’imputato che ne sia affetto», potendo «disporre accertamenti sulla veridicità del certificato», ma senza «sindacare la ragionevolezza della scelta legislativa di inserire nell’elenco una patologia piuttosto che un’altra». Una simile disciplina, infatti, «non cancellerebbe la natura di legittimo impedimento» dell’imputato «affetto da una delle patologie legislativamente previste, per trasformare questa evenienza in una prerogativa per quel tipo di malati».



Ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, dunque, il Tribunale rimettente, nel negare che la disciplina censurata preveda una ipotesi di legittimo impedimento, muoverebbe da un presupposto giuridico errato e, di conseguenza, evocherebbe un parametro costituzionale (art. 138 Cost.) non pertinente, dal momento che «nessuno può seriamente dubitare che una tipizzazione da parte del legislatore di alcuni casi di legittimo impedimento debba e possa avvenire con legge ordinaria». Quest’ultima – osserva ancora l’imputato nel giudizio principale – deve realizzare un ragionevole bilanciamento fra i valori costituzionali in gioco (diritto di difesa e obbligatorietà dell’azione penale e ragionevole durata del processo), che è oggetto di sindacato da parte della Corte costituzionale. Ma l’ordinanza di rimessione trascurerebbe completamente di considerare il profilo della «ragionevolezza del concreto bilanciamento di interessi operato» dalla disciplina censurata, rimanendo invece «ancorata al pregiudizio della “prerogativa dei titolari delle cariche pubbliche diretta a tutelare non già il diritto di difesa del processo bensì lo status e le funzioni”».



La tesi che la disciplina censurata introduca una prerogativa costituzionale sarebbe ulteriormente contraddetta, ad avviso della parte privata, dal suo carattere temporaneo: una normativa destinata «a dispiegare i propri effetti nell’ordinamento al più per i diciotto mesi successivi alla sua pubblicazione», infatti, non potrebbe «integrare una prerogativa costituzionale, a meno di non voler pensare che le prerogative costituzionali possano avere una scadenza».



Né la tesi della prerogativa costituzionale potrebbe trarre conforto dalla circostanza che la disciplina censurata «preannuncia una riforma costituzionale» delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri. Secondo l’imputato nel giudizio a quo, tale argomento, adoperato dal giudice rimettente, «equipara in modo del tutto arbitrario il contenuto» della normativa oggetto di censura con quello della futura disciplina costituzionale. Quest’ultima, secondo l’imputato nel giudizio principale, nel dettare una disciplina costituzionale organica delle prerogative dei membri del Governo potrà regolare «anche […] l’interazione fra le suddette prerogative e […] istituti previsti da leggi ordinarie […] quali il legittimo impedimento». Ma ciò non significa che le disposizioni censurate intendano «anticipare a livello di legge ordinaria gli effetti di una riforma costituzionale». Esse, invece, secondo la parte privata, risponderebbero allo scopo di «regolare in modo estremamente equilibrato un lasso di tempo intermedio fra la mancanza assoluta di una disciplina che si occupi delle eventuali difficoltà che il Presidente del Consiglio dei ministri e i Ministri possono trovare a difendersi efficacemente in un processo penale che li veda imputati e l’approvazione di una legge costituzionale che ridefinisca lo status di queste cariche».



Il carattere equilibrato del contemperamento di interessi realizzato dalla disciplina transitoria censurata sarebbe inoltre dimostrato, ad avviso dell’imputato nel giudizio a quo, dalle seguenti ulteriori circostanze. In primo luogo, la disciplina prevede la sospensione del decorso della prescrizione, con la conseguenza che per effetto del legittimo impedimento «la situazione processuale viene semplicemente congelata senza alcun effetto pregiudizievole sul piano sostanziale». In secondo luogo, l’applicazione concreta di tale disciplina nel giudizio a quo permetterebbe presumibilmente di realizzare un equo bilanciamento degli interessi in gioco, atteso che l’imputato nel processo principale si è raramente avvalso dell’istituto del legittimo impedimento, permettendo così la celebrazione di ben 83 udienze. Infine, il periodo massimo di differimento del processo, consentito dalle disposizioni oggetto di censura, è di appena sei mesi, che è intervallo di tempo assai più breve rispetto al periodo di sospensione che si determina per effetto della remissione alla Corte costituzionale della questione di legittimità sollevata dal giudice a quo.



1.3.2. – In data 22 novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha depositato memoria illustrativa, ribadendo l’infondatezza della questione. Nella memoria, la parte privata illustra le vicende del processo a quo, in relazione alla celebrazione delle udienze e alle richieste di rinvio fino al giorno 19 aprile 2010, al dichiarato fine di consentire a questa Corte di «valutare la ragionevolezza di quanto deciso dal Tribunale di Milano a fronte di una richiesta di rinvio corredata anche dall’indicazione di possibili date per la celebrazione delle successive udienze». Dalle vicende del giudizio principale emergerebbe come «la difesa abbia rigorosamente interpretato quei canoni ermeneutici offerti» dalla Corte «per individuare il concetto di leale collaborazione processuale, concordando le date, non frapponendo impedimenti pretestuosi, consentendo la celebrazione delle udienze anche quando l’imputato era impedito, se la sua partecipazione non era oggettivamente necessaria». Con osservazioni estese anche ai giudizi di cui al reg. ord. nn. 180 e 304 del 2010, inoltre, la parte privata sostiene che i rinvii richiesti per legittimo impedimento sarebbero stati sempre limitati e rispettosi dell’attività giudiziaria e che le attestazioni fornite sono state sempre assai inferiori al termine massimo dei sei mesi. Sarebbe quindi stato sufficiente, conclude la difesa dell’imputato nel giudizio principale, applicare i canoni di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. per poter continuare i processi.



2. – Il Tribunale di Milano, sezione X penale, con ordinanza del 16 aprile 2010 (reg. ord. n. 180 del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 51 del 2010, per violazione degli artt. 3 e 138 Cost.



2.1. – Il collegio rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel giudizio principale, al quale è contestato il reato di cui agli artt. 110, 319, 319-ter e 321 del codice penale, ha anticipato via fax, in data 14 aprile 2010, una richiesta di rinvio dell’udienza del 16 aprile (data che era stata indicata dal Tribunale, nel corso della precedente udienza del 27 febbraio 2010, insieme a quelle, successive, del 30 aprile, 7 maggio, 12 maggio e 29 maggio del 2010), deducendo legittimo impedimento consistente nell’impegno a presiedere il Consiglio dei ministri convocato per lo stesso giorno. Il Tribunale rimettente espone che, nel corso dell’udienza del 16 aprile, la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha prodotto copia dell’ordine del giorno del Consiglio dei ministri (datato 14 aprile 2010) e ha esibito l’originale, producendo copia, «dell’attestazione del Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri relativa alla continuatività dell’impedimento correlato allo svolgimento delle funzioni di governo» ai sensi della legge censurata. Il giudice a quo riferisce, inoltre, che il pubblico ministero ha domandato il rigetto della richiesta di rinvio, negando il carattere assoluto dell’impedimento alla luce dei punti posti all’ordine del giorno della seduta del Consiglio dei ministri del 14 aprile 2010 e della circostanza per cui l’impedimento è intervenuto successivamente alla fissazione concordata del calendario del processo, mentre la difesa dell’imputato ha ribadito la rilevanza dei temi posti all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri e, dunque, il carattere assoluto dell’impedimento.



Ad avviso del Tribunale rimettente, ai fini della decisione sulla richiesta di rinvio e della prosecuzione del dibattimento, è «imprescindibile» accertare preliminarmente se, in applicazione della disciplina legislativa censurata, il giudice «mantenga», conformemente alla natura stessa dell’«istituto generale» del legittimo impedimento di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen., «il potere-dovere di verificare l’effettiva sussistenza dell’impedimento», mediante un «accertamento di fatto da effettuarsi caso per caso e in concreto». La disciplina censurata, secondo il collegio rimettente, sottrae al giudice tale potere di valutazione. Essa, infatti, non contiene una «disciplina[..] presuntiva[…]» dell’istituto «in relazione a specifiche situazioni di fatto» e «coerente[…] con il sistema delineato dall’art. 420-ter di applicazione generale». L’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, ad avviso del giudice a quo, «stila[…] un elenco» di impedimenti legittimi che include anche le «attività preparatorie e consequenziali, nonché […] ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo». La «genericità» di tale formulazione limiterebbe la possibilità del giudice di apprezzare l’effettività dell’impedimento rispetto alla singola udienza, ciò che risulterebbe rafforzato dal dettato del comma 4 del medesimo art. 1, secondo cui «il giudice rinvia il processo a seguito di certificazione che attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni» di governo. Da tutto ciò il collegio rimettente conclude che, in base alla disciplina censurata, «il rinvio è imposto da ragioni genericamente indicate e insindacabili dalla autorità giudiziaria e si traduce in una causa automatica di rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di difesa, per il quale l’istituto del legittimo impedimento a comparire è previsto». Né può seguirsi, secondo il Tribunale rimettente, una diversa interpretazione della legge censurata, tale da «salvaguarda[re] il sindacato del giudice in ordine alla natura dell’impedimento e alla sua continuatività»: una simile interpretazione, infatti, «si risolverebbe in una sostanziale disapplicazione della nuova legge» e contrasterebbe con la volontà del legislatore, quale espressamente palesata dall’art. 2 della legge censurata, secondo il quale «le nuove disposizioni si applicano al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge».



Alla luce di tali circostanze, il Tribunale rimettente ritiene che il meccanismo processuale previsto dalla disciplina censurata, sebbene qualificato come legittimo impedimento, rappresenti in realtà una «nuova prerogativa», «connessa all’esercizio delle cariche costituzionali di Presidente del Consiglio dei Ministri e di Ministro», e consistente in una «causa di sospensione del processo». Ma – osserva il giudice a quo – la previsione di una simile prerogativa, in quanto «derogatoria al principio di eguale sottoposizione alla legge e alla giurisdizione di tutti i cittadini», non può avvenire con legge ordinaria. Essa richiede necessariamente una fonte costituzionale, come affermato da questa Corte con la sentenza n. 262 del 2009 e come del resto riconosciuto dalla medesima disciplina censurata, che ha carattere temporaneo ed è rivolta ad anticipare gli effetti di una legge costituzionale recante una disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri.



2.2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari la questione di legittimità costituzionale sollevata inammissibile, in relazione all’art. 3 Cost., e comunque non fondata, in relazione al medesimo art. 3, nonché all’art. 138 Cost.



2.2.1. – Quanto all’asserita lesione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce preliminarmente la manifesta inammissibilità della questione, per non avere «il Tribunale rimettente esplicitato i motivi che fonderebbero la predetta violazione». Nel merito, la difesa dello Stato ritiene che le disposizioni censurate prevedano un «trattamento differenziato per i titolari delle cariche ivi indicate del tutto conforme al richiesto requisito della ragionevolezza e proporzionalità», essendo tali disposizioni dirette a pervenire, con specifico riferimento alla fattispecie del legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri imputato «ad un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale dell’organo costituzionale». Né può ritenersi, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, che la violazione dell’art. 3 Cost. dipenda da una illegittima differenziazione della posizione del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto a quella dei ministri, dal momento che la disciplina censurata si riferisce ad entrambe le cariche.



Con riguardo, invece, alla lamentata violazione dell’art. 138 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato deduce la non fondatezza della censura sulla base di argomenti testualmente identici a quelli svolti nell’atto di intervento riferito all’ordinanza di rimessione di cui al reg. ord. n. 173 del 2010.



2.2.2. – In data 23 novembre 2010, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, memoria illustrativa, ribadendo le ragioni dedotte con l’atto di intervento a sostegno dell’inammissibilità e dell’infondatezza della questione di costituzionalità sollevata. La difesa dello Stato formula ulteriori osservazioni in ordine alla manifesta inammissibilità e alla infondatezza della questione, sulla base di argomenti testualmente identici a quelli dedotti nella memoria riferita all’ordinanza di rimessione di cui al reg. ord. n. 173 del 2010.



2.3. – Si è costituito in giudizio, con atto depositato in data 5 luglio 2010, l’imputato nel giudizio principale, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile o, comunque, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata.



2.3.1. – L’imputato nel giudizio principale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità della questione sollevata, in ragione della omessa descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, tale da non permettere alla Corte di valutarne compiutamente la rilevanza. In particolare, l’ordinanza di rimessione conterrebbe, ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, una «laconica indicazione degli articoli del codice penale contestati all’imputato e delle coordinate spazio-temporali del capo di imputazione» e non fornirebbe una puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione» della norma censurata, né dello stato in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi al giudice a quo. Secondo l’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui la Corte «deve avere necessariamente contezza per potersi pronunciare», non potrebbero essere ricavati «ricorrendo alle deduzioni delle altre parti intervenute, o alla visione diretta del fascicolo del giudizio principale, o, addirittura, a fatti ritenuti notori».



L’imputato nel giudizio principale deduce poi, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto della rilevanza in concreto della questione sollevata dal giudice rimettente, per aversi la quale sarebbe «necessario che l’interpretazione non costituzionale della legge, oltre ad essere l’unica possibile, supporti ed orienti l’applicazione che nel medesimo contesto il giudice si accingerebbe a farne». Ciò non accadrebbe nel caso in esame, nel quale la difesa dell’imputato, all’udienza del 16 aprile 2010, da un lato, ha prospettato un legittimo impedimento per il giorno stesso, costituito dalla concomitante riunione del Consiglio dei ministri, e, dall’altro lato, ha prodotto attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri di legittimo impedimento continuativo fino al 21 luglio 2010.



Sulla base di tali circostanze, secondo l’imputato nel giudizio principale, la rilevanza in concreto difetterebbe per due ragioni.



In primo luogo, la questione sarebbe stata sollevata «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza dell’impedimento puntuale, valevole hic et nunc per l’udienza del 16 aprile 2010, dato dalla concomitante riunione del Consiglio dei Ministri». L’imputato nel giudizio principale chiarisce che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri è stata prodotta al solo fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i giorni del 21 e del 28 luglio 2010, date che però il Tribunale rimettente non avrebbe neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata.



In secondo luogo, l’imputato nel giudizio principale rileva che, ove pure «si ritenesse che la mera esibizione dell’attestazione […] equivalga a una richiesta di applicazione della stessa, pur in presenza di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno dell’udienza in cui avviene detta esibizione», tale attestazione si è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più di tre mesi, inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe quindi avuto, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè di una disciplina che produce una sospensione del dibattimento per tre mesi, mentre il giudice a quo «discetta in astratto di “rilevanti periodo di tempo” in cui potrebbe essere fatto valere il legittimo impedimento».



Nel merito, la parte privata sostiene che la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale rimettente in relazione all’art. 138 Cost., sia manifestamente infondata, per le ragioni indicate, con argomenti testualmente identici, nell’atto di costituzione relativo al giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010.



Relativamente, invece, all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., la parte privata osserva che «manca nell’ordinanza di rimessione qualunque valutazione relativa al tertium comparationis […] nonché alla ragionevolezza del bilanciamento di interessi operato» dalla disciplina censurata.



Sotto il primo profilo, viene rilevato che l’ordinanza di rimessione non chiarisce quali siano i soggetti rispetto ai quali la disciplina censurata «creerebbe sperequazioni: se rispetto al semplice cittadino, o ad altre cariche dello Stato, o a un Presidente del Consiglio dei Ministri e a dei Ministri tutelati da vere immunità costituzionali».



Sotto il secondo profilo, si osserva come il giudice a quo si limiti ad affermare che il meccanismo processuale denunciato è «causa automatica di rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di difesa», senza però impiegare alcuna altra argomentazione «per dare sostanza e contenuto all’asserita sproporzione» e, soprattutto, senza considerare il carattere temporaneo e transitorio della disciplina denunciata, suscettibile di influenzare significativamente il giudizio sulla ragionevolezza del bilanciamento di interessi da essa operato.



2.3.2. – In data 22 novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha depositato memoria illustrativa, insistendo perché la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata non fondata. La parte privata, in particolare, illustra le vicende del processo a quo, in relazione alla celebrazione delle udienze e alle richieste di rinvio, riproducendo le medesime argomentazioni svolte nella memoria riferita al giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010.



3. – Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, con ordinanza del 24 giugno 2010 (reg. ord. n. 304 del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 51 del 2010, per violazione dell’art. 138 Cost.



3.1. – Il giudice rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha avanzato, ai sensi della disciplina censurata, istanza di differimento dell’udienza preliminare alla data del 27 luglio 2010, producendo una attestazione della Segreteria della Presidenza del Consiglio dei ministri in cui viene dato atto di un impedimento continuativo, fino alla suddetta data, correlato alle funzioni di governo che l’imputato stesso è chiamato a svolgere nella sua qualità di attuale Presidente del Consiglio dei ministri. Il giudice a quo espone, inoltre, che, a fronte di tale richiesta di differimento, il pubblico ministero ha chiesto la fissazione di un calendario di udienze per i successivi mesi di settembre e ottobre e la difesa dell’imputato ha offerto la propria disponibilità, tuttavia precisando che «un’eventuale programmazione delle udienze dovrà comunque essere modulata sulla base dei futuri impegni istituzionali del proprio assistito, allo stato non individuabili».



Il giudice rimettente ritiene che, ai fini della decisione sull’istanza di differimento dell’udienza preliminare, occorra preliminarmente stabilire se, alla luce della disposizione legislativa censurata, «il giudice conservi il potere, stabilito dall’art. 420-ter del codice di procedura penale, di sindacare caso per caso se l’impedimento legittimo possa ritenersi assoluto per tutto il periodo in cui viene rappresentato e, come tale, legittimare la richiesta di rinvio dell’udienza». A tal fine, ad avviso del giudice a quo, la legge censurata deve essere interpretata tenendo conto della «ratio» dalla medesima indicata all’art. 2, cioè quella di regolare «le prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri e degli stessi Ministri in vista del sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite […] in attesa di una legge di rango costituzionale che valga ad attuarne un’organica e definitiva regolamentazione». Alla luce di tale circostanza, il giudice rimettente ritiene che, «a fronte di una certificazione governativa in cui vengano indistintamente richiamati gli impegni istituzionali non rinviabili presenti nell’agenda del Presidente del Consiglio dei ministri per un determinato arco temporale, senza alcun preciso riferimento in ordine alla relativa natura, frequenza e durata, al giudice sia precluso ogni sindacato in merito al carattere assoluto dell’impedimento così rappresentato».



Tuttavia, una simile qualificazione legislativa, vincolante per il giudice, di «legittimo impedimento continuativo correlato alle funzioni governo», si tradurrebbe in pratica, ad avviso del giudice rimettente, in una «sorta di temporanea esenzione dalla giurisdizione penale destinata a perdurare per tutto il tempo in cui l’incarico governativo viene ad essere ricoperto». Tale deroga al comune regime giurisdizionale costituirebbe una prerogativa in favore dei componenti di un organo costituzionale che, secondo quanto affermato da questa Corte, può essere introdotta solo con legge costituzionale. Del resto – osserva ancora il giudice a quo – lo stesso art. 2 della legge censurata, «nel rappresentarne il carattere temporaneo, pare essere consapevole della necessità che l’organico assetto delle prerogative dei componenti del Consiglio dei ministri sia attuato attraverso il meccanismo previsto dall’art. 138 Cost.». L’asserita violazione di quest’ultima disposizione costituzionale induce pertanto il giudice rimettente a sollevare d’ufficio, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, la quale, in quanto legge ordinaria, non potrebbe, «neppure per un periodo di tempo limitato, anticipare gli effetti di una legge di rango costituzionale».



3.2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.



La difesa dello Stato eccepisce innanzitutto l’inammissibilità «per difetto di rilevanza in concreto della questione di costituzionalità dedotta». L’Avvocatura generale dello Stato osserva, infatti, che, come emerge della stessa ordinanza di rimessione, alla richiesta di differimento dell’udienza preliminare per l’attestato impedimento dell’imputato, nessuna delle parti si è opposta, compreso il pubblico ministero, che ha chiesto la fissazione di un calendario di udienze per i successivi mesi di settembre e ottobre. In tale contesto, ad avviso della difesa dello Stato, il giudice rimettente avrebbe dovuto preliminarmente valutare la richiesta di rinvio ai sensi della norma generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. e, solo in caso di ritenuta inapplicabilità di tale disposizione, verificare l’applicabilità della norma speciale censurata. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, invece, il giudice rimettente avrebbe proceduto, «in astratto» e «senza fornire alcuna indicazione in ordine alla rilevanza della stessa con riferimento al processo in questione», a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma censurata, che si rivelerebbe, pertanto, inammissibile.



Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato deduce la non fondatezza della questione sollevata sulla base di argomenti testualmente identici a quelli svolti nell’atto di intervento riferito all’ordinanza di rimessione di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. La difesa dello Stato esclude, in particolare, che la disciplina censurata possa costituire una prerogativa costituzionale. Essa infatti sarebbe rivolta ad integrare la disciplina dell’istituto processuale generale del legittimo impedimento, il quale può ben essere regolato con legge ordinaria in quanto «prescinde dalla natura dell’attività che legittima l’impedimento medesimo, [è] di generale applicazione e pertanto non deroga al comune regime giurisdizionale».



3.3. – Si è costituito in giudizio, con atto depositato in data 26 ottobre 2010, l’imputato nel giudizio principale, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile o, comunque, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata.



3.3.1. – L’imputato nel giudizio principale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità della questione sollevata, in ragione della omessa descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale, tale da non permettere alla Corte di valutarne compiutamente la rilevanza. In particolare, l’ordinanza di rimessione, ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, non indicherebbe i reati contestati e il luogo e tempo della loro commissione, né fornirebbe una puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione» della norma censurata e dello stato in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi al giudice a quo. Secondo l’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui la Corte «deve avere necessariamente contezza per potersi pronunciare», non potrebbero essere ricavati «ricorrendo alle deduzioni delle altre parti intervenute, o alla visione diretta del fascicolo del giudizio principale, o, addirittura, a fatti ritenuti notori».



L’imputato nel giudizio principale deduce poi, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto della rilevanza in concreto della questione sollevata dal giudice rimettente. Rileva al proposito la parte privata, integrando la descrizione asseritamente imprecisa contenuta nell’ordinanza di rimessione, che, nel caso in esame, la difesa dell’imputato, all’udienza del 24 giugno 2010, da un lato, ha prospettato un legittimo impedimento per il giorno stesso, costituito dalla concomitante riunione del Consiglio dei ministri e dalla successiva partenza per un vertice internazionale in Canada, e, dall’altro lato, ha prodotto attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri di legittimo impedimento continuativo fino al 27 luglio 2010.



Sulla base di tali circostanze, secondo l’imputato nel giudizio principale, la rilevanza in concreto difetterebbe per due ragioni.



In primo luogo, la questione sarebbe stata sollevata «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza dell’impedimento puntuale, valevole hic et nunc per l’udienza del 24 giugno 2010, dato dal Consiglio dei ministri e dal viaggio di Stato in Canada». L’imputato nel giudizio principale chiarisce che l’attestazione della Presidenza del Consiglio è stata prodotta al solo fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i giorni del 21 e del 28 luglio, date che però il Tribunale rimettente non avrebbe neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata.



In secondo luogo, l’imputato nel giudizio principale rileva che, ove pure «si ritenesse che la produzione dell’attestazione […] equivalga a una richiesta di applicazione della stessa, pur in presenza di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno dell’udienza in cui avviene detta produzione», tale attestazione si è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più di un mese, ben inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe quindi avuto, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè ad una disciplina che produce una sospensione del dibattimento per poco più di un mese, mentre il giudice a quo «discetta in modo astratto ed impreciso di “una sorta di temporanea esenzione dalla giurisdizione penale destinata a perdurare per tutto il tempo in cui l’incarico governativo viene ad essere ricoperto”».



Nel merito, la parte privata sostiene che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale rimettente sia manifestamente infondata per le ragioni indicate, con argomenti testualmente identici, nell’atto di costituzione relativo al giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010.



3.3.2. – In data 22 novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha depositato memoria illustrativa, insistendo perché la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata non fondata. La parte privata illustra le vicende del processo a quo, in relazione alla celebrazione delle udienze e alle richieste di rinvio, riproducendo le medesime argomentazioni svolte nelle memorie riferite ai giudizi di cui al reg. ord. nn. 173 e 180 del 2010.



Considerato in diritto



1. – Il Tribunale di Milano, con tre distinte ordinanze della sezione I penale (reg. ord. n. 173 del 2010), della sezione X penale (reg. ord. n. 180 del 2010) e del Giudice per le indagini preliminari (reg. ord. n. 304 del 2010), solleva questione di legittimità costituzionale della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza). In particolare, la sezione X ha censurato l’intero testo della legge n. 51 del 2010, mentre il Giudice per le indagini preliminari ha censurato il solo articolo 1 e la sezione I soltanto i commi 1, 3 e 4 di tale articolo.



Tutte le ordinanze di rimessione sollevano questione di legittimità costituzionale della predetta disciplina in quanto essa introdurrebbe, con legge ordinaria, una prerogativa in favore dei titolari di cariche governative, in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e con l’art. 138 Cost. Tali disposizioni costituzionali sono entrambe esplicitamente indicate quali parametri violati nell’ordinanza di rimessione della sezione X e risultano implicitamente evocati, in congiunzione fra loro, anche nelle altre due ordinanze, benché queste ultime, testualmente, richiamino soltanto l’art. 138 Cost. La sezione X, inoltre, censura la legge n. 51 del 2010 anche in relazione all’art. 3 Cost., considerato autonomamente e sotto il profilo della ragionevolezza.



1.1. – La legge n. 51 del 2010 disciplina il legittimo impedimento a comparire in udienza, ai sensi dell’art. 420-ter del codice di procedura penale, del Presidente del Consiglio dei ministri (art. 1, comma 1) e dei ministri (art. 1, comma 2), in qualità di imputati. In particolare, in base all’art. 1, comma 3, di tale legge, il giudice, su richiesta di parte, rinvia il processo ad altra udienza quando ricorrono le ipotesi di impedimento a comparire individuate dal comma 1 (per il Presidente del Consiglio) e dal comma 2 (per i ministri) della medesima legge. In base a tale disciplina, costituisce legittimo impedimento «il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del Consiglio dei ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, delle relative attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo». Inoltre, l’art. 1, comma 4, della medesima legge, dispone che «ove la Presidenza del Consiglio dei Ministri attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi». L’art. 1, comma 5, della legge n. 51 del 2010 chiarisce che «il corso della prescrizione rimane sospeso per l’intera durata del rinvio». Tale disciplina si applica «anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della» medesima legge (art. 1, comma 6) e «fino alla data di entrata in vigore della legge costituzionale recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri, nonché della disciplina attuativa delle modalità di partecipazione degli stessi ai processi penali e, comunque, non oltre diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, salvi i casi previsti dall’articolo 96 della Costituzione, al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge» (art. 2).



1.2. – I giudici a quibus ritengono, in particolare, che la disciplina censurata individui con formule generiche e indeterminate le attività costituenti legittimo impedimento del titolare di una carica governativa e sottragga al giudice il potere di valutare in concreto l’impossibilità a comparire connessa allo specifico impegno addotto, soprattutto nell’ipotesi di impedimento continuativo, nella quale l’imputato potrebbe ottenere il rinvio mediante un «meccanismo di autocertificazione» di legittimo impedimento. Ciò costituirebbe, ad avviso dei rimettenti, una «presunzione assoluta di impedimento», collegata allo «status permanente» della titolarità della carica, o comunque una prerogativa o immunità del titolare, la quale, come ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 262 del 2009, non può essere introdotta con legge ordinaria.



L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa dell’imputato nei giudizi principali escludono che la disciplina censurata sia costituzionalmente illegittima, osservando, in particolare, come essa sia diretta ad «integrare» la disciplina processuale comune, contenuta nell’art. 420-ter cod. proc. pen., mediante una «tipizzazione» delle attività di governo che costituiscono legittimo impedimento a comparire in udienza.



2. – In ragione della loro connessione oggettiva, i giudizi devono essere riuniti, per essere congiuntamente trattati e decisi con un’unica pronuncia.



3. – Devono essere preliminarmente esaminati i profili che attengono all’ammissibilità delle questioni sollevate.



3.1. – Vanno dichiarate inammissibili le censure prospettate dalla sezione X (reg. ord. n. 180 del 2010) e dal Giudice per le indagini preliminari (reg. ord. n. 304 del 2010) del Tribunale di Milano, nella parte in cui si riferiscono all’art. 1, commi 2, 5 e 6, nonché all’art. 2 della legge n. 51 del 2010. Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge censurata non assumono rilevanza nei giudizi a quibus, nei quali tale disposizione non può trovare applicazione, in quanto riferita esclusivamente ai ministri e non al Presidente del Consiglio dei ministri, cioè alla carica di cui è titolare l’imputato nei giudizi principali. Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 5 e 6, e dell’art. 2 della legge n. 51 del 2010 sono inammissibili, atteso che tali norme non risultano in alcun modo investite dalle censure svolte nelle motivazioni delle ordinanze di rimessione.



3.2. – Vanno disattese le eccezioni dell’Avvocatura generale dello Stato e della difesa della parte privata, con le quali si deduce l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale riferite all’art. 1, commi 1, 3 e 4, della legge n. 51 del 2010.



3.2.1. – La difesa della parte privata e l’Avvocatura generale dello Stato eccepiscono, innanzitutto, relativamente a tutti e tre i giudizi, la insufficiente e lacunosa descrizione, compiuta dai giudici a quibus, delle fattispecie sottoposte al loro esame. Le denunciate carenze atterrebbero, in particolare, alla mancata indicazione del tipo di reati cui si riferisce l’imputazione, del luogo e data di commissione degli stessi, delle eventuali ipotesi di concorso con altre persone, della condizione soggettiva che legittima l’applicazione della norma censurata e dello stato in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi ai giudici a quibus.



L’eccezione non è fondata.



In primo luogo, va rilevato che l’ordinanza di rimessione della sezione X del Tribunale di Milano (reg. ord. n. 180 del 2010) contiene tutte le informazioni di cui si lamenta la mancanza. In secondo luogo, le altre due ordinanze di rimessione (reg. ord. n. 173 e n. 304 del 2010) indicano quale sia la condizione soggettiva che legittima l’applicazione della disciplina censurata (cioè la carica di Presidente del Consiglio dei ministri rivestita dall’imputato) e chiariscono che la richiesta di rinvio si riferisce ad una «udienza» disposta nel corso di un processo penale. Infine, l’indicazione del tipo, luogo e data di commissione dei reati contestati non costituisce un elemento necessario per la valutazione della rilevanza della questione sollevata, atteso che la disciplina censurata dispone la propria applicabilità a tutti i processi penali, anche in corso, senza distinguere in base alle caratteristiche del reato commesso, salvo il caso, pacificamente escluso dai rimettenti e dalla stessa parte privata, di applicazione dell’art. 96 Cost.



3.2.2. – L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, inoltre, che i giudici rimettenti avrebbero dovuto preliminarmente valutare la richiesta di rinvio dell’udienza ai sensi della norma generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. e, solo in caso di ritenuta inapplicabilità di tale disposizione, essi avrebbero dovuto verificare l’applicabilità della norma speciale censurata. Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe, pertanto, irrilevante, perché il giudice avrebbe potuto risolverla a prescindere dalla norma censurata.



L’eccezione non è fondata.



Il giudice non avrebbe potuto, applicando soltanto l’art. 420-ter cod. proc. pen., ignorare la disciplina censurata, che regola la fattispecie sottoposta al suo esame. Alla luce del comune regime processuale, il giudice avrebbe potuto rinviare l’udienza, riconoscendo l’assoluta impossibilità a comparire dovuta allo specifico impegno istituzionale addotto, ma in tal caso il rinvio sarebbe stato comunque subordinato all’esito di un accertamento giudiziale, che i rimettenti ritengono di non poter compiere a causa della intervenuta disciplina speciale, che proprio per tale ragione essi hanno censurato.



3.2.3. – La difesa della parte privata eccepisce, poi, l’inammissibilità per difetto di rilevanza in concreto della questione sollevata. Viene osservato, al riguardo, che nei giudizi a quibus il Presidente del Consiglio dei ministri ha addotto sia un impedimento puntuale per il giorno dell’udienza, sia un impedimento continuativo, attestato dalla Presidenza del Consiglio. Ad avviso della difesa dell’imputato nei giudizi principali, l’impedimento puntuale sarebbe stato prospettato per ottenere il rinvio dell’udienza specifica in relazione alla quale è stato presentato, mentre l’attestato di impedimento continuativo sarebbe stato prodotto solo ai fini della individuazione delle date utili per la prosecuzione del giudizio. Di conseguenza, ad avviso della parte privata, i giudici rimettenti avrebbero dovuto, prima, valutare l’impedimento puntuale ai fini del rinvio dell’udienza e, solo successivamente, «sindacare la fondatezza o meno della richiesta di rinvio per l’ulteriore periodo indicato con le modalità previste dalla legge in discussione». Al contrario, secondo la difesa dell’imputato, i giudici a quibus avrebbero sollevato la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata immediatamente e, pertanto, «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla medesima.



L’eccezione non è fondata.



In primo luogo, va osservato che il giudice non è chiamato ad applicare la disciplina censurata solo nel caso in cui venga addotto dall’imputato un impedimento continuativo, mediante l’attestato della Presidenza del Consiglio dei ministri, previsto dall’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010, ma anche quando sia dedotto un impegno specifico e puntuale, che il giudice deve valutare sulla base dell’art. 1, commi 1 e 3, della medesima legge. Queste ultime, quindi, sono disposizioni in relazione alle quali la questione di legittimità costituzionale sollevata deve ritenersi comunque rilevante. Inoltre, l’attestato della Presidenza del Consiglio dei ministri, presentato nei giudizi a quibus, comprende in realtà anche il giorno dell’udienza cui si riferisce la richiesta di rinvio. Esso, pertanto, non rileva nei giudizi principali solo ai fini della programmazione delle udienze future, ma anche ai fini del rinvio della specifica udienza nel corso della quale è stato presentato. Ne deriva che, sotto il profilo considerato, è rilevante la questione di legittimità costituzionale sia dei commi 1 e 3 dell’art. 1 della legge n. 51 del 2010, sia del comma 4 del medesimo articolo.



3.2.4. – La difesa della parte privata eccepisce, ancora, l’inammissibilità delle questioni sollevate per difetto di rilevanza, asserendo che, nei giudizi a quibus, l’attestazione della Presidenza del Consiglio si è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo inferiore al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Alla luce di ciò, secondo la difesa dell’imputato, la disciplina censurata avrebbe ricevuto una «applicazione parziale» e la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere conseguentemente formulata in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, determinando la sospensione del dibattimento per il tempo indicato in concreto nell’attestazione, e non per il tempo indicato in astratto dalla norma. Al contrario, la difesa dell’imputato lamenta che i giudici a quibus avrebbero «discett[ato] in astratto di “rilevanti periodi di tempo” in cui potrebbe essere fatto valere il legittimo impedimento».



L’eccezione non è fondata.



I giudici rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della disciplina censurata in quanto consente all’imputato di dedurre un impedimento continuativo per un «rilevante periodo di tempo». Tale formula si adatta sia al tempo massimo di sei mesi previsto dalla norma in astratto, sia al tempo inferiore, ma comunque significativo, previsto dall’attestato che in concreto è stato prodotto nei giudizi principali, in evidente applicazione, nel caso di specie, della norma censurata.



3.2.5. – Sia l’Avvocatura generale dello Stato, sia la difesa della parte privata, infine, eccepiscono l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, sollevata dalla sezione X del Tribunale di Milano (reg. ord. n. 180 del 2010), in relazione all’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza. Viene lamentato, in particolare, che il giudice a quo non avrebbe «esplicitato i motivi che fonderebbero la predetta violazione» e che mancherebbe «nell’ordinanza di rimessione qualunque valutazione relativa al tertium comparationis […] nonché alla ragionevolezza del bilanciamento di interessi operato» dalla disciplina censurata.



L’eccezione non è fondata.



In primo luogo, il giudice rimettente motiva la censura di irragionevolezza, osservando che «il rinvio [dell’udienza] è imposto da ragioni genericamente indicate e insindacabili dalla autorità giudiziaria e si traduce in una causa automatica di rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di difesa, per il quale l’istituto del legittimo impedimento a comparire è previsto». In secondo luogo, gli argomenti in base ai quali il rimettente afferma esservi lesione degli artt. 3 e 138 Cost., tra cui in particolare il carattere generale e automatico delle presunzioni di legittimo impedimento introdotte dalla disciplina censurata, sorreggono anche la prospettata irragionevolezza di quest’ultima. Né, in tale ultimo caso, si pone un problema di indicazione del tertium comparationis.



4. – Al fine di decidere nel merito le questioni sollevate dai giudici a quibus, è necessario, preliminarmente, inquadrare il problema generale del legittimo impedimento del titolare di un organo costituzionale, alla luce dei principi al riguardo affermati da questa Corte.



4.1. – Sotto tale profilo assumono rilievo, innanzitutto, le pronunce con le quali è stata valutata la legittimità costituzionale di norme sulla sospensione dei processi per le alte cariche dello Stato (sentenze n. 262 del 2009 e n. 24 del 2004). Questa Corte ha stabilito che una presunzione assoluta di legittimo impedimento del titolare di una carica governativa, quale meccanismo generale e automatico introdotto con legge ordinaria, è costituzionalmente illegittima, in quanto rivolta a tutelare lo stesso mediante una deroga al regime processuale comune e, quindi, a creare una prerogativa, in violazione degli artt. 3 e 138 Cost. Una simile presunzione, secondo il ragionamento sviluppato nella sentenza n. 262 del 2009, costituisce deroga e non applicazione delle regole generali sul processo, le quali, in particolare, consentono di differenziare «la posizione processuale del componente di un organo costituzionale solo per lo stretto necessario, senza alcun meccanismo automatico e generale».



Devono poi essere considerate le pronunce sui conflitti di attribuzione proposti dalla Camera dei deputati nei confronti dell’autorità giudiziaria e riguardanti il mancato riconoscimento, da parte di quest’ultima, di legittimi impedimenti dell’imputato consistenti nella partecipazione ai lavori parlamentari (sentenze n. 451 del 2005, n. 284 del 2004, n. 263 del 2003, n. 225 del 2001). Questa Corte ha chiarito che la posizione dell’imputato parlamentare «non è assistita da speciali garanzie costituzionali» e nei suoi confronti trovano piena applicazione «le generali regole del processo» (sentenza n. 225 del 2001). Essa ha tuttavia anche affermato che, nell’applicazione di tali comuni regole processuali, il giudice deve esercitare il suo potere di «apprezzamento degli impedimenti invocati» dall’imputato parlamentare, «tene[ndo] conto non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri» (sentenza n. 225 del 2001), operando quindi un «ragionevole bilanciamento fra le due esigenze […] della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento» (sentenza n. 263 del 2003), in particolare programmando «il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari» (sentenza n. 451 del 2005). Non vi può essere, dunque, applicazione di regole derogatorie, ma il diritto comune deve applicarsi secondo il principio di leale collaborazione fra i poteri dello Stato.



4.2. – Alla luce di tali principi, è rilevante, ai fini della verifica della legittimità costituzionale della disciplina censurata, stabilire se quest’ultima, a prescindere dal suo carattere temporaneo, rappresenti una deroga al regime processuale comune, che è in particolare quello previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen. Esso rappresenta il termine di riferimento per valutare se la normativa censurata, derogando alle ordinarie norme processuali, introduca, con legge ordinaria, una prerogativa la cui disciplina è riservata alla Costituzione, violando il principio della eguale sottoposizione dei cittadini alla giurisdizione e ponendosi, quindi, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost. La disciplina oggetto di censura sarà dunque da ritenersi illegittima se, e nella misura in cui, alteri i tratti essenziali del regime processuale comune. In base ad esso, l’impedimento dedotto dall’imputato non può essere generico e il rinvio dell’udienza da parte del giudice non può essere automatico. Sotto il primo profilo, l’imputato ha l’onere di specificare l’impedimento, potendo egli addurre come tale un preciso e puntuale impegno e non già una parte della propria attività genericamente individuata o complessivamente considerata. Sotto il secondo profilo, il giudice deve valutare in concreto, ai fini del rinvio dell’udienza, lo specifico impedimento addotto.



5. – Per quanto le censure dei giudici a quibus si riferiscano alle disposizioni della legge n. 51 del 2010 considerate nel loro insieme, e sebbene tali disposizioni rispondano ad un comune motivo ispiratore, tuttavia la disciplina censurata non si presenta come unitaria sotto il profilo strutturale.



Essa, infatti, si articola in più componenti, ciascuna delle quali è suscettibile di ricevere una autonoma qualificazione dal punto di vista della coerenza con la disciplina processuale comune e, quindi, anche una diversa valutazione dal punto di vista della verifica di legittimità costituzionale. Questa deve essere condotta separatamente, in relazione alle disposizioni contenute nei tre distinti commi dell’art. 1 della legge n. 51 del 2010, cui si riferiscono le censure dei giudici rimettenti: il comma 1, che indica le attribuzioni del Presidente del Consiglio dei ministri costituenti legittimo impedimento; il comma 3, che disciplina il rinvio dell’udienza, da parte del giudice, quando ricorrono le ipotesi previste dai precedenti commi; il comma 4, che regola l’ipotesi di impedimento continuativo e attestato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.



5.1. – L’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 prevede quanto segue: «Per il Presidente del Consiglio dei Ministri costituisce legittimo impedimento, ai sensi dell’articolo 420-ter del codice di procedura penale, a comparire nelle udienze dei procedimenti penali, quale imputato, il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del Consiglio dei Ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, delle relative attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo».



Per la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni sollevate dai giudici a quibus non sono fondate, nei termini di seguito precisati.



Ad avviso dei rimettenti, la disciplina censurata, anziché identificare alcune ipotesi rigorosamente e tassativamente circoscritte di impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, contemplerebbe una presunzione assoluta di legittimo impedimento riferita ad una serie ampia e indeterminata di funzioni, in definitiva coincidenti con l’intera attività del titolare della carica governativa.



Non vi è dubbio che, ove fosse in tal modo intesa, la disposizione in esame sarebbe illegittima, in quanto derogatoria rispetto al regime processuale comune e, quindi, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost., per le ragioni indicate da questa Corte nella sentenza n. 262 del 2009. Tuttavia, una disposizione legislativa può essere dichiarata illegittima solo quando non sia possibile attribuire ad essa un significato compatibile con la Costituzione, cioè, nella fattispecie in esame, ove non sia possibile ricondurla nel solco della disciplina comune, interpretandola in conformità con l’istituto processuale generale di cui è espressione l’art. 420-ter cod. proc. pen.



Ciò è possibile in considerazione del fatto che l’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 richiama espressamente l’art. 420-ter cod. proc. pen., nonché del fatto che, con la disposizione censurata, il legislatore sembra aver voluto introdurre – come risulta dai lavori preparatori – una «mera norma interpretativa dell’ambito di applicazione di un istituto processuale» (relazione in aula, Camera dei deputati, Assemblea, seduta del 25 gennaio 2010, e Senato della Repubblica, Assemblea, 347a seduta pubblica antimeridiana, martedì 9 marzo 2010).



Come ha sostenuto la difesa dell’imputato, sia negli atti scritti, sia nel corso dell’udienza pubblica, la disposizione censurata «non comporta una presunzione assoluta di legittimo impedimento» e «non impone alcun automatismo». Essa introduce un criterio volto ad orientare il giudice nell’applicazione dell’art. 420-ter cod. proc. pen., e segnatamente del comma 1 di tale disposizione, mediante l’individuazione, in astratto, delle categorie di attribuzioni governative a tal fine rilevanti. Il legislatore, peraltro, sembra aver recepito al riguardo, sviluppandolo, un orientamento della Corte di cassazione, secondo cui costituiscono legittimo impedimento, in base all’art. 420-ter cod. proc. pen., le attività del titolare di una carica governativa che siano «coessenziali alla funzione tipica del Governo» (sentenza della Corte di cassazione, sez. sesta penale, 9 febbraio 2004 – 9 marzo 2004, n. 10773). Questa espressione è ripresa dall’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 e assurge ad elemento qualificativo di tutte le ipotesi di legittimo impedimento da tale disposizione previste, come è dimostrato dalla circostanza che le attività coessenziali alla funzione di governo sono poste a chiusura della formulazione normativa e che l’avverbio «comunque» introduce un collegamento fra il requisito della coessenzialità e le attribuzioni governative previste da leggi e regolamenti (genericamente e specificamente indicate). Deve pertanto ritenersi che, in base a questo criterio posto dal legislatore, le categorie di attività qualificate, in astratto, come legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri sono solo quelle coessenziali alle funzioni di Governo, che siano previste da leggi o regolamenti (e in particolare dalle fonti normative espressamente citate nella disposizione censurata), nonché quelle rispetto ad esse preparatorie (cioè specificamente preordinate) e consequenziali (cioè immediatamente successive e strettamente conseguenti).



Simile criterio legislativo è compatibile con i tratti essenziali del regime processuale comune. La disposizione censurata non consente al Presidente del Consiglio dei ministri di addurre come impedimento il generico dovere di esercitare le attribuzioni da essa previste, occorrendo sempre, secondo la logica dell’art. 420-ter cod. proc. pen., che l’imputato specifichi la natura dell’impedimento, adducendo un preciso e puntuale impegno riconducibile alle ipotesi indicate. Ciò naturalmente vale anche per le attività «preparatorie e consequenziali», a proposito delle quali deve ritenersi che l’onere di specificazione, sempre gravante sull’imputato, si riferisca sia all’impedimento principale (l’esercizio di attribuzione coessenziale), sia a quello accessorio (l’attività preparatoria o consequenziale). In altri termini, il Presidente del Consiglio dei ministri dovrà indicare un preciso e puntuale impegno, che abbia carattere preparatorio o consequenziale rispetto ad altro preciso e puntuale impegno, quest’ultimo riconducibile ad una attribuzione coessenziale alla funzione di governo prevista dall’ordinamento.



Né può ritenersi che il criterio posto dal legislatore sia irragionevole o sproporzionato, dal momento che esso è ancorato alla elaborazione giurisprudenziale e non copre l’intera attività del titolare della carica, ma solo le attribuzioni che possano essere qualificate in termini di coessenzialità rispetto alle funzioni di governo.



Tale criterio legislativo, infine, rispetto alla disciplina già ricavabile dall’art. 420-ter cod. proc. pen., ha un effetto di chiarificazione della portata dell’istituto processuale comune, nelle ipotesi in cui esso debba trovare applicazione in riferimento ad impedimenti consistenti nell’esercizio di funzioni di governo. In termini negativi, il giudice non riconoscerà come impedimenti legittimi, in applicazione del criterio legislativo, impegni politici non qualificati, cioè non riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di governo, pur previste da leggi o regolamenti. In termini positivi, ove venga addotto un impedimento riconducibile a tale tipologia di attribuzioni, il giudice non potrà disconoscerne il rilievo in astratto, fermo restando il suo potere, non sottrattogli dalla disposizione in esame, di valutare in concreto lo specifico impedimento addotto.



Deve dunque concludersi che non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, per la parte in cui si riferiscono all’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, in quanto tale disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen.



5.2. – L’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010 dispone: «Il giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti rinvia il processo ad altra udienza».



Per la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni sollevate dai giudici a quibus sono fondate, nei termini di seguito precisati.



L’art. 1, comma 3, della legge censurata regola i poteri del giudice in ordine all’accertamento del legittimo impedimento, ai fini del conseguente rinvio dell’udienza, in relazione alla quale tale impedimento è dedotto. Occorre stabilire se la disciplina dettata da tale disposizione sia conforme alla corrispondente regolamentazione contenuta nell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., secondo la quale il giudice rinvia l’udienza quando «risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento». La norma censurata deve considerarsi legittima, in altri termini, a condizione che essa non sottragga al giudice, in relazione alle specifiche ipotesi di impedimento del titolare di funzioni di governo, i poteri di valutazione dell’impedimento addotto, che al giudice stesso sono riconosciuti in base al comune regime processuale.



L’Avvocatura generale dello Stato e la parte privata hanno sostenuto che la disciplina censurata non abbia privato il giudice del potere di valutazione dell’impedimento, previsto dall’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Il giudice conserverebbe sia il potere di valutare la prova della sussistenza in fatto dell’impedimento, sia quello di accertare che tale impedimento «rientri fra le ipotesi previste» dalle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 della legge censurata. Ulteriori poteri di controllo risulterebbero, invece, preclusi al giudice, indipendentemente dalla legge n. 51 del 2010. Sarebbe infatti il principio della separazione dei poteri ad impedire che il giudice possa «sindacare il merito dell’attività di governo», valutando «le ragioni politiche sottese all’esercizio» delle attività del Presidente del Consiglio dei ministri, carica cui sarebbe oltretutto da riconoscere una «nuova fisionomia» in quanto ricoperta da «persona che ha avuto direttamente la fiducia e l’investitura dal popolo». Tali affermazioni ricostruiscono correttamente gli effetti della disposizione di cui all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, ma non altrettanto correttamente colgono il significato e la portata dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., della posizione costituzionale del Presidente del Consiglio dei ministri e del principio della separazione dei poteri.



Va osservato che l’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, subordina il rinvio dell’udienza, da parte del giudice, esclusivamente ad un duplice riscontro. Nel verificare che «ricorr[a]no le ipotesi di cui ai precedenti commi», il giudice dovrebbe infatti limitarsi ad accertare, da un lato, che l’impegno dedotto dall’imputato come impedimento sussista realmente in punto di fatto, e, dall’altro lato, che esso sia riconducibile ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo previste da leggi o regolamenti (o abbia carattere preparatorio o consequenziale rispetto ad esse). Ma tali accertamenti non esauriscono lo spettro dei poteri di valutazione dell’impedimento, che sono esercitati dal giudice in base alla disciplina generale di cui all’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Secondo tale disciplina, infatti, spetta al giudice, ai fini del rinvio dell’udienza, valutare in concreto non solo la sussistenza in fatto dell’impedimento, ma anche il carattere assoluto e attuale dello stesso. Ciò implica in particolare, con riferimento alle ipotesi in esame, il potere del giudice di valutare, caso per caso, se lo specifico impegno addotto dal Presidente del Consiglio dei ministri, pur quando riconducibile in astratto ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo ai sensi della legge censurata, dia in concreto luogo ad impossibilità assoluta (anche alla luce del necessario bilanciamento con l’interesse costituzionalmente rilevante a celebrare il processo) di comparire in giudizio, in quanto oggettivamente indifferibile e necessariamente concomitante con l’udienza di cui è chiesto il rinvio. Tale potere di apprezzamento in concreto dell’impedimento, che è elemento essenziale della disciplina comune del legittimo impedimento, non è però previsto dalla disposizione censurata, né esso è ricavabile in via interpretativa, atteso che la norma in questione non richiama espressamente l’art. 420-ter cod. proc. pen. e detta una disciplina che, sul punto, sostituisce e non integra quella contenuta nella predetta norma del codice di rito. La mancanza di tale elemento, pertanto, attribuisce all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010 un carattere derogatorio rispetto al diritto comune. Per i motivi già chiariti, ciò si traduce in un vizio di costituzionalità di tale disposizione, che deve essere pertanto dichiarata illegittima nella parte in cui non prevede siffatto potere di valutazione in concreto dell’impedimento.



Né può ritenersi che l’esercizio di un simile potere, nelle ipotesi in cui l’impedimento consista nello svolgimento di funzioni di governo, sia di per sé lesivo delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri, o si ponga in contrasto con il principio della separazione dei poteri. Va detto, innanzitutto, che la disciplina elettorale, in base alla quale i cittadini indicano il «capo della forza politica» o il «capo della coalizione», non modifica l’attribuzione al Presidente della Repubblica del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, operata dall’art. 92, secondo comma, Cost., né la posizione costituzionale di quest’ultimo. A prescindere da ciò, quando il giudice valuta in concreto, in base alle ordinarie regole del processo, l’impedimento consistente nell’esercizio di funzioni governative, si mantiene entro i confini della funzione giurisdizionale e non esercita un sindacato di merito sull’attività del potere esecutivo, né, più in generale, invade la sfera di competenza di altro potere dello Stato.



È vero, peraltro, che in simili ipotesi l’esercizio della funzione giurisdizionale ha una incidenza indiretta sull’attività del titolare della carica governativa, incidenza che è obbligo del giudice ridurre al minimo possibile, tenendo conto del dovere dell’imputato di assolvere le funzioni pubbliche assegnategli. Il principio della separazione dei poteri non è, dunque, violato dalla previsione del potere del giudice di valutare in concreto l’impedimento, ma, eventualmente, soltanto dal suo cattivo esercizio, che deve rispondere al canone della leale collaborazione. Quest’ultimo principio ha carattere bidirezionale, nel senso che esso riguarda anche il Presidente del Consiglio dei ministri, la programmazione dei cui impegni, in quanto essi si traducano in altrettante cause di legittimo impedimento, è suscettibile a sua volta di incidere sullo svolgimento della funzione giurisdizionale. Trova pertanto applicazione, anche nel caso del titolare di funzione governativa, quanto questa Corte ha affermato con riferimento al legittimo impedimento di membri del Parlamento, tanto più che, a differenza di questi ultimi, il Presidente del Consiglio dei ministri ha il potere di programmare una quota significativa degli impegni che possono costituire legittimo impedimento (sentenze n. 451 del 2005, n. 284 del 2004, n. 263 del 2003, n. 225 del 2001). La leale collaborazione deve esplicarsi mediante soluzioni procedimentali, ispirate al coordinamento dei rispettivi calendari. Per un verso, il giudice deve definire il calendario delle udienze tenendo conto degli impegni del Presidente del Consiglio dei ministri riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di governo e in concreto assolutamente indifferibili. Per altro verso, il Presidente del Consiglio dei ministri deve programmare i propri impegni, tenendo conto, nel rispetto della funzione giurisdizionale, dell’interesse alla speditezza del processo che lo riguarda e riservando a tale scopo spazio adeguato nella propria agenda.



Deve, dunque, concludersi che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti, in quanto si riferiscono all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, sono fondate, nella parte in cui tale disposizione non prevede il potere del giudice di valutare in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., l’impedimento addotto.



5.3. – L’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010 dispone: «Ove la Presidenza del Consiglio dei Ministri attesti che l'impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi».



Per la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni sollevate dai giudici a quibus sono fondate.



La norma in esame, a differenza di quelle di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 1, non opera un diretto rinvio all’art. 420-ter cod. proc. pen. e introduce nell’ordinamento una peculiare figura di legittimo impedimento consistente nell’esercizio di funzioni di governo, connotata dalla continuatività dell’impedimento stesso e dalla attestazione di esso da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri. Tali elementi rappresentano tuttavia una alterazione, e non già una integrazione o applicazione, della disciplina dell’istituto generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. Si tratta, pertanto, di una disposizione derogatoria del regime processuale comune, che introduce una prerogativa in favore del titolare della carica, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost.



In primo luogo, l’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010, diversamente da quanto disposto dall’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., prevede che l’imputato possa dedurre, anziché un impedimento puntuale e riferito ad una specifica udienza, un impedimento continuativo riferito a tutte le udienze eventualmente programmate o programmabili entro un determinato intervallo di tempo, che non può essere superiore a sei mesi (ma la norma non vieta che alla scadenza possa essere rinnovato l’attestato di impedimento continuativo). In tal modo, la disposizione in esame esclude, almeno parzialmente, l’onere di specificazione dell’impedimento che, ai sensi dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., grava sull’imputato. Essa consente infatti a quest’ultimo di dedurre come impedimento il generico dovere di svolgere funzioni di governo in un determinato periodo di tempo. Ciò rende impossibile la verifica del giudice circa la sussistenza e consistenza di uno specifico e preciso impedimento. Né può ritenersi che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri debba specificare, giorno per giorno, tutti gli impegni che rendono assolutamente impossibile la presenza in udienza dell’imputato nel corso del periodo di tempo considerato. Una simile interpretazione della disposizione renderebbe inutile la previsione di una apposita figura di impedimento continuativo e, del resto, non è stata seguita, in sede applicativa, dalla Presidenza del Consiglio, le cui attestazioni, nelle fattispecie oggetto dei giudizi principali, hanno indicato succintamente e solo in via esemplificativa alcuni degli impegni del Presidente del Consiglio dei ministri compresi in un periodo di tempo considerato.



In secondo luogo, va osservato che il tenore testuale della disposizione in esame ricollega l’effetto del rinvio del processo, per la durata dell’impedimento continuativo, alla attestazione della Presidenza del Consiglio. È previsto, infatti, che il giudice rinvia il processo non già quando «risulti», ma «ove la Presidenza del Consiglio dei Ministri attesti» che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di governo. In tal modo, il rinvio costituisce un effetto automatico dell’attestazione, venendo meno il filtro della valutazione del giudice e, più in generale, di una valutazione indipendente e imparziale, dal momento che l’attestazione risulta affidata ad una struttura organizzativa di cui si avvale, in ragione della propria carica, lo stesso soggetto che deduce l’impedimento in questione.



Per tutte queste ragioni, l’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010 produce effetti equivalenti a quelli di una temporanea sospensione del processo ricollegata al fatto della titolarità della carica, cioè di una prerogativa disposta in favore del titolare. Si tratta, pertanto, di una previsione normativa costituzionalmente illegittima.



per questi motivi



LA CORTE COSTITUZIONALE



riuniti i giudizi,



dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza);



dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., l’impedimento addotto;



dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1, commi 2, 5 e 6, e all’art. 2 della legge n. 51 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, dal Tribunale di Milano, sezione X penale, e dal Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze indicate in epigrafe;



dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, dal Tribunale di Milano, sezione I penale e sezione X penale, e dal Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze indicate in epigrafe, in quanto tale disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen.



Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2011.



F.to:



Ugo DE SIERVO, Presidente



Sabino CASSESE, Redattore



Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere



Depositata in Cancelleria il 25 gennaio 2011.



Il Cancelliere



F.to: FRUSCELLA